IL CANTASTORIE TARANTINO

IL CANTASTORIE TARANTINO

NELL’ IMMINENZA DI GIRARE STAR TREK PER ADULTI, IL REGISTA, IGNORATO A CANNES NONOSTANTE ILLUMINI DI ELEGANZA E ENERGIA I TEMPI DI NIXON E DELL’OMICIDIO DI SHARON TATE COL SUO ONCE UPON A TIME…. IN HOLLLYWOOD , FILM MASCHERATO COME SEMPRE DA FICTION DI SERIE B O C E PERVASO DA MILLE ALTRE VISIONARIE SUGGESTIONI.

Quentin Tarantino, piaccia o meno, è sempre più il mondo e il tempo che vuole lui. Sempre più una bolla protetta dalla storia reale del mondo moderno ma rifiltrata dalla cinefilia e dalla passione per tutto quello che è considerato minore. Sempre più universo parallelo. Sempre più al di fuori e al di sopra dei generi come fossero un unico flusso, una totalità indistinta. Con l’intenzione di sciogliere tutto in un organismo unico, l’ambizione di un cinema che diventa una cosa sola, una fusione unitaria. Per questa ragione in apertura non abbiamo scritto “il cinema di Quentin Tarantino”, proprio perché il regista e il suo cinema non sono realmente separabili, ma sono ormai quasi un’unica entità.

Once upon a time… in Hollywood non fa eccezione, anzi. Amplia questa dimensione. Visivamente è un film sontuoso, abbagliante, energico. Siamo nelle strade assolate della California, quelle intorno a Hollywood e le sue ville, nel 1969, l’anno dell’ascesa alla Casa Bianca di un presidente reazionario come Richard Nixon, dopo le speranze rappresentate dai fratelli Kennedy e da Martin Luther King – tutti assassinati nel decennio che si chiude – e di un intensificarsi della guerra in Vietnam.

Decennio magico di crisi e rinascita

Ma è anche l’anno dell’allunaggio e della crisi dell’industria di Hollywood che porta all’affermarsi di quella che è stata definita la New Hollywood, un movimento di grande energia che criticherà e vivisezionerà la società americana insieme al sistema degli studios: un decennio magico di crisi e di rinascita da cui usciranno fuori Roger Corman (che ne fu l’iniziatore) e Sam Peckinpah, Francis Ford Coppola e Martin Scorsese, Peter Bogdanovich e Arthur Penn, Brian De Palma e Michael Cimino, George Romero e Steven Spielberg, fino ad arrivare, tra le ultime propaggini, a Oliver Stone, il quale comincia la sua carriera nel riflusso degli anni ottanta, riflusso che nel cinema americano pare non esser mai terminato del tutto.

Tutto questo nel nuovo film di Tarantino non c’è, come non c’è quasi, se non per piccole allusioni, riferimento alle tragedie storiche appena citate. Ma il fatto che la New Hollywood sia fuori campo come riferimento cinematografico, forse fa ancor più sentire la sua presenza, nel bene e nel male.

Come ha fatto in molti altri film, Tarantino fa qui riferimento alle serie b televisive, nella fattispecie la serie tv western Lancer (il cui protagonista, James Stacy, è interpretato nel film da Timothy Olyphant), anche se i protagonisti del film, interpretati da Leonardo DiCaprio e Brad Pitt, sono rispettivamente attore protagonista e controfigura-cascatore del primo in una serie western immaginaria, Bounty law, idealmente prodotta tra il 1958 e il 1963.

Il primo è ora dimenticato e fallito, il secondo è abituato a non esser considerato, perché cinematograficamente nato nell’oblio, e quindi ora in miglior forma. Un meccanismo che ricorda The hateful eight, che si riferiva alla celebre serie tv western Bonanza oltre che, come qui, agli spaghetti-western di Sergio Corbucci, regista a cui del resto già si riferiva in maniera evidente fin dal titolo con _Django unchained.

Tra fiction di serie b e serie c, Tarantino in realtà trasfigura tutto questo come un artista della pop art, mutando il medio o il mediocre in una visione da cinema di grande budget, con un’eleganza e un’energia visiva degna di certo cinema della New Hollywood. Molto merito va al direttore della fotografia Robert Richardson che, proveniente dall’horror politico di Wes Craven, è poi divenuto direttore della fotografia di tutti i film di Oliver Stone, da Salvador (1986) fino a U turn – Inversione di marcia (1997). Un regista, Stone, che ha riletto la storia statunitense come un film horror e che ha cominciato non per caso con l’horror (Seizure, 1974, e La mano, 1981). Poi, da Kill Bill, Richardson è passato a collaborare in maniera fissa con Tarantino.

