SPERANZA E DELUSIONE

SPERANZA E DELUSIONE

L’ANALISI SUL VOTO EUROPEO DI GALLI DELLA LOGGIA- SI APRE ORA UNA FASE POLITICA NUOVA, PIENA DI INCOGNITE- E’ SALTATO TUTTO, ANCHE IL RUOLO DEI PARTITI, MENTRE SI ASPETTA IL SALVATORE DELLA PATRIA

Prosegue inarrestabile il distacco del quadro politico italiano dal passato. Da tutto il passato: da quello della prima Repubblica come della seconda. È il frutto di una vorticosa mobilità elettorale che da un anno all’ altro, ad esempio, vede dimezzati i voti complessivi dei 5Stelle o in molte zone della Penisola Forza Italia ridotta brutalmente sulla soglia dell’irrilevanza.

Elemento forse ancor più significativo di questa frattura rispetto a ciò che valeva fino a ieri è la scarsa capacità di richiamo che domenica scorsa hanno manifestato due componenti primarie, in buona parte tradizionali, della piattaforma ideologica del centro-sinistra: da un lato l’appello antifascista e dall’ altro l’invito della gerarchia cattolica a un voto questa volta contro il «sovranismo».

Ma nei fatti l’ipotesi che poche decine di energumeni di CasaPound e Forza Nuova e qualche frase fuori luogo del ministro dell’Interno annunciassero l’arrivo di un’onda nera sul Paese non è apparsa molto convincente.

Allo stesso modo, il rosario impudicamente agitato da Salvini sembra avere avuto sul voto cattolico (se ancora esiste) un richiamo ben più vasto degli ammonimenti di una Chiesa in caduta libera di credibilità per il silenzio sulle malefatte sessuali dei suoi membri e per la sconsiderata richiesta di un’accoglienza senza limiti nei confronti degli immigrati.

Il risultato di entrambi gli appelli è stato insomma deludente. Ed è anche questo che contribuisce a spiegare perché a conti fatti il successo del Pd sia stato molto più apparente che reale (6 milioni e 50 mila voti oggi contro i 6 milioni e 134 mila l’anno scorso: vale a dire oltre 80 mila voti in meno).

In realtà il risultato di domenica ricorda molto da vicino quello delle elezioni europee del 2014, le quali, viste oggi, appaiono come l’inizio di un ciclo politico scandito dall’ avvicendarsi incalzante del binomio speranza/delusione. Lo strepitoso successo di Renzi di quell’ anno assomiglia per molti aspetti a quello odierno e altrettanto strepitoso di Salvini.

Dietro entrambi c’ è l’eguale attesa di una gran parte dell’elettorato, che, andata delusa cinque anni fa, ora è ritornata a esprimersi con prepotenza nascendo da una consapevolezza anch’ essa sempre eguale. E cioè che il Paese ha bisogno di una scossa, di una svolta netta, di iniziative nuove e coraggiose a cominciare da quelle necessarie per far ripartire l’economia. Che non possiamo più continuare così: con l’ arcaica burocrazia di sempre, con una giustizia tardigrada, con il mare di leggi e di regolamenti che si accavallano, si contraddicono e ci paralizzano, con i decreti attuativi non attuati, con il Tar, con l’ evasione fiscale, il bicameralismo perfetto, i fondi stanziati per una qualunque destinazione e dopo anni non spesi, i cantieri aperti e subito fermi, con il ceto politico-amministrativo di sempre e, se nuovo, regolarmente peggiore del precedente.

E in più la consapevolezza che per cercare di cambiare tutto ciò è necessario una leadership forte, risoluta, dalle convinzioni chiare e intelligenti, dalla parola incisiva. Anche perché nel frattempo la situazione internazionale del Paese si va facendo ogni giorno più difficile, tra scenari che mutano pericolosamente, un aspro contenzioso con la Ue e potenziali masse di migranti in arrivo.

Il Renzi della «rottamazione», il Renzi del 40 per cento della primavera del 2014, apparve per qualche momento in grado di soddisfare questa attesa diffusa, di realizzare la svolta voluta dal grande partito del «non ne possiamo più». Sappiamo come è andata a finire. Incapsulato nella sua autoreferenzialità, accecato dalla sua vanesia spigliatezza – ma ancor di più dalla sua scarsa preparazione culturale, destinata inevitabilmente a trasformarsi in miopia politica – con il referendum costituzionale andò a sbattere contro il muro d’ acciaio dell’eterno potere italiano. Contro l’immobilismo dell’establishment travestito da difesa dei sacri principi.

La tornata elettorale successiva, l’anno scorso, ecco allora che, preso atto del fallimento di Renzi, le speranze di rinnovamento si concentrano sui 5Stelle. Dunque gigantesca vittoria di Di Maio e compagni, ma con il seguito poi di un deludentissimo anno di governo nazionale e locale.

Con una sindaca di Roma pateticamente inetta e quella di Torino molto mediocre, con la penosa impressione suscitata da ministri dalle idee confuse, da una totale incertezza di decisioni e di prospettive, da fanfaronate ridicole sulla miseria sconfitta una volta per tutte, e da cento altre gaffe e pochezze varie.

E così domenica la giostra ha ripreso a girare con la nuova puntata del partito del «non se ne può più» su quello che stavolta è sembrato l’uomo nuovo in grado di cominciare a rimettere in sesto il Paese, Matteo Salvini. Non è vero come si è letto sul Fatto quotidiano che la gente ormai vota come twitta. È che ormai in questo Paese da tempo non esistono più culture politiche, idee, programmi. Che da tempo anche le vecchie identità e le vecchie paure, i vincoli di schieramento, le preclusioni ideologiche, i «non possumus» più o meno storici, sono tutti variamente saltati: sono cose che non hanno più corso o quasi. Di conseguenza le elezioni non sono più una competizione fra orientamenti radicati, fra opzioni politiche in qualche modo collaudate.

Tendono piuttosto ad assomigliare per un verso a una decimazione e per un altro a una lotteria. Sono la ricerca sempre più nervosa, sempre più incalzante, di una soluzione che però continua a mancare: trasformandosi alla fine nella pura ricerca di un demiurgo. Esito paradossale di un sistema politico che, partito da una Costituzione fondata per intero sulle entità collettive, sui partiti, nel più assoluto rifiuto di qualunque ruolo personale (perfino come si sa di quello del Presidente del Consiglio, che da noi è un semplice «primus inter pares») si ritrova già da tempo a invocare un salvatore della patria.

Ernesto Galli della Loggia per il Corriere della Sera

LA VERGOGNA

LA VERGOGNA

Papà cercò di uccidere mamma una domenica di giugno

Torna dopo quasi vent’anni, in una nuova raffinata traduzione, il romanzo-memoir che fonda la poetica di Annie Ernaux. «La vergogna è stata il motore di tutto. E prima ancora: la vergogna di avere vergogna»

«Mio padre ha voluto uccidere mia madre una domenica di giugno, nel primo pomeriggio». Sotto la freddezza di uno stile asciutto, levigato da una ricerca di essenzialità mai fine a sé stessa, bruciano le pagine di questo libro di Annie Ernaux. È uno scoppio violento, seguito da singhiozzi, grida e poi la calma: «Più tardi siamo andati tutti e tre a fare una passeggiata in bicicletta nelle campagne dei dintorni». Tornati a casa i genitori hanno riaperto il bar come ogni domenica sera. «Non se n’è parlato mai più».