Potenza criticata ma innegabile

Quanto ci sia in questa trasfigurazione dell’intensità, del ritmo (soprattutto nella prima parte) e della profondità di quel cinema ribelle, è ben più dubbio. Qui a Cannes anche critici molto amanti del cinema Tarantino hanno espresso forti critiche riguardo alla mancanza d’intensità e di riferimenti cinematografici più ampi, e più ancora alla scarsa etica e moralità nel riscrivere la storia, in questo caso l’omicidio di Sharon Tate nella villa di Roman Polanski commesso dall’efferata setta Family Manson. Ma Tarantino lo ha sempre fatto, in particolare nell’ucronia di Bastardi senza gloria dove Hitler e Goebbels finiscono assassinati.

La libertà che si prende Tarantino è ormai totale, si fa labile la distinzione tra un genio leggero, o superficiale, e un genio innamorato dell’uomo e del cinema che cerca di creare un’utopia che sovverte l’ineluttabilità della storia. Il suo cinema, da molto tempo, trasmette un senso ludico radicale quanto di vuoto interiore, con l’eccezione di Jackie Brown.

Tuttavia la potenza del suo stile è innegabile anche se nella prima parte si guarda un po’ l’orologio ma poi ci si diverte davvero. Ma non solo. È proprio nella parte notturna con Sharon Tate che Tarantino seduce di più riuscendo per la prima volta a evocare atmosfere e creando nella successione di situazioni farsesche un mondo, una bolla a metà tra l’horror e il fantastico, dove si vede tutto il talento visivo di Tarantino e Richardson.

Tra la grandezza, presunta o reale, del cinema western che DiCaprio pensa di interpretare sul set e il mediocre ma divertente western reale della cittadella western delle giovani donne – ma situata fuori dal set – in cui finisce invece Brad Pitt, non c’è distinzione, siamo in un unico film senza soluzione di continuità. Così come la storia e il tempo del mondo reale sono un unico sogno-incubo riscritto e rinchiuso in una bolla, o utero materno protettivo creato dalla cinefilia, molto umano quanto forse un po’ immaturo.

Immaturo ma al tempo stesso anche molto bello, quasi una forma nuova di cinema potenziale che ha una sua poesia ma che, proprio per questo, si vorrebbe che affinasse per farlo divenire in futuro qualcosa di più profondo e intenso.

E raggiungesse, magari superandoli, quei maestri del cinema popolare di genere giapponese che sono Seijun Suzuki e Kenji Fukasaku – capaci di creare grandi e raffinate invenzioni di stile insieme a rappresentazioni profonde – in Kill Bill da lui saccheggiati e omaggiati (anche qui come distinguere le due cose?).

Un po’ vano, geniale maestro dell’esercizio di stile a partire da Kill Bill, il potenziale di Tarantino è così enorme, così unico nella storia del cinema per il suo globalizzare le frontiere sia geografiche sia temporali, che porta a desiderare che questo universo di simulacri dove ha annullato ogni porta e forse ogni muro, veicoli oltre al ludico anche qualcosa di intenso, realmente interiore e visionario come, per esempio, riesce al cinema di un David Lynch.

Articolo di Francesco BOILLE per Internazionale

CONTESSA NICA

CONTESSA NICA

Rampolla di un Rothschild, il suo nome era quello di una falena; niente di più azzeccato per la futura animatrice delle notti newyorkesi- Pannonica era un’eccentrica che amava le auto veloci e viaggiava con un aereo personale- Con la Seconda guerra mondiale lascia Parigi e gira per il mondo, dall’Africa a Mexico City. Finché un giorno, di passaggio a New York, ascolta un pianista jazz che esegue ‘Round Midnight di Thelonious Monk’s. E questo cambia la sua vita. –

Il disco, Round Midnight, suonò soltanto per tre minuti. Ma lei rimase di stucco, incapace di pensare ad altro. Nessuna musica le aveva mai fatto quell’effetto, come di paralisi e di tranche. Pregò il suo amico, il pianista jazz Teddy Wilson che era passata a salutare sulla strada dell’aeroporto, di suonarlo di nuovo. Se lo fece ripetere venti volte. Dimenticò l’aereo, dimenticò la famiglia. Non partì più. Non tornò mai più a casa. Decise che doveva restare a New York e cercare d’incontrare l’autore, un giovane jazzista di nome Thelonious Monk.

Pannonica

Era il 1948. La baronessa Pannonica de Koenigswater, detta Nica, aveva all’epoca 35 anni. Nata Rothschild, Nica era cresciuta nel mondo privilegiato e recluso della grande dinastia bancaria. Dal suo matrimonio del 1934 con il barone Jules de Koenigswater, un affascinante diplomatico francese, erano già nati cinque figli.

A sollecitare la sua corda pazza una prima volta era stata la Seconda guerra mondiale, quando Nica aveva servito come ausiliaria in Africa nelle milizie di France Libre comandate da Charles de Gaulle. Le era stato già difficile accettare il ritorno alla routine domestica. Ora, erano bastate quelle note a farle apparire la sua vita privata banale e priva di senso.