Annie Ernaux (1940) è una scrittrice francese, insegnante di liceo, femminista e pubblicista. Nei suoi romanzi autobiografici descrive gli avvenimenti principali della sua vita, dall’aborto, alla morte della madre, il suo innamoramento per un cittadino russo. Ha ricevuto numerosi premi letterari grazie al suo stile di scrittura, in grado di unire diversi generi, dalla prosa, alla diaristica, all’ autobiografia, al romanzo sociologicoa. 

Dalla villetta di Cergy-Préfecture, nei dintorni di Parigi, dove abita con i gatti Sam e Zoe («sono i padroni di casa, esigono di entrare e uscire a loro piacimento e io non posso immaginare di vivere senza di loro»), Ernaux, diventata anche in Italia, grazie a L’orma, «la scrittrice che tutti devono leggere», parla de La vergogna, romanzo-memoir che scavando nel sottosuolo dell’infanzia disseppellisce un dolore remoto ma anche un’epoca (e un luogo) con le sue regole, i suoi riti, la sua lingua. La piccola casa editrice romana che sta riportando in Italia tutti i titoli di Annie Ernaux, lo pubblica nella raffinata e sensibile traduzione di Lorenzo Flabbi, con un titolo più appropriato rispetto a quello della prima edizione Rizzoli che nel 1999 lo mandò in libreria come L’onta. La vergogna coglie l’esatto momento in cui il quotidiano confronto tra Annie, figlia di una famiglia contadina-operaia, non istruita, e le compagne della scuola privata che frequenta, tutte borghesi, esplode illuminando la ferocia dello «sguardo degli altri» .

«La vergogna» è stato scritto nel 1995 e fa riferimento alla dodicenne che lei era nel 1952. Il 15 giugno, quando assiste alla scena in cui suo padre cerca di uccidere sua madre, è la prima data precisa della sua infanzia. Quell’episodio resta, per molto tempo, «un terrore senza parole». Ne parla per la prima volta in questo libro e, dopo essere riuscita a raccontarlo, dice di avere« l’ impressione che si tratti di un episodio banale, più frequente nelle famiglie di quanto non avesse immaginato ». La narrazione rende normale qualunque gesto, anche il più drammatico?

«Credo che riuscire a scrivere ciò che non si è mai osato scrivere, dare voce a ciò che è vergognoso o terribile, significhi farlo diventare una cosa fuori di sé, qualcosa di altro, più che dirlo a qualcuno perché in quel caso c’è sempre il peso di uno sguardo. Detto questo, non essere in grado di scrivere di questa scena per decenni dimostra anche che io temevo uno sguardo invisibile. Averlo scritto mi ha mostrato che questo era un’illusione, una forma di senso di colpa».

Ad un certo punto sembra convinta che sia stata quella scena a spingerla a scrivere. È così?

«Questa scena non ha determinato il mio desiderio di scrivere, venuto dopo, a 20 anni. Questa scena è sempre stata nella mia memoria marchiata da un sentimento di vergogna, una vergogna che però non analizzavo. Era difficile farlo, se non tornando al mondo dei miei 12 anni. La descrizione della scena è la porta d’accesso alla scrittura di questo libro, alla vergogna sociale in generale».

Lei scrive: «La donna che sono nel ’95 è incapace di rimettersi nei panni della ragazzina del ’52 che conosceva soltanto la sua cittadina, la sua famiglia, la sua scuola privata e aveva a disposizione un vocabolario ridotto. Il punto è che «non esiste un’autentica memoria di sé». Rileggendolo ora, vent’anni dopo, quella ragazzina è ancora come la vedeva nel ’95?

«Scrivere ha questo di particolare: che “solidifica” un’immagine di sé in un dato momento. Non so più come vedevo questa ragazza di 12 anni mentre scrivevo: il risultato è la figlia del libro, nel libro. E leggendo di nuovo, mi sono detta che non cambierei nulla, forse lo completerei, aggiungerei dei dettagli, nient’altro».

«La vergogna» è il titolo di questo libro, ma si potrebbe dire che sia anche uno dei fili conduttori della sua opera, figlio della sua biografia che è sempre il suo soggetto principale. Quando la vergogna ha smesso di essere il sentimento più forte nella sua vita?

«Nello scrivere sul mio ambiente di origine, sui miei genitori o sul quartiere popolare in cui avevano il loro piccolo bar-drogheria, ho voluto portare alla luce ciò che era sotteso a quella condizione, la rabbia e le umiliazioni di diventare “una transfuga di classe”. Ero spinta da una smania di verità, di svelamento delle cose taciute, una smania che cancellava, o inglobava in sé, tanto la vergogna quanto, soprattutto, la vergogna di aver avuto vergogna del mio ambiente. Questo è il primo libro che ho pubblicato. Ma non mi sono liberata di questa vergogna sociale, che rinasce tutte le volte in cui mi trovo in situazioni in cui non conosco i codici, i comportamenti. Ed è vero anche che mi vergogno sempre di portare un nuovo testo al mio editore, come se non fossi ancora legittimata a scrivere».

Nel libro c’è una scena chiave: una notte fa tardi e, scortata da un’insegnante, la signorina L., e dalle compagne, bussa alla porta della drogheria dove abitava con la sua famiglia. Sua madre le apre la porta, è spettinata, indossa una camicia da notte sporca e lei per la prima volta la vede «attraverso gli occhi della scuola privata». Si sente come smascherata.

«È una scena molto violenta, che mi immerge in una sensazione di indegnità assoluta. Poi, adolescente, il fatto di essere brava a scuola ha come cancellato questa differenza di classe, che riemergeva nella ricreazione! Questo non è un sentimento che si prova costantemente, non esiste quando si è soli, quando si legge per esempio. Lo si prova in contatto o in presenza di altri che, per i loro comportamenti, il loro modo di parlare, i loro gusti, ti fanno capire che non sei dei loro. Non voglio dire che lo facciano apposta, anzi il più delle volte non se ne rendono nemmeno conto. Il ricordo della vergogna riguarda necessariamente chi l’ha sperimentata».

Per fare «l’etnologa di sé stessa» lei compie un lavoro sulla lingua che si usava allora, in quello che era il suo ambiente sociale, ripesca gli oggetti, le fotografie, gli abiti. All’inizio del libro il mondo del 1952 appare «uniformemente grigio, come gli ex Paesi dell’Est». È come se poi si colorasse e, insieme al mondo esterno, prendesse forma anche il mondo interno: i sentimenti, le paure. A questo serve la scrittura? A fare chiarezza?

«Questo grigio proiettato sul mondo degli anni Cinquanta non è mio in modo particolare, penso che sia quello della memoria collettiva degli anni del dopoguerra, del cinema in bianco e nero. Ma la scrittura in effetti spazza via questa uniformità, fa emergere la complessità del reale. Scrivere non è solo chiarire, è anche rivivere qualche momento del passato. O far rivivere, come nel mio libro gli anni, ma qualunque sia l’intenzione, c’è un processo di illuminazione all’opera».

A un certo punto lei scrive: «Essere come tutti era l’obiettivo generale, l’ideale da raggiungere. C’erano i mi piace e i non mi piace». Oggi per un ragazzino o una ragazzina i like si danno con i social media, è cambiata la scala dei valori, ma in fondo tutto si riduce ancora a quello: essere accettati.

«Certo, ed è una questione particolarmente acuta quando sei giovane, non hai un posto fisso nella società. In un certo senso, non abbiamo nient’altro che noi stessi e ancora non sappiamo veramente cosa sia questo “me”».

«Nello scrivere sul mio ambiente d’origine, sui miei genitori o sul quartiere popolare in cui avevano il loro piccolo bar-drogheria, ho voluto portare alla luce ciò che era sotteso a quella condizione, la rabbia e le umiliazioni di diventare “una transfuga di classe”. Ero spinta da una smania di verità»

 Recensione di CRISTINA TAGLIETTI per la Lettura

IL TROPPO STROPPIA

IL TROPPO STROPPIA

L’ ultimo saggio di Nando Pagnoncelli – presidente di Ipsos, uomo di numeri per nulla sprovvisto di humour, in questi giorni affaccendatissimo con gli ultimi eurosondaggi – s’ intitola La penisola che non c’ è. La realtà su misura degli italiani (Mondadori) e racconta la visione distorta di un Paese.

Professore, quali sono gli indicatori di questa stortura?

I più scontati sono la percezione di immigrazione e disoccupazione.

Ma anche su altri argomenti il pre-giudizio italico è alto. Quando chiediamo quanti sono i diabetici (il 5 per cento), la risposta media è 35 per cento per cento (vorrebbe dire che uno su tre soffre di diabete). C’ è un’ implicita attitudine ad amplificare i fenomeni.

E sui migranti?

Quando abbiamo iniziato questa ricerca, nel 2014, avevamo il 7 per cento di migranti. E gli italiani ci dicevano che erano il 30 per cento dei residenti in Italia. Ora la forbice si è un po’ ristretta perché i migranti sono il 10 per cento della popolazione e l’ ultima rilevazione è al 26.

Disoccupazione. Secondo gli italiani il 48 per cento dei cittadini è senza lavoro. Quasi uno su due.

Stessa cosa sugli inattivi: sono il 25%, ma gli italiani credono che siano il 50 per cento. Il doppio.

E gli altri Paesi?

Oggi facciamo questa ricerca in 40 Paesi, ma se prendiamo quelli presenti sin dal 2014 siamo primi nella “distorsione percettiva” o più banalmente nell’ indice di ignoranza. E questo dipende da molti fattori, in primis da una scolarità bassa. Fatto 100 il numero dei maggiorenni, il 56 per cento ha raggiunto la terza media.

Il numero dei laureati è basso, 14 per cento. Guardando le statistiche dell’ Ocse, siamo al terzultimo posto e abbiamo un tasso altissimo di analfabetismo funzionale.

Altri fattori rilevanti?

Daniel Herda, psicologo sociale americano, sostiene l’ esistenza di una sorta di analfabetismo numerico legato alle emozioni: quando siamo di fronte a qualcosa che ci spaventa, inconsapevolmente siamo portati a dilatare la portata del fenomeno.

Un terzo aspetto, serissimo, riguarda la dieta mediatica, cioè il modo in cui i cittadini s’ informano.

La televisione tiene, il web esplode e la stampa muore Più o meno. I dati del Censis ci raccontano il cambiamento tra il 2007 e il 2017: la tv mantiene una forte centralità, la radio è in crescita come ovviamente Internet, la stampa cala in maniera molto significativa. E questo ha delle conseguenze perché la carta stampata è quella che induce a maggiore riflessione su una notizia.

Il telegiornale di prima serata è la fonte prevalente di informazione, ma un servizio dura al massimo un minuto e mezzo. Un barcone stracolmo di migranti restituisce l’ idea dell’ invasione, anche se in realtà sappiamo che non è così perché gli sbarchi sono in calo dal secondo semestre del 2017.

Sappiamo anche che gli omicidi in Italia sono meno della metà di vent’ anni fa. E sono meno della metà di quelli che vengono commessi in un anno a Chicago, una città di due milioni e settecentomila abitanti

I nostri leader sono bravi comunicatori?

Il primo tema è l’ iper-semplificazione e la ripetizione del messaggio. Berlusconi per esempio conosceva molto bene il marketing e la struttura della popolazione italiana. Mi è capitato di sentirmi dire da alcuni politici di sinistra – evidentemente avevano in testa un Paese diverso – che i laureati sono il 30 il per cento degli elettori. Questo spiega perché Berlusconi semplifica il linguaggio.

Esempio?

Si ricorda il dibattito tv tra Prodi e Berlusconi? Il primo promise di abbattere il cuneo fiscale, il secondo, guardando in camera disse “Avete capito bene? Vi tolgo l’ Ici”. Sono due concetti con un diverso livello di immediatezza. Ricordiamoci che Berlusconi fu ridicolizzato perché aveva fatto una campagna elettorale in crociera. Ma dai nostri dati risultava che la crociera era la vacanza ideale per una significativa fetta di italiani, con un profilo socio demografico che corrispondeva all’ elettorato berlusconiano.

È giusto che la politica insegua i sondaggi?

No, produce rischi enormi. Attenzione: l’ opinione pubblica è ondivaga, impreparata e spesso ostaggio dei pregiudizi.

Salvini sta esagerando? È ovunque.

Guardiamo la parabola di Renzi: nella sua fase iniziale poteva dire tutto e il contrario di tutto ed era apprezzato perché decisionista. Alla fine è diventato, per le stesse persone, un accentratore egoriferito. Il troppo stroppia e vale anche per Salvini.

Zingaretti ha adottato un profilo basso.

Come Gentiloni: uno dei pochi premier a partire basso nei sondaggi, all’ indomani del referendum, ma che poi ha recuperato proprio perché la gente era stanca di polemiche e urla. Questo sta succedendo anche ora: troppa aggressività viene vissuta come una battaglia di potere a scapito dei cittadini.

Di Maio è più in difficoltà?

Il Movimento 5 Stelle è un catch all party, ha un elettorato trasversale. Condizione ottimale per chi sta all’ opposizione, mentre quando si è al governo le decisioni sono destinate a scontentare qualcuno. C’ è poi il confronto con Salvini, il cui protagonismo dà l’ idea di sovrastare l’ altro vice premier. La Rete non è un universo chiuso, ciò che un politico comunica nei social viene ripreso dagli altri mezzi. La Rete da sola non può bastare, così come da sola la presenza territoriale. Salvini ha adottato un mix efficace.

Come fa a essere popolare Conte e in contemporanea a esserlo Salvini? Sono uno l’ opposto dell’ altro.