Thelonious Monk

Ma non fu semplice rintracciare l’erratico jazzista. Le furono necessari sette anni. Nica dovette tornare a Parigi, al concerto che Thelonious Monk diede nel 1954 al Salon du Jazz. L’incontro avvenne nel backstage, grazie a un’amica comune, la pianista Mary Lou Williams. Ma quando lo vide, seppe che aveva fatto bene. Era, avrebbe detto molti anni dopo, «l’uomo più bello che avesse mai visto». Da quel momento non ci fu più ritorno, né pentimento. Soltanto amore. Per i successivi 28 anni Nica Rothschild dedicò la sua vita e il suo patrimonio a Thelonious Monk.

Monk con Dizzy Gillespie

È la pronipote Hannah Rothschild a raccontarci la straordinaria passione di Nica per uno dei più grandi geni del jazz, in un libro appena uscito per i tipi di Knopf, che le è costato anni di ricerche e di ostilità. Nessuno in famiglia voleva infatti parlarle di Nica, che i Rothschild avevano diseredato per la sua scelta scandalosa. In The Baroness: the search for Nica, the rebellious Rothschild, Hannah ricostruisce il mistero di una donna, la cui esistenza fu la dimostrazione di come sia possibile fuggire il proprio passato in nome di un sogno d’amore.

Al tempo in cui incontrò la baronessa, Thelonious Monk era già sposato con Nellie, dalla quale non si separò mai e della quale la baronessa diventò amica. La storia di Monk e Nica, secondo Hannah Rothschild, non fu mai fisica: «Non credo sia mai stato un affare di sesso bollente. C’è sempre questa tendenza a sessualizzare ogni rapporto, soprattutto quelli che incrociano classe e razza. Se guardate Nica insieme a lui in fotografia o nei filmati, è chiaro che ne fosse innamorata, sembra sempre in adorazione. Lo dice il modo in cui lei gli dedicò la sua vita, la sua devozione anche nei momenti peggiori. Non penso che il sesso fosse al centro della cosa, non sarebbe durata tanto».

Nica fu l’angelo di Thelonious. Era lei a fargli da agente, a guidarlo ai concerti con la sua leggendaria Bentley azzurra, a proteggerlo, a far sì che la sua creatività musicale non fosse intralciata da problemi prosaici e terreni, a finanziarlo nei periodi di magra. Ornata di piume, collo di pelliccia e fili di perle, l’eterna sigaretta fumante dentro il bocchino d’argento tra le dita, Nica divenne la presenza fissa di ogni concerto di Monk.

I grandi del jazz l’accolsero come una di loro. La sua suite allo Stanhope, l’albergo dove visse per anni, diventò un cenacolo musicale. Non solo Thelonious, ma anche Charlie Parker, Art Blakey, Sonny Clark, Tommy Flanagan e Kenny Drew le dedicarono delle canzoni.

Andò perfino in carcere per Thelonious. Successe nel 1958, quando la polizia fermò la Bentley con loro due a bordo, mentre si recavano a un’esibizione fuori New York. Li perquisirono e trovarono una piccola quantità di marijuana, che Monk fumava regolarmente. Lei non ebbe dubbi.


“Nica, la baronessa. Anche Monk, come Charlie Parker, entra nelle grazie della baronessa Pannonica de Koenigswarter, Nica per gli amici, appassionata di jazz e di gatti. Sarà un’amicizia epica e totale la loro. Definitiva. E poi Teo Macero, capo della Columbia e compositore, un bianco furbo e intelligente, il contraltare di Miles Davis dietro le quinte, che decide di produrlo. E’ l’apice della carriera di Monk. Sono gli anni ’60 e il mondo è cambiato. Così cambiato da poter accogliere Monk’s Dream il suo album più venduto, così cambiato da meritarsi Monk sulla copertina di Time. Ci sono tour, ora, e fotografi, e gente che fa la fila per vedere l’ultimo copricapo di Thelonious.

Monk’s dream. Chissà qual è il sogno di Thelonious negli anni 70, chissà se è un incubo o una febbre covata, tenuta a bada, e che esplode. Perché a un certo punto l’intero microcosmo di Monk, quello che l’artista ha costruito accordo dopo accordo, serata dopo serata, session interminabili e lavoro durissimo, si sgretola. All’improvviso. Il pianoforte smette di esistere. Melodious esce ed entra dalle cliniche psichiatriche. Bipolarismo è la diagnosi. Lui si mette a nanna, sotto sale, si iberna, sceglie il letargo. Via il cappello. Le dita rattrappite, la voce serrata in gola. Il distacco tra Monk e il mondo, all’inizio una fessura, diventa una voragine. Si rifugia per un decennio nella casa di Nica, a Weehawken, New Jersey. Nella stanza ha uno Steinway a coda che non tocca, il contrario di quanto era accaduto a Bud Powell che, pazzo e disperato, aveva continuato a disegnare sui muri del manicomio i tasti in bianco e nero. 
La musica è finita. Monk, il gran sacerdote del bebop, è una balena arenata tra le pieghe di un mare misterioso, senza onde. Un mare calmo, fetido e mortale.
Un giorno disse: “Il rumore più forte del mondo è il silenzio”. Si sbagliava. Il rumore più forte del mondo è la risata di una donna, è il battito del cuore di un bambino su un’altalena, è il respiro di un gigante del jazz che prende la rincorsa, ride, tocca Dio, balla, ed è ancora qui. A farci girare la testa. “