È una delle nostre ambivalenze. Una parte di italiani si riconosce negli atteggiamenti anticonvenzionali, a tratti aggressivi, di Salvini e Di Maio: finalmente qualcuno che parla come parlerei io. Conte si comporta esattamente all’ opposto e incarna la figura garante del contratto, che è fondamentale per entrambi gli elettorati perché l’ idea del compromesso fa digerire decisioni non gradite ma che sono controbilanciate da altre in linea con le proprie idee.

Poi parla in modo composto e pacato, si veste bene, ha la pochette e fa il baciamano.

Non ultimo: si presenta bene nei consessi internazionali. Premier e vicepremier hanno profili complementari che appagano le aspettative ambivalenti di una larga parte dei cittadini.

Silvia Truzzi per il Fatto quotidiano

FAR CRESCERE L’ECONOMIA SALVANDO IL PIANETA:SI PUO’ FARE.

FAR CRESCERE L’ECONOMIA SALVANDO IL PIANETA:SI PUO’ FARE.

In Sardegna i biotecnologi hanno scoperto che l’olio estratto dal cardo può essere convertito in un gran numero di monomeri e intermedi che sono alla base di numerosi prodotti industriali, dagli pneumatici fino ai cosmetici. Insomma, la soluzione è intorno a noi e si chiama Natura

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Guardatevi intorno. Ovunque voi siate, in auto, su un aereo, in ufficio, sdraiati sul divano in soggiorno. Tutto quello che vedete viene dalla natura. Qualsiasi materiale, dalle terre rare ai tessuti, dalla plastica al legno, è stato estratto dalla biosfera. Il cibo che mangiamo, i modi in cui ci raffreschiamo e ci riscaldiamo, persino l’ultimo modello di smartphone che abbiamo comprato (che contiene in media più di 50 metalli diversi): tutto arriva da servizi forniti dalla natura. Non dovrebbe quindi essere una sorpresa che le innovazioni e le soluzioni ai problemi che abbiamo di fronte sempre più vengono dalla natura. Consideriamo per esempio l’umile cardo.

Cynara cardunculus

In Sardegna, dove questa infestante piena di spine ha invaso i campi di grano abbandonati, i biotecnologi hanno fatto delle scoperte sorprendenti. L’olio estratto dal cardo (Cynara cardunculus) può essere convertito in un gran numero di monomeri e intermedi che sono alla base di numerosi prodotti industriali, dagli pneumatici fino ai lubrificanti e i cosmetici.Nel 2011 è stato chiuso uno degli impianti petrolchimici più inquinanti della regione, e si è deciso di trasformarlo in una bioraffineria. Invece di usare i combustili fossili, la raffineria di Porto Torres, uno dei poli della chimica verde più avanzati del mondo, dal gennaio 2014 usa cardi selvatici e coltivati per realizzare prodotti per l’industria delle bioplastiche. La tempistica era azzeccata. L’Italia aveva appena approvato una legge che imponeva di sostituire gli shopper di plastica derivata da combustibili fossili con sacchetti biodegradabili, una mossa che poteva trasformare un’impresa basata un una piantina viola in una tecnologia esponenziale.

Gli italiani, in effetti, usano più di 300 sacchetti all’anno per persona, per un totale superiore ai 20 miliardi. Eliminando i sacchetti di plastica, l’Italia spera di ridurre la quantità di rifiuti plastici e i consumi di energia fossile, e di diminuire il deflusso di scorie di plastica negli oceani. Questa normativa lungimirante rappresenterà di certo un incentivo per l’industria della bioplastica avanzata.

Sono sempre di più le innovazioni basate sulla natura, dall’uso dei bachi da seta per tessere fibre ultraresistenti da impiegare sulle barche a vela fino all’impiego del veleno estratto dai serpenti per curare le malattie cardiache

Sono sempre di più le innovazioni basate sulla natura, dall’uso dei bachi da seta per tessere fibre ultraresistenti da impiegare sulle barche a vela fino all’impiego del veleno estratto dai serpenti per curare le malattie cardiache. Inoltre, le tecnologie ispirate alla natura possono essere usate per ridurre drasticamente gli impatti sull’ambiente, dalle biotecnologie per le modificazioni genetiche nelle piante fino alle auto elettriche e le case passive. I concetti della biomimesi vengono applicati anche da quelle aziende che adottano modelli di business circolari o che riducono i rifiuti, riciclando per esempio lattine di alluminio.

Abbiamo bisogno di innovazioni sostanziali in almeno tre settori – tecnologie esponenziali dalla natura, innovazioni per ridurre gli impatti, e cambiamenti sistemici più ampi – per gestire una crescita sostenibile nell’ambito dei confini planetari. Molte delle soluzioni sono disponibili, seppure a una scala ancora inadeguata. Prendiamo per esempio l’eolico e il solare. Anche se sono già economicamente competitivi rispetto alle fonti fossili per quanto riguarda la produzione di elettricità e calore, coprono solo il 2% degli usi globali di energia. La buona notizia è che si sta verificando una crescita esponenziale dell’eolico e del solare in molte aree del mondo. In Germania, la quarta economia del pianeta, nel 2013 le rinnovabili hanno fornito un quarto di tutta l’elettricità, di cui il 12-13% da eolico e solare. I progressi degli ultimi decenni hanno aperto nuove prospettive nel settore dell’energia solare.

Negli anni Novanta l’ostacolo più grande era il costo dei pannelli solari. Oggi, grazie al rapido sviluppo di tecnologie poco costose basate sul silicio, abbiamo superato questo ostacolo. La vera sfida, come spiega Marika Edoff, che insegna ingegneria alla Uppsala University, è quella di individuare delle modalità per accumulare energia che siano economicamente competitive. Per molti anni lo sviluppo tecnologico è stato guidato da aziende tedesche, spagnole e italiane, ma oggi i progressi arrivano da Cina, Giappone e Brasile. In Africa, dove spesso mancano le infrastrutture per il trasporto e la distribuzione dell’energia elettrica, molti paesi hanno scelto di usare i pannelli solari per produrre l’elettricità di cui hanno bisogno.

Meno conosciute, e ancor meno sfruttate, sono le altre opportunità che ci vengono offerte dalla natura e che, al fine di generare abbondanza nell’ambito dei confini planetari, possono essere ancora più efficaci dei modelli di economia circolare più ambiziosi. Come sottolineato da Gunter Pauli, che descrive le soluzioni basate sulla natura in Blue Economy, anche migliorando un sistema al 90% insostenibile rimarrebbe comunque un 10% che non funziona. Se però per esempio si passasse da un materiale come la plastica, derivato dai combustibili fossili, a un prodotto realizzato con un materiale biologico come il bambù, si passerebbe da una situazione che rimane sempre più o meno buona a una al 100% positiva. Il benessere aumenta, la crescita pure. Queste soluzioni di rottura potrebbero trasformare le nostre società, più o meno insostenibili, in realtà completamente sostenibili.

Sono in corso diversi esperimenti pilota per produrre indumenti non solo da cotone e lana riciclati, ma anche da materiali di scarto da post-consumo, come le bottiglie di Pet (polietilene tereftalato) o altre plastiche riciclate

IMPARARE AD AMARE LE LARVE… E I SERPENTI

Tra le tante tecnologie basate sulla natura citate da Gunter Pauli in Blue Economy, una delle più interessanti è quella che riguarda le tanto disprezzate larve. A mano a mano che cresce la quantità di carne che mangiamo, cresce anche la pressione che esercitiamo sull’acqua, sui suoli, sui nutrienti, la biodiversità e il clima. In effetti, i nostri consumi di carne sono una delle principali ragioni per cui l’agricoltura minaccia i confini planetari. Il nostro appetito per la carne genera poi una grande quantità di rifiuti. Almeno la metà in peso degli animali che vengono macellati viene scartata – in Europa si arriva a 150 chilogrammi per persona.Tuttavia, alcuni progetti innovativi sfruttano le larve per decomporre i rifiuti animali. In questo modo, dalle larve si ricavano delle proteine a basso costo che vengono poi utilizzate come mangime per gli animali. Analogamente, molti studi indicano che le larve sono un sistema efficace per rimuovere i tessuti morti dalle ferite, e che hanno il potenziale di stimolare la crescita cellulare.

Gli allevamenti di larve, un esempio di una tecnologia sostenibile ed esponenziale, potrebbero aprire la strada a nuovi modi di gestire i rifiuti e le cure mediche. Se già non lo facevamo prima, stiamo anche imparando ad amare i serpenti. I farmaci per abbassare la pressione sanguigna sono tra i più usati nei paesi occidentali. Molti inibiscono l’enzima convertitore dell’angiotensina (dall’inglese Angiotensin Converting Enzyme, ACE) impedendogli la vasocostrizione che porta all’ipertensione. Quello che in pochi sanno è che l’ACE-inibitore più diffuso è il Captopril, che è stato messo a punto partendo da un componente del veleno di una vipera brasiliana, il ferro di lancia (Bothrops jararaca). I ricercatori si sono infatti accorti che le prede del serpente, uccelli e piccoli mammiferi, cadevano al suolo a causa di un crollo repentino della pressione sanguigna. Il componente naturalmente presente nel veleno, un peptide chiamato teprotide, non poteva essere usato tal quale come medicinale.

Tuttavia, grazie a una serie di ricerche particolarmente creative è stato possibile individuare il principio attivo del peptide, e alla fine si è arrivati al Captopril. Tra i settori industriali che hanno adottato modelli di business ispirati alla natura spicca quello dell’abbigliamento. Per anni, le industrie tessili hanno cercato di incrementare la sostenibilità delle proprie attività, utilizzando cotone coltivato in modo ecologico e riducendo l’inquinamento generato dai vari coloranti chimici. Tuttavia, molte aziende di grandi dimensioni, come la svedese H&M, hanno capito che non era abbastanza, e che l’obiettivo finale doveva essere quello di chiudere il ciclo dei flussi dei tessuti, riciclando le fibre tessili.

Sono in corso diversi esperimenti pilota per produrre indumenti non solo da cotone e lana riciclati, ma anche da materiali di scarto da post-consumo, come le bottiglie di Pet (polietilene tereftalato) o altre plastiche riciclate. Anche se per adesso i numeri sono esigui – solo il 20% dei tessuti può essere riciclato con le tecnologie esistenti – si tratta chiaramente di un’area in cui le scelte dei consumatori possono innescare rapidi cambiamenti, via via che diventa sempre meno accettabile che colossali quantità di vecchi vestiti vadano a finire in discarica.

Ci sono aziende come la Puma, il marchio tedesco di scarpe e abbigliamento sportivo, che ormai riconoscono in modo esplicito che i loro affari dipendono dal capitale naturale e dai servizi degli ecosistemi

Nell’ambito di un’altra tendenza che fa ben sperare, ci sono aziende come la Puma, il marchio tedesco di scarpe e abbigliamento sportivo, che ormai riconoscono in modo esplicito che i loro affari dipendono dal capitale naturale e dai servizi degli ecosistemi. Nel 2011, Jochen Zeitz, presidente della Puma, lanciò il programma Environmental Profit and Loss (EP&L). Zeitz spiegò che si trattava di una strategia fondamentale per condividere le informazioni con i clienti della Puma.

Adesso, tutti i prodotti della Puma, dalle t-shirt fino alle scarpe, hanno un’etichetta che riporta i costi ambientali della loro produzione (nel caso delle t-shirt, la natura sussidia il 20% del loro prezzo finale). In questo modo, l’azienda ha creato una piattaforma per coinvolgere i propri clienti nell’impegno per la sostenibilità. In seguito, Zeitz ha sottolineato che l’EP&L guida anche la strategia di business di Puma, che cerca di individuare gli investimenti più sostenibili e redditizi, come l’impiego di materiali riciclati per le scarpe. Jochen Zeitz e Richard Branson, fondatore del gruppo Virgin, della Carbon War Room e dell’Elders Network (un’organizzazione internazionale di personaggi pubblici anziani che lavorano per la pace e i diritti umani, ndT), hanno anche creato il B-Team, che raccoglie una dozzina di dirigenti d’azienda come Paul Polman di Unilever e Ratan Tata di Tata Group.

La cosa interessante del B-Team è la convinzione che “i leader del business globale devono lavorare assieme per accrescere il benessere del pianeta e dei suoi abitanti”. Secondo i membri del B-Team, se il settore degli affari vuole crescere deve operare in questo modo. È una posizione in linea con quello che emerge da molti settori scientifici, ed è alla base della trasformazione del modo di pensare che sta al centro di questo libro. Il lancio dell’EP&L e di altre iniziative simili sono tutti passi nella direzione giusta.

Una ricerca condotta qualche tempo fa dal Boston Consulting Group (BCG) ha dimostrato che degli investimenti per la sostenibilità nel Mar Baltico potrebbero creare da qui al 2030 550.000 nuovi posti di lavoro e 32 miliardi di euro di valore aggiunto

CONNETTERE LA VISIONE CON LE SOLUZIONI

Il Mar Baltico è malato. In effetti, potrebbe anche essere il mare interno più malato del mondo. Nel 1989, a causa degli eccessi di azoto e fosforo derivanti delle attività agricole, e dopo decenni di sversamenti di sostanze tossiche dalle città e le industrie, il Baltico ha superato un punto di svolta. Incidentalmente, secondo noi proprio il 1989 è stato l’anno in cui siamo passati dall’essere un piccolo mondo su un grande pianeta a un grande mondo su un piccolo pianeta, e siamo rimasti intrappolati in un nuovo regime ecologico. Se prima il Mar Baltico era ricco di merluzzo, povero di nutrienti e molto ossigenato, adesso che ha superato il tipping point è opaco, con pochi pesci di grandi dimensioni e con un carico eccessivo di nutrienti.