Brano tratto dall’articolo di Daniela Amenta per il Giornale dello spettacolo ttps://giornaledellospettacolo.globalist.it/musica/2017/10/09/monk-i-cento-anni-del-colosso-jazz-che-ci-fa-ballare-ancora-2012844.html

Disse che era sua, pur sapendo di rischiare dieci anni di carcere e la deportazione dagli Stati Uniti. Venne condannata a tre anni, fece diversi mesi in galera, ma dopo una lunga battaglia legale successe il miracolo: un giudice respinse il caso per un errore tecnico della polizia, che aveva perquisito l’auto senza il permesso di Nica.

Monk soffrì di depressione e schizofrenia negli ultimi anni. Lasciò il jazz, ma Nica non lasciò lui. Gli aprì la sua casa del New Jersey e lì lo accudì fino alla morte, nel 1982. Al suo funerale, Nellie e Nica sedettero in chiesa l’una accanto all’altra e tutti fecero le condoglianze a entrambe: le vedove. Pannonica Rothschild de Koenigswater morì nel 1988. Aveva 74 anni.

Paolo Valentino per “Il Corriere della Sera”

NONNI

NONNI

L’unica persona che ho visto spirare è stato mio nonno Raffaele. Ero un ragazzo ai piedi del letto e l’ultimo suo gesto prima di andarsene è stato quello di dire con la mano a mio padre di allontanarmi per evitarmi quella vista. Io sono rimasto, è stato lui ad allontanarsi sgranando gli occhi. Quando poi per vestirlo lo si è dovuto spostare da quel letto al soggiorno, l’ho preso in braccio e l’ho portato nella stanza accanto. Pesava pochissimo il nonno, ma è stata la leggerezza più pesante che abbia mai sentito. Nei pochi chili di quel gran nonno c’era tantissimo. C’erano la vita, la storia, i racconti, le radici sue, di tutta la nostra famiglia e un po’ del mondo intero.

Raffaele Leone, direttore dl settimanale Panorama

I vecchi, e per me in questo caso vecchio non significa superato ma vissuto, sono un grande patrimonio. È meraviglioso quel celebre detto africano che dice: «Ogni vecchio che muore è una biblioteca che brucia». Gli africani, che sul tema hanno una filosofia e una cultura che noi ci sogniamo, quella cultura e quella filosofia l’hanno tramandata per generazioni. Quando tanti anni fa giravo il mondo in lungo e in largo, ricordo ancora quei villaggi fantasmagorici e poverissimi dell’etnia Dogon del Mali in cui si veniva tenuti in considerazione man mano che si cresceva d’età. I più vecchi li riconoscevi subito per quell’aria di rispetto sacro che li circondava. Ci si rivolgeva a loro per un dubbio, per un consiglio, per una disputa da risolvere. Seduti sulla sabbia, col bastone accanto e con quei poveri abiti elegantissimi, sembravano dei re.

A casa in Sicilia abbiamo con noi un eritreo, Aron, diventato praticamente l’angelo custode di mia mamma vecchina vecchina. Sbirciandolo mentre la mette a dormire la sera, ho recentemente scoperto che le rimbocca le lenzuola e le dà la buonanotte con un baciamano. Uno spettacolo. Mamma, oltre ad essere stata una brava mamma, finché le forze glielo hanno permesso è stata una brava nonna non soltanto per i suoi quattro nipoti. A settant’anni inoltrati girava ancora in motorino e per l’Epifania si vestiva da Befana andando a distribuire caramelle per strada e a consegnare regali ai bambini degli amici. L’anno scorso mentre eravamo in auto vicino casa a fare rifornimento, un giovane benzinaio a me sconosciuto si è avvicinato per farle festa. Gli ho chiesto: perché? «Perché sua mamma, quando ero piccolo, si fermava sempre col motorino e aveva sempre una parola o un regalo da darmi. Per me è stata una nonna, una nonna in più. Nonna vuol dire affetto e casa, che cosa c’è di più importante nella vita?».

I vecchi sono l’esperienza e, se ci pensate, sono un libro di fiabe e di racconti. Interrogarli vuol dire farsi condurre in mondi che non ci sono più, in epoche e costumi cambiati, in dinamiche psicologiche e sociali diverse. Sono una macchina del tempo vivente che può portarci indietro di un secolo. A maggior ragione oggi che tutto accelera e che le tappe si bruciano in fretta, ci danno ancor più la percezione concreta del passaggio su questa terra e della storia, ci aiutano ad avere il senso della misura, ci insegnano a vivere bene l’oggi guardando al domani. Ci ricordano che quell’oggi e quel domani diventeranno presto ieri. E che sarà così sempre e per tutti. Bisognerebbe che le scuole facessero un’ora di lezione in cui i vecchi salissero in cattedra per raccontare le loro vite. Sarebbe istruttivo nel santuario dell’istruzione.