I cianobatteri, le cosiddette alghe verdi-azzurre, si alimentano dei nutrienti e crescono in modo esponenziale. Gran parte dello zooplancton che si nutriva delle alghe verdi-azzurre è stato spazzato via dalle aringhe e dagli spratti, il cui numero è esploso dopo che i loro predatori, i merluzzi, sono scomparsi. Adesso, le cose sono peggiorate dagli effetti del cambiamento climatico, che accelera la fusione dei ghiacci artici. Questo fenomeno aggiunge altra acqua dolce all’ecosistema salmastro del Baltico, e aumenta la temperatura dell’acqua – due processi che peggiorano le condizioni del Baltico. Circa un sesto del Baltico è oggi una zona morta, la più grande di questo tipo sul pianeta, con livelli molto bassi di ossigeno disponibile. La cosa incredibile è che questo disastro ambientale si sia verificato proprio di fronte ai cittadini, ai governi e alle imprese di nove stati rivieraschi – Svezia, Finlandia, Danimarca, Estonia, Lettonia, Lituania, Russia, Polonia e Germania – che hanno sempre attribuito un grande valore al Mar Baltico.

In effetti, secondo le indagini effettuate di recente dal Baltic Stern Project, un programma internazionale di ricerca, i cittadini degli stati che si affacciano sul Mar Baltico sono pronti a pagare pur di avere un Mar Baltico in buone condizioni. E se così fosse, i vantaggi sarebbero notevoli. Una ricerca condotta qualche tempo fa dal Boston Consulting Group (BCG) ha dimostrato che degli investimenti per la sostenibilità nel Mar Baltico potrebbero creare da qui al 2030 550.000 nuovi posti di lavoro e 32 miliardi di euro di valore aggiunto.

Che cosa serve per ribaltare questa situazione? Alla fine, si tratta di operare nell’ambito dei confini planetari, partendo da una drastica riduzione del deflusso di nutrienti dall’agricoltura e dalle città

Che cosa serve per ribaltare questa situazione? Alla fine, si tratta di operare nell’ambito dei confini planetari, partendo da una drastica riduzione del deflusso di nutrienti dall’agricoltura e dalle città. Un primo passo importante è stato quello della città di San Pietroburgo, la principale fonte di inquinamento nel Mar Baltico, che nel 2013 ha aperto un moderno impianto di trattamento delle acque reflue. Serve poi un nuovo regime per la gestione della pesca, per tutelare la diversità e permettere il ripopolamento dei predatori apicali come merluzzi e lucci. Si tratta di una misura che gode del sostegno dei cittadini e dei pescatori, e che è stata applicata in parchi marini nazionali come quelli di Kosterfjorden e Kenting.

Il Mar Baltico ,caldo come il Mediterraneo

La cosa fondamentale è che tutti gli abitanti delle nove nazioni che si affacciano sul Baltico condividano la stessa visione di sostenibilità. È questo il cambiamento di mentalità che serve per guidare la trasformazione: tutti devono essere d’accordo sul fatto che la bellezza e la resilienza dell’ecosistema del Baltico sono la base del benessere umano e dello sviluppo economico, e che politica, mondo degli affari e cittadini hanno solo da guadagnare dagli investimenti su questa visione condivisa.

Un’altra trasformazione in direzione della sostenibilità si sta verificando nelle aree urbane di tutto il mondo, dove è probabile che vengano effettuati gli investimenti più importanti in soluzioni basate sulla natura. La spiegazione è semplice. Abbiamo superato un tipping point, con più della metà della popolazione umana che vive nelle città. Ci sono 28 megalopoli con più di 10 milioni di abitanti, e si prevede che saranno 40 entro il 2030. Nel 2050 due terzi degli umani vivranno in città, che equivale a 2,5 miliardi di nuovi abitanti delle aree urbane.

In altre parole, la sostenibilità di un’area – la sua resilienza, la sua salubrità e la sua bellezza – è diventata una delle caratteristiche più importanti, e questo significa che anche le città devono operare entro i confini planetari se vogliono fiorire negli anni a venire

Si è ormai accumulata una montagna di prove, tra cui anche lo UN Cities Biodiversity Outlook, che dimostrano che gli ecosistemi urbani, anche con solo una biodiversità limitata, possono aiutare le città ad assorbire gli eventi estremi come l’uragano Sandy, che si è abbattuto su New York, o come le frane che hanno colpito Taiwan. Inoltre, nel nostro mondo globalizzato, il settore degli affari ha bisogno di città sostenibili. Durante una chiacchierata informale, Mats Lorentzon, CEO di Spotify, l’azienda che trasmette musica in streaming, ha spiegato che la sua società dà lavoro a giovani di tutto il mondo, e che tra i fattori che spingono queste persone a trasferirsi a lavorare a Stoccolma ci sono la pulizia e i bassi livelli di inquinamento.

In altre parole, la sostenibilità di un’area – la sua resilienza, la sua salubrità e la sua bellezza – è diventata una delle caratteristiche più importanti, e questo significa che anche le città devono operare entro i confini planetari se vogliono fiorire negli anni a venire. Basta guardare a Singapore, che è sia uno degli ambienti urbani più densamente popolati del mondo, sia la dimostrazione che città compatte possono essere circondate da ecosistemi che forniscono possibilità ricreative e resilienza. Quello che ci colpisce ogni volta che la visitiamo è la quantità di natura che è inserita in questo ambiente urbano ad altissima densità. La crescita di città simili significa che abbiamo superato un punto di svolta sociale. E la tendenza è positiva, visto che il numero delle aree urbane che adottano strategie finalizzate a creare ambienti più vivibili sta crescendo in modo esponenziale.

D’altro canto, i 20 milioni di abitanti di San Paolo, la più grande megalopoli brasiliana, stanno affrontando seri problemi ambientali. La peggior siccità degli ultimi ottant’anni ha causato una scarsità d’acqua senza precedenti, e alcuni dei bacini idrici della città si sono prosciugati. Secondo Vincente Andreu, presidente dell’organismo che gestisce le forniture di acqua in Brasile, se la siccità continuerà gli abitanti di San Paolo “rischieranno di dover affrontare un collasso mai visto prima”.

San Paolo in Brasile

Molte ricerche dimostrano che si avrebbero dei benefici immediati in termini di mitigazione dei cambiamenti climatici: le emissioni si ridurrebbero infatti di 5 miliardi di tonnellate di carbonio all’anno, comparate a un totale di 32 miliardi di tonnellate derivanti dall’utilizzo dei combustibili fossili

Ma quali sono le cause della crisi? Secondo lo scienziato brasiliano Carlos Nobre, un’autorità sul tema dei cambiamenti climatici, la riduzione delle precipitazioni è riconducibile al riscaldamento globale e alla massiccia deforestazione della foresta pluviale amazzonica. L’Amazzonia è una gigantesca pompa per il vapore acqueo, e si stima che ogni giorno, attraverso la vegetazione, ne rilasci 20 miliardi di tonnellate nell’atmosfera. Di queste, la maggior parte ricade sulla foresta come pioggia. Tuttavia, una frazione significativa di questa umidità si muove sottovento, e ricade nei bacini idrici che riforniscono la città brasiliana di acqua potabile e per l’irrigazione. Il National Space Research Institute (INPE) brasiliano ha di recente dichiarato che l’umidità dall’Amazzonia, sotto forma di veri e propri “fiumi volanti”, è diminuita drasticamente, e questo contribuisce all’attuale siccità.