In questi tempi in cui si diventa più longevi, poi, i nonni sono ormai compagni di viaggio più attivi che in passato. Seguono i nipoti in tratti di strada più lunghi, sostituiscono noi genitori nella vita quotidiana, diventano aiutanti indispensabili. Anche quando fanno smuovere i nervi li si guarda poi con affetto. Quante volte nella mia giornata di padre indaffarato, la soluzione l’ho trovata nelle tre parole magiche: chiediamo-ai-nonni. Sono «nonnipresenti» e così ho voluto titolare l’articolo di copertina in vista della festa dei nonni.

Da quando sono direttore ricevo un numero di lettere inaspettato da parte di lettori. Molti sono anziani. Acuti, attenti, partecipi, stimolanti, severi, pacati. E spesso affettuosi in modo disarmante. Leggono di tutto e scrivono di tutto. Rafforzano la mia convinzione che invece di metterli da parte e considerarli il passato dovremmo seguirli di più, valorizzarli di più, restituire loro di più. Non solo in famiglia. Perché senza nulla togliere ai ragazzi, anch’essi una fantastica scuola di vita, i vecchi sono spesso la nostra meglio gioventù.

Articolo di Raffaele Leone, Panorama (qui)

IL TITTA STA IN MONTAGNA, PIU’ SOTTO LA MANO DELLA PROVVIDENZA CHE NON DELL’INPS

IL TITTA STA IN MONTAGNA, PIU’ SOTTO LA MANO DELLA PROVVIDENZA CHE NON DELL’INPS

A quasi mezzo secolo dalla consegna del premio Oscar ad Amarcord , il protagonista Bruno Zanin ha avuto una di quelle sorprese che ti cambiano la vita. In peggio: ha scoperto che non può avere la pensione come attore. «Mi sono rivolto a un patronato di Domodossola. Dall’ estratto conto Inps risulta che, nei 143 giorni trascorsi sul set fra gennaio e luglio del 1973, ero dipendente del Tennis club Diano Marina. Assurdo. Per aver diritto alla minima, dovrei versare altri cinque anni di contributi».

Vanzone Monte Rosa

Zanin abita ai piedi del monte Rosa, a Vanzone, in una vecchia baita. I capelli del Titta Biondi, che nel capolavoro di Federico Fellini incarnò l’ amico d’ infanzia del futuro regista, sono diventati grigi. Dal 2018 riscuote l’ assegno sociale concesso ai meno abbienti: 470,90 euro al mese. «Per arrotondare, ho inventato il libro a chilometro zero».

Parla del suo romanzo autobiografico Nessuno dovrà saperlo , scaturito da una violenza sessuale subita a 13 anni, a opera di un missionario che poi si sarebbe impiccato in Venezuela. «Chi legge questo libro, non lo dimenticherà», ha scritto Ferdinando Camon. Fu pubblicato la prima volta dall’ editore Tullio Pironti e tradotto anche in spagnolo. Ora l’ autore se lo ristampa in proprio e lo invia a chi ne fa richiesta attraverso la sua pagina Facebook.

Titta con la tabaccaia in Amarcord di Federico Fellini

Com’ è possibile che un attore figuri all’ Inps come giardiniere?

«Non ho mai messo piede in quella località ligure, anzi, a dirla tutta, nemmeno so dove sia. Magari il Tennis club Diano Marina apparteneva al produttore Franco Cristaldi. Eppure sul libretto di lavoro c’ è il timbro del legale rappresentante “Società F.C. Srl Amarcord”. Mi sono spariti i contributi su altri film, produzioni Rai in appalto, spot pubblicitari, un paio di fotoromanzi, una stagione teatrale. Addirittura dal carteggio Enpals-Inps risulta che a retribuirmi come attore ci furono persino due società di scommesse sportive».

Titta con Gradisca in Amarcord di Federico Fellini

Crede che anche Fellini fosse in regola come raccattapalle o allibratore?

«Come no». (Ride).

Che tipo era il regista?

«Insuperabile. Pochi potevano eguagliarlo. Mi scelse per caso fra il pubblico di Cinecittà, dopo che il suo amico Gustavo Adolfo Rol, il sensitivo torinese, gli aveva profetizzato: “Smetti di cercare il protagonista. Ti troverà lui”. Appena scritturato, a me Rol disse: “Sta’ attento, Zanin. Federico è un vampiro”».

Federico Fellini

«Era istrione, ruffiano, egocentrico, bugiardo patologico. In pubblico affettuoso marito della moglie Giulietta Masina; dietro le quinte tirannico carceriere di Anna Giovannini detta la Paciocca, amante tenuta a sua disposizione dentro una torre di avorio. Governava la troupe in modo imperioso, urlava, pareva Mosè sceso dal Sinai. Tolse il saluto al fratello Riccardo, colpevole d’ aver firmato un film da due soldi con il cognome Fellini. Per una beffa del destino morì nella stessa stanza del Policlinico Gemelli di Roma dov’ era spirato il congiunto».


Magali Noël

Non starà esagerando?

«Chieda a Moraldo Rossi, il suo primo aiuto regista. Comunque con me Federico era tenerissimo. Mi scriveva letterine gentili. Si vantava d’ avermi raccomandato a Giorgio Strehler per Il campiello al Piccolo di Milano. Saputo che ero senza soldi, mi scritturò per Ginger e Fred , pagato profumatamente per non fare nulla nel ruolo di un paziente bendato, quindi irriconoscibile: secondo lui dovevo restare per sempre il Titta di Amarcord ».

Le voleva bene.

«E io a lui, moltissimo. Mi ha dischiuso una carriera durata quasi vent’ anni e interrotta solo per mia volontà. Non gli ho perdonato due bidoni. Quando mi diede buca in un ristorante cinese di via Cavour, a Roma, dov’ ero ad aspettarlo con uno dei miei due figli, all’ epoca undicenne, armato di macchina fotografica per immortalare l’ evento.

E quando a Parigi recitavo in francese Eugène Ionesco al Théâtre de la Ville. Mi aveva promesso di venirmi a vedere con Giulietta Masina. Gli feci tenere due posti in prima fila alla première. L’ indomani trovai in camerino un biglietto di scuse: era dovuto andare a cena con la moglie dall’ ambasciatore italiano. Peccato che il diplomatico la sera prima fosse con la consorte a teatro proprio per incontrarvi Fellini. Era fatto così. Nella sua villa di Fregene imitava al telefono la voce della colf per non farsi trovare: “Il maestro non è in casa”».


Théâtre de la Ville Parigi

Mi risulta che lei abbia avuto rapporti un po’ spigolosi nel mondo del cinema, per esempio con Gian Maria Volonté.

«Teneva le distanze, ma non solo con me. Per assomigliare allo statista dc nel film Il caso Moro , mi trattava come se fossi davvero un brigatista. Un 9 aprile, mentre recitavamo, giunse negli studi della De Paolis una grande torta di compleanno.

Lui credeva che gliel’ avesse mandata Armenia Balducci, la sua compagna di allora. Ne diede una fetta a tutti, tranne che a me. Quando scoprì che il dolce mi era stato regalato dal mio agente, rimediò una porzione fra i presenti.


L’attrice francese Magali Noël sul set di “Amarcord” di Federico Fellini, Roma, 13 marzo 1973.

“Non sapevo che compissimo gli anni nello stesso giorno”, si scusò. “Non sembri un ariete. Per me sei del segno del calamaro. Butti inchiostro per nasconderti, solo tu sai da che cosa”».

Perché rinunciò al mestiere di attore?

«È un mondo di cartapesta, di non realtà. Il luogo ideale per alcuni, una gabbia di sofferenza per altri. Io non ho fatto nulla per entrarvi, vi sono stato portato in braccio dalla fortuna. Volevo indietro la mia vita selvaggia di prima».

Da allora di che ha campato?

«Mi sono buttato in avventure scriteriate, come quella di andare in Bosnia a fare per tre anni il Brancaleone degli aiuti umanitari fai da te. Ci ho ricavato corrispondenze di guerra per la Radio Vaticana, Der Spiegel , Famiglia Cristiana , una volta anche per il Corriere della Sera . Dopo un periodo di depressione nera, ho ripreso a girare il mondo».

Dov’ è stato di recente?

«A camminare per tre mesi in Turchia, sulla via Licia, sentiero impervio con panorami inimmaginabili. Mentre ero lì, un giovane film-maker comasco, Alberto Gerosa, mi ha chiesto via Facebook se fossi disposto a lavorare in un documentario-verità che stava girando a Hong Kong. Il personaggio che dovevo impersonare era un prete accusato di pedofilia, fuggito all’ estero per evitare l’ arresto. Così ho tirato dritto fino in Cina».

Come riesce a pagarsi questi tour?

«La provvidenza ogni tanto mi fa l’ occhiolino. Per la parte a Hong Kong, per esempio, mi hanno ben retribuito. Vivo di poco o niente, giro con lo zaino, dormo in tenda. Non ho l’ auto, non ho vizi, non fumo, non assumo droghe. Ho amici che mi vogliono bene, il miglior investimento che potessi fare nella vita. E nessuno di loro è famoso, se si escludono Raffaele La Capria, il suo ex genero Francesco Venditti e il compianto Edward Melcarth, il pittore-scultore prediletto dal miliardario Malcom Forbes che affrescò l’ hotel Pierre di New York e disegnò gli occhiali di Peggy Guggenheim.

Mi raccattò in una calle veneziana e mi educò. Andavo a colazione dalla collezionista con lui e il mio cane Whisky».

Edward Melcarth

So che ha compiuto molte volte il Cammino di Santiago di Compostela.