È quindi chiaro che San Paolo, cuore finanziario e imprenditoriale del Brasile, può continuare a crescere solo se può raccogliere le piogge che arrivano da un’Amazzonia che deve essere gestita in modo sostenibile. Al momento, però, i segnali non sono incoraggianti. Tra il 2012 e il 2013 la deforestazione in Amazzonia è cresciuta del 29%, un incremento che lascia sbalorditi, e che inverte una tendenza positiva che durava dal 2008. Gli studi dimostrano che, continuando a deforestare, entro metà secolo si potrebbe arrivare a una riduzione del 20% delle precipitazioni nella stagione asciutta, e non si può escludere che la foresta pluviale sia prossima a superare un punto di svolta, oltre il quale si trasformerà in un sistema di savana più secco. Un fenomeno simile, oltre a mettere a rischio l’economia di San Paolo e del Brasile, avrebbe conseguenze negative su tutto il mondo, dato che il pianeta perderebbe uno dei suoi grandi serbatoi per il carbonio e una delle sue pompe per il vapore acqueo.

Questa è un’altra delle ragioni per cui dobbiamo fermare la deforestazione. Molte ricerche dimostrano che si avrebbero dei benefici immediati in termini di mitigazione dei cambiamenti climatici: le emissioni si ridurrebbero infatti di 5 miliardi di tonnellate di carbonio all’anno, comparate a un totale di 32 miliardi di tonnellate derivanti dall’utilizzo dei combustibili fossili. Proteggere le foreste è quindi una strategia win-win molto efficace. Garantisce la crescita economica di città come San Paolo, e protegge dal rischio di cambiamenti climatici catastrofici – e tutto questo lavorando con la natura, preservando la biodiversità e costruendo resilienza di lungo periodo.

Lavorare con la natura è fondamentale per sviluppare sistemi sostenibili che funzionano entro i confini planetari. Questo è particolarmente vero per l’agricoltura

FACCIAMOLO FUNZIONARE

Come abbiamo spiegato più volte in questo libro, lavorare con la natura è fondamentale per sviluppare sistemi sostenibili che funzionano entro i confini planetari. Questo è particolarmente vero per l’agricoltura. L’obiettivo è quello di trasformare i sistemi agricoli, in modo che da fonti diventino serbatoi per il carbonio. Così facendo, i suoli migliorano la loro capacità di trattenere l’acqua e i nutrienti, diventano più produttivi e più resistenti all’erosione. Abbiamo a disposizione diverse strategie: adottare l’agricoltura conservativa, chiudere i cicli dei nutrienti bilanciando allevamenti e colture, applicare la rotazione delle colture, usare l’agricoltura di precisione e soprattutto gestire in modo integrato i nutrienti.

Queste strategie hanno funzionato anche negli ambienti più duri. In Niger, una delle regioni più povere del mondo, le soluzioni basate sulla natura hanno migliorato la qualità della vita di più di un milione di famiglie. Anche se vivono in una delle savane meno produttive e con meno acqua dell’intero pianeta, dagli anni Novanta gli agricoltori delle regioni di Maradi e Zinder, nel sud del paese, sono riusciti a incrementare la produttività di 5 milioni di ettari di terreni coltivati. Inoltre, combinando piante azotofissatrici e colture in un sistema agroforestale, sono riusciti a recuperare almeno 250.000 ettari di terreni gravemente degradati. La biodiversità della regione è cresciuta, la fertilità dei suoli è migliorata, e i territori sono diventati più resistenti agli shock correlati all’acqua. Inoltre, le entrate degli agricoltori sono raddoppiate, con il reddito lordo annuale della regione che oggi arriva a 1.000 dollari a famiglia – e tutto grazie a soluzioni basate sulla natura. Un altro esempio di innovazione sostenibile viene dall’India, dove gli abitanti dei villaggi che cercavano legna da bruciare sconfinavano negli habitat delle tigri, minacciando la sopravvivenza di questi grossi felini.

Per ridurre questi “sconfinamenti”, nei villaggi rurali sono state installate migliaia di unità alimentate a biogas, che permettono alle famiglie di cucinare usando il metano al posto della legna. Dopo essere state riempite con una quarantina di chili di letame e 40 litri di acqua, queste unità possono produrre abbastanza biogas da consentire a una famiglia di sei persone di cuocere tre pasti al giorno. In alcune regioni dell’India, dove sono state installate le unità a biogas, i consumi di legna sono diminuiti del 70%. Inoltre, dato che per raccogliere il letame sono state costruite delle stalle, sono anche scesi gli attacchi da parte delle tigri ai danni del bestiame.

Dando un costo preciso a tutte le forme di inquinamento e a tutti gli abusi che infliggiamo al pianeta, e stabilendo delle normative che permettono lo sviluppo economico nell’ambito dei confini planetari, possiamo tutelare gli ecosistemi rimasti sulla Terra senza frenare il progresso

Un semplice cambiamento nelle modalità di utilizzo dell’energia ha ridotto la pressione sulle poche foreste rimaste nella regione, e ha ridato speranza alle piccole popolazioni di tigri la cui sopravvivenza dipende da quelle stesse foreste. Secondo noi, se ci sono ancora pochi esempi di queste soluzioni basate sulla natura – soluzioni che sono straordinariamente efficienti, sostenibili e invitanti – non è perché manchino le prove che dimostrano che funzionano. Piuttosto, è colpa del perverso insieme di incentivi con cui conviviamo, oltre che della mancanze di normative chiare.

Viviamo in un mondo in cui ha economicamente senso usare in modo inefficiente le risorse naturali (come il fosforo in agricoltura), gli ecosistemi (sfruttando oltre misura le riserve ittiche o tagliando le foreste: in entrambi i casi si ha un vantaggio nel breve periodo mentre nel contempo pregiudichiamo il loro valore per le collettività future), e l’atmosfera (con l’inquinamento dell’aria e con i cambiamenti climatici). Nel breve periodo, questi atteggiamenti danno un’illusione di successo, perché crediamo di poter erodere il capitale naturale ed emettere gas serra senza dover pagare alcun conto. Nel lungo periodo, però, siamo tutti destinati a perdere, perché la Terra ci presenterà il conto sotto forma di siccità, epidemie, collasso degli ecosistemi ed eventi meteorologici estremi. Più a lungo continueremo a indebolire gli ecosistemi da cui dipendiamo, più rischieremo di inoltrarci in un futuro rischioso, insano e inefficiente. Dobbiamo correggere con urgenza questo massiccio fallimento del mercato.

Dando un costo preciso a tutte le forme di inquinamento e a tutti gli abusi che infliggiamo al pianeta, e stabilendo delle normative che permettono lo sviluppo economico nell’ambito dei confini planetari, possiamo tutelare gli ecosistemi rimasti sulla Terra senza frenare il progresso. Al contrario, queste misure libereranno l’innovazione, incentivando gli investimenti nelle soluzioni basate sulla natura. Invece di essere un “limite” alla crescita, l’individuazione di uno spazio operativo sicuro sulla Terra, con budget non superabili per il carbonio, l’acqua e i suoli, farà esattamente il contrario. Scatenerà l’innovazione, consentendoci di crescere nei limiti di un Antropocene finalmente “buono”.