«Non mi tiri dentro a competizioni di questo genere, le odio, “io ne ho fatti tre”, “e io quattro”, “ma io li ho fatti d’ inverno”. Il Cammino di Santiago è diventato la via Veneto di un tempo. Pochi lo affrontano con lo spirito delle origini. I pellegrini fighetti lo percorrono per sfoggiare materiale tecno da migliaia di euro, Zanin per ammazzare la disperazione che ogni tanto gli serra la gola».

Qual è il suo più grande desiderio?

«Chiedere scusa a tutte le persone che ho ferito e scandalizzato con comportamenti da filibustiere. Vorrei dire al regista Marco Tullio Giordana che sono molto addolorato per aver perso la sua amicizia. Mi ha rivelato un dono, la scrittura, che non sapevo di possedere. È una gran bella anima, non lo sento da una quindicina di anni. Colpa mia. Talvolta mi capita di essere cattivo perché le mie rotelle non sempre funzionano».

Da chi ha avuto di più nella vita?

«Dalla buonanima di mia madre Adele, che mi ha insegnato sin da piccolo a credere nel bene, a perdonare, a dare una mano a chi è in difficoltà. Ho avuto un’ infanzia edenica nei campi del Veneziano. Portavo i fiori alla Madonna, ripetevo all’ infinito la giaculatoria “Gesù e Maria ve vogio tanto ben” insegnatami da mia nonna Teresina, cadevo in estasi.

Durante una di queste trance, vidi una donna che affogava con due bambine in un canale. La sera ne parlai in casa. L’ indomani fu trovata una mamma annegata con le figliolette: s’ era suicidata».

Crede ancora in Dio?

«Sì, ma ultimamente sono più dubitante che credente. Temo che Lui non si fidi più dell’ umanità, che ci abbia abbandonato al nostro destino. In duemila anni di cristianesimo lo abbiamo troppo deluso. Siamo egoisti, intolleranti, pronti a maltrattarci a vicenda, finti.

Sento di essere fasullo anch’ io. Recito una commedia infinita. Lo dimostra questa intervista, in cui ho fatto di tutto per sembrare simpatico, intelligente e originale».

Può dirsi felice?

«A volte mi capita di esserlo per qualche momento: un gatto che viene a strofinarsi tra le mie gambe, un cane che mi scodinzola, un bimbetto che mi sorride, un amico che mi telefona. Cose minime eppure enormi. Quanto l’ infelicità di non riuscire più a godere d’ essere vivo in questo mondo sgangherato che mette paura».

Aricolo di Stefano Lorenzetto per il “Corriere della Sera”

VITTORIO SGARBI: LA GIOCANDA? UNA GRAN PUTTANONA. LEONARDO? UN FANNULLONE DI GENIO

VITTORIO SGARBI: LA GIOCANDA? UNA GRAN PUTTANONA. LEONARDO? UN FANNULLONE DI GENIO

Il critico d’arte in scena nei teatri italiani con lo spettacolo sull’artista toscano: “Di Maio assomiglia a Leonardo, entrambi erano dei nullafacenti che volevano il reddito di cittadinanza. Nel Rinascimento Salvini sarebbe stato un suo capomastro, bravo solo a eseguire”

Leonardo da Vinci? Un fannullone di talento. Aspetti che devo andare a pagare due spremute d’arancia. Ma tu sei della Lega? Insomma è andata bene a Caltanissetta. Ah no, sei dei 5 Stelle, ma tra quanto si vota?». Esiste solo una cosa più difficile dell’intervistare Vittorio Sgarbi:dargli un’etichetta. Perché questo critico d’arte, ex sindaco, conduttore televisivo, divulgatore, saggista, opinionista, attore, professore, politico e intellettuale sfugge a qualsiasi definizione. Riesce a fare tutto, un po’ come Leonardo. Tra una votazione in Parlamento, una battuta con i colleghi nel Transatlantico e una chiacchierata con gli altri deputati alla bouvette, Sgarbi riesce a spiegarci perché è importante ricordare da Vinci a 500 anni dalla morte avvenuta il 2 maggio del 1519. «È ancora in linea? Allora le dicevo: Leonardo è un genio, ma queste celebrazioni sono iettatorie».

Perché? 
Perché sia questo che quello di Raffaello nel 2020 e Dante nel 2021 celebrano la morte dell’artista. E invece Leonardo non è mortoma vivo. La sua vita è stato un continuo e incessante dubbio per capire le ragioni del mondo, della natura e di Dio. Si celebra Leonardo perché rispetto ad altri personaggi famosi del Rinascimento come Michelangelo è il più attuale, per la sua ansia di conoscenza. E poi le celebrazioni prescindono dall’importanza oggettiva di un personaggio. Possiamo festeggiare sempre Leonardo da Vinci anche senza centenari o cinquecentenari.

Qual è il più grande equivoco che abbiamo su Leonardo? 
L’equivoco è che sia stato un grande artista. È stato il genio dell’imperfezione ma un grande dilettante. Non c’è un’architettura, non c’è una scultura, non c’è un’invenzione riuscita. Ci sono dei quadri, pochi e dipinti in modo anche talvolta incerto. Ma in lui c’è una intuizione assoluta di Dio nell’uomo. La pittura è cosa mentale, poi non importa farla materialmente. Quello che è importante di Leonardo è l’ansia. È stato un personaggio capace di interpretare quella che oggi si chiama arte concettuale. Prendi la Gioconda: non è il ritratto di una persona, è proprio una persona viva. La Gioconda vive, parla. Questa è la sua forza: aver creato una dimensione divina.

Luigi Di Maio e Vittorio Sgarbi

Qual è l’opera più sottovalutata? 
La dama con l’ermellino perché non ha avuto la fama della Gioconda, benché sia forse persino più bella. E invece è da riscoprire: è un’opera di profonda sottigliezza. Indica la devozione amorosa come esclusività. La dama non guarda negli occhi noi che siamo davanti al quadro. Guarda qualcuno al di fuori.

Chi? 
L’uomo che ama. È la dimostrazione di una dedizione amorosa unica. Non c’è un altro ritratto prima nella storia dell’arte dove una donna guarda da un’altra parte. Questo fa intendere che Ludovico il Moro, di cui la dama con l’ermellino è innamorata, è in realtà dentro di lei. Mentre la Gioconda è la donna di tutti, è una grande puttanona.

Addirittura.
Sì, appartiene e assomiglia a tutti. Lei e la dama con l’ermellino sono due mondi opposti. La Gioconda è un’opera nella quale si vede il tentativo di uscire dal quadro stesso. Tanto è vero che conosci la Gioconda, o almeno la sua idea, avendo visto prima la fotografia del quadro. Quando vai al Louvre non riesci a vederlo per quanta gente c’è davanti. Ma la conosci da una cartolina vista a cinque anni, da una fotografia su un libro o dalla una riproduzione nello studio di un dentista. È un’opera di una potenza inarrivabile dal punto di vista della sua identità emblematica.

Di Maio assomiglia a Leonardo da Vinci perché entrambi non hanno mai fatto nulla in vita loro. Da Vinci cercava il reddito di cittadinanza, era un fannullone. Entrambi avevano l’idea di fare successo senza faticare. Salvini avrebbe potuto fare al massimo il capomastro del Maestro per eseguire i suoi progetti.Vittorio Sgarbi

Grarbi in tv con le due figlie

E qual è l’opera di Leonardo più sopravvalutata?
L’ultima cena, ma non perché non sia un capolavoro, anzi. Ma è dipinto oggettivamente male. Invece di essere un affresco fu dipinto a secco quindi nell’arco di cinquanta anni si è disperso. È rimasto un fantasma. Una specie di Sindone di quello che è stato. Non ha la forza di un affresco che resiste al tempo. Il restauro lo ha un po’ rimesso a nuovo ma è oggettivamente dipinto male. Non è sopravvalutato rispetto alla concezione di Leonardo, anche lì straordinaria in questo meraviglioso disegno di stati d’animo. Però se guardi le figure non c’è più niente: è un dipinto logorato.

Ci dica la sua opera preferita di Leonardo.
La Madonna Benois che si trova al museo dell’Ermitage di San Pietroburgo. Mi piace perché introduce un elemento assolutamente nuovo: l’emozione e la tenerezza di essere madre. Nessun volto ha quella dolcezza che mai altro artista prima di lui ha espresso. Leonardo è stato capace di restituire la dimensione ineffabile della felicità dell’essere madre.

Cosa ne pensa della supposta unica scultura di Leonardo esibita a Palazzo Strozzi?
Penso sia una bufala del calabrese Cagliotti che conosce Leonardo come io il Tibet, dove non sono mai stato. Non si conoscono le sculture di Leonardo e quella è troppo solitaria per poter essere una prova della sua autenticità. È impossibile che Leonardo abbia fatto una scultura. Si tratta di una speranza, un desiderio, un’ansia. Come uno che sogna Naomi Campbell e si masturba davanti a una fotografia. Ora però devo tornare a votare alla Camera.

A proposito di politica, se lei fosse presidente del Consiglio, in che ministero metterebbe Leonardo?
All’istruzione, senza dubbio. Perché la sua parabola insegna quello che l’uomo dovrebbe sapere o almeno ciò che dovrebbe inseguire: la conoscenza. Sarebbe più difficile mettere i politici di oggi nel Rinascimento perché sarebbero dimenticati dalla storia. Anche se Di Maio assomiglia a Leonardo.

Cosa li accomuna?
Leonardo non ha mai fatto nulla in vita sua, cercava il reddito di cittadinanza, era un fannullone. Entrambi avevano l’idea di fare successo senza faticare. Salvini avrebbe potuto fare al massimo il capomastro di Da Vinci per eseguire i suoi progetti. Nulla di più.

Intervista a cura di Andrea fIORAVANTI  per l’Inkiesta.it

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