Estratto dal libro “Grande mondo piccolo pianeta” di Johan Rockstrom e Mattias Klum (Edizione Ambiente).

DA TRASTEVERE A UNITED STATES.

DA TRASTEVERE A UNITED STATES.

IL GRANDE REGISTA SERGIO LEONE RACCONTATO DAL CRITICO DEL CINEMA NOëL SIMSOLO IN C’ERA UNA VOLTA IL CINEMA- CRESCIUTO A PANE E AMERICA NE SEPPE INTERPRETARE IL MITO E LA DECADENZA CON LA TRILOGIA DEL DOLLARO E DEL TEMPO- TRATTATO MALE DALLA CRITICA SI PRESE LA RIVINCITA FIRMANDO AUTENTICI CAPOLAVORI, IN STRETTO SODALIZIO COL MUSICISTA ENNIO MORRICONE.

Sergio Leone con Carlo Verdone

Prima cosa, via le donne dalle finestre; seconda, pensare sempre alla scena come fosse un quadro di Yves Tanguy o di Magritte; terza: orchestrare le musiche con le immagini, in perenne dialogo con il tempo e lo spazio; quarta, ritornare alla Commedia dell’Arte, guardando ai personaggi come maschere di Goldoni. Su queste chiare regole di ingaggio, osservate scrupolosamente, Sergio Leone è diventato uno dei rinnovatori del cinema e non solo del western, che, a detta dello stesso regista, era già stato «inventato da Omero». A trent’anni dalla morte dell’autore romano, il 30 aprile 1989, a sessant’anni tondi, è un tuffo nello schermo leggere il libro-intervista, C’era una volta il cinema, pubblicato dal Saggiatore.

È un dialogo raccolto da Noël Simsolo, amico di Leone, critico e studioso di storia del cinema, sceneggiatore e regista lui stesso. Grazie alla grande intimità con Leone, Simsolo offre una panoramica umana e professionale da cui emerge un uomo estremamente attaccato alla sua professione, pessimista, cortigiano con gli infidi, affettuoso solo con la famiglia e gli amici veri. Perché soprattutto di amicizia parlano i suoi spaghetti western, termine che per gli italiani aveva una connotazione dispregiativa e che invece per gli americani, che l’avevano inventato e che veneravano Leone, indicava solo le origini italiane del regista. Erano yankee del calibro di Howard Hawks, Steven Spielberg, Francis Ford Coppola, Michael Cimino, Martin Scorsese. O come John Ford, che gli spedì una sua foto con la dedica «To Sergio Leoni. With Admiration» e lui, che era cresciuto a pane e America, esponeva come un cimelio, divertito dall’errore nel cognome. Leone ricambiava la loro stima, che nutriva in modo spassionato anche per John Cassavetes, John Huston e Charlie Chaplin, di cui amava soprattutto il perfetto equilibrio tra il registro drammatico e quello comico. Tra gli europei, ammirava Jean-Luc Godard e Jean Gabin, ma soprattutto Vittorio De Sica, con cui aveva lavorato (e per cui aveva fatto anche la comparsa in Ladri di biciclette, 1948) come implacabile assistente di regia. Lo era stato di tutti i più grandi italiani di allora (Mario Bonnard, Luigi Comencini, Steno) e di alcuni stranieri, come Orson Welles per un film incompiuto che sarebbe poi divenuto Rapporto confidenziale (1955) e Fred Zinnemann per La storia di una monaca (1959). Imparò il mestiere dal padre, prima attore e poi regista di successo, che finì nella lista nera del ministro Bottai per aver rifiutato una sceneggiatura del Duce.

Sergio Leone procedeva con sguardo documentario, assorbito dal Neorealismo, nel tentativo di rendere fatti e scene più verosimiglianti possibili, soprattutto nella manifattura di cose e oggetti (era un esteta e un collezionista), nonostante i budget inizialmente molto ridotti. Iniziò con un peplum, genere che aveva maneggiato lavorando con Robert Wise per Elena di Troia (1956), William Wyler per B en-Hur (1959)Robert Aldrich per Sodoma e Gomorra (1962). Si intitolava Il colosso di Rodi (1961) e fu un successo di pubblico, un fiasco per la critica. Si avvicinò al western, ammaliato dalla bellezza de I sette Samurai (1954) di Akira Kurosawa, che continuò ad amare anche quando il regista giapponese lo ridusse al verde per l’accusa di plagio. Da cinefilo, soffrì molto della sufficienza con cui la critica aveva liquidato la sua Trilogia del dollaro , a partire da Per un pugno di dollari (1964) – che inizialmente dovette firmare con uno pseudonimo per via della moda esterofila imperante -, Per qualche dollaro in più(1965), Il buono, il brutto, il cattivo (1966). Le cose cambiarono con la Trilogia del tempo, composta da C’era una volta il West (1968), Giù la testa (1971), fino all’incoronazione di C’era una volta in America (1984), quando aveva tutti ai suoi piedi, a partire da De Niro, James Woods, Joe Pesci.

Segio Leone con Robert de Niro, in C’era una volta in America

Simsolo batte con Leone molti aspetti della sua carriera e della vita personale, senza edulcorare nulla del carattere fumino del regista, che litigò con i produttori fino a creare la sua casa di produzione. Era inflessibile e per ciò sapeva imporre una disciplina ferrea anche dagli attori più riottosi, come Robert De Niro, Klaus Kinski e Rod Steiger.

Caudia Cardinale

Leone era l’arcangelo Gabriele, che aleggia in tutta la sua filmografia, con poncho e pallottola in canna; l’indomabile, che riporta la giustizia nel mondo con una violenza feroce, unita all’ironia di dialoghi scarni, entrati nella mitologia delle citazioni. Leone era il giovane Noodles, il delinquentello che avrebbe voluto rappresentare in Viale Glorioso, sceneggiatura che scrisse per un film mai realizzato: capì, dopo aver visto I vitelloni (1953), che Fellini lo aveva battuto sul suo terreno con un risultato irraggiungibile. Era un anarchico, allergico alla spacconeria fascista, deluso dal socialismo. Prendeva il cinema come un modo per liberarsi dai fantasmi e scatenarne altri, facendoli correre già dai titoli di testa nelle sagome dei suoi attori: Clint Eastwood su tutti, Gian Maria Volonté, Lee Van Cleef, Eli Wallach, Henry Fonda, Jason Robards, Charles Bronson, e le poche interpreti femminili, come Claudia Cardinale e Marianne Koch. Tra quei fumettoni si avvistano anche i nomi di altri fedeli costruttori delle sue pellicole: Ennio Morricone, il cui sodalizio consacrò entrambi nel pantheon dei mostri sacri, per le musiche; Tonino Delli Colli per la fotografia, Carlo Simi per le scenografie. Leone è molto più di un cineasta per molte generazioni. Lasciando ovunque l’impronta del fanciullino, frammentato tra passato e presente in un gomitolo di flashback e tempi dilatati, è quasi un richiamo a un mondo onirico: appena si sente un fischio, si avverte già la terra rossa sotto i piedi e si attende il primo sparo.

Articolo di cristina.battocletti.blog. Ilsole24ore.com

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