NELL’ IMMINENZA DI GIRARE STAR TREK PER ADULTI, IL REGISTA, IGNORATO A CANNES NONOSTANTE ILLUMINI DI ELEGANZA E ENERGIA I TEMPI DI NIXON E DELL’OMICIDIO DI SHARON TATE COL SUO ONCE UPON A TIME…. IN HOLLLYWOOD , FILM MASCHERATO COME SEMPRE DA FICTION DI SERIE B O C E PERVASO DA MILLE ALTRE VISIONARIE SUGGESTIONI.
Quentin Tarantino, piaccia o meno, è sempre più il mondo e
il tempo che vuole lui. Sempre più una bolla protetta dalla storia reale del
mondo moderno ma rifiltrata dalla cinefilia e dalla passione per tutto quello
che è considerato minore. Sempre più universo parallelo. Sempre più al di fuori
e al di sopra dei generi come fossero un unico flusso, una totalità indistinta.
Con l’intenzione di sciogliere tutto in un organismo unico, l’ambizione di un
cinema che diventa una cosa sola, una fusione unitaria. Per questa ragione in
apertura non abbiamo scritto “il cinema di Quentin Tarantino”, proprio perché
il regista e il suo cinema non sono realmente separabili, ma sono ormai quasi
un’unica entità.
Once upon a time… in Hollywood non fa eccezione, anzi. Amplia
questa dimensione. Visivamente è un film sontuoso, abbagliante, energico. Siamo
nelle strade assolate della California, quelle intorno a Hollywood e le sue
ville, nel 1969, l’anno dell’ascesa alla Casa Bianca di un presidente
reazionario come Richard Nixon, dopo le speranze rappresentate dai fratelli
Kennedy e da Martin Luther King – tutti assassinati nel decennio che si chiude
– e di un intensificarsi della guerra in Vietnam.
Decennio magico di crisi e rinascita
Ma è anche l’anno dell’allunaggio e della crisi
dell’industria di Hollywood che porta all’affermarsi di quella che è stata
definita la New Hollywood, un movimento di grande energia che criticherà e
vivisezionerà la società americana insieme al sistema degli studios: un
decennio magico di crisi e di rinascita da cui usciranno fuori Roger Corman
(che ne fu l’iniziatore) e Sam Peckinpah, Francis Ford Coppola e Martin
Scorsese, Peter Bogdanovich e Arthur Penn, Brian De Palma e Michael Cimino,
George Romero e Steven Spielberg, fino ad arrivare, tra le ultime propaggini, a
Oliver Stone, il quale comincia la sua carriera nel riflusso degli anni
ottanta, riflusso che nel cinema americano pare non esser mai terminato del
tutto.
Tutto questo nel nuovo film di Tarantino non c’è, come non
c’è quasi, se non per piccole allusioni, riferimento alle tragedie storiche
appena citate. Ma il fatto che la New Hollywood sia fuori campo come
riferimento cinematografico, forse fa ancor più sentire la sua presenza, nel
bene e nel male.
Come ha fatto in molti altri film, Tarantino fa qui
riferimento alle serie b televisive, nella fattispecie la serie tv western
Lancer (il cui protagonista, James Stacy, è interpretato nel film da Timothy
Olyphant), anche se i protagonisti del film, interpretati da Leonardo DiCaprio
e Brad Pitt, sono rispettivamente attore protagonista e controfigura-cascatore
del primo in una serie western immaginaria, Bounty law, idealmente prodotta tra
il 1958 e il 1963.
Il primo è ora dimenticato e fallito, il secondo è abituato a non esser considerato, perché cinematograficamente nato nell’oblio, e quindi ora in miglior forma. Un meccanismo che ricorda The hateful eight, che si riferiva alla celebre serie tv western Bonanza oltre che, come qui, agli spaghetti-western di Sergio Corbucci, regista a cui del resto già si riferiva in maniera evidente fin dal titolo con _Django unchained.
Tra fiction di serie b e serie c, Tarantino in realtà
trasfigura tutto questo come un artista della pop art, mutando il medio o il
mediocre in una visione da cinema di grande budget, con un’eleganza e
un’energia visiva degna di certo cinema della New Hollywood. Molto merito va al
direttore della fotografia Robert Richardson che, proveniente dall’horror
politico di Wes Craven, è poi divenuto direttore della fotografia di tutti i film
di Oliver Stone, da Salvador (1986) fino a U turn – Inversione di marcia
(1997). Un regista, Stone, che ha riletto la storia statunitense come un film
horror e che ha cominciato non per caso con l’horror (Seizure, 1974, e La mano,
1981). Poi, da Kill Bill, Richardson è passato a collaborare in maniera fissa
con Tarantino.
Potenza criticata ma innegabile
Quanto ci sia in questa trasfigurazione dell’intensità, del
ritmo (soprattutto nella prima parte) e della profondità di quel cinema
ribelle, è ben più dubbio. Qui a Cannes anche critici molto amanti del cinema
Tarantino hanno espresso forti critiche riguardo alla mancanza d’intensità e di
riferimenti cinematografici più ampi, e più ancora alla scarsa etica e moralità
nel riscrivere la storia, in questo caso l’omicidio di Sharon Tate nella villa
di Roman Polanski commesso dall’efferata setta Family Manson. Ma Tarantino lo
ha sempre fatto, in particolare nell’ucronia di Bastardi senza gloria dove
Hitler e Goebbels finiscono assassinati.
La libertà che si prende Tarantino è ormai totale, si fa
labile la distinzione tra un genio leggero, o superficiale, e un genio
innamorato dell’uomo e del cinema che cerca di creare un’utopia che sovverte
l’ineluttabilità della storia. Il suo cinema, da molto tempo, trasmette un
senso ludico radicale quanto di vuoto interiore, con l’eccezione di Jackie
Brown.
Tuttavia la potenza del suo stile è innegabile anche se
nella prima parte si guarda un po’ l’orologio ma poi ci si diverte davvero. Ma
non solo. È proprio nella parte notturna con Sharon Tate che Tarantino seduce
di più riuscendo per la prima volta a evocare atmosfere e creando nella
successione di situazioni farsesche un mondo, una bolla a metà tra l’horror e
il fantastico, dove si vede tutto il talento visivo di Tarantino e Richardson.
Tra la grandezza, presunta o reale, del cinema western che
DiCaprio pensa di interpretare sul set e il mediocre ma divertente western
reale della cittadella western delle giovani donne – ma situata fuori dal set –
in cui finisce invece Brad Pitt, non c’è distinzione, siamo in un unico film
senza soluzione di continuità. Così come la storia e il tempo del mondo reale
sono un unico sogno-incubo riscritto e rinchiuso in una bolla, o utero materno
protettivo creato dalla cinefilia, molto umano quanto forse un po’ immaturo.
Immaturo ma al tempo stesso anche molto bello, quasi una
forma nuova di cinema potenziale che ha una sua poesia ma che, proprio per
questo, si vorrebbe che affinasse per farlo divenire in futuro qualcosa di più
profondo e intenso.
E raggiungesse, magari superandoli, quei maestri del cinema
popolare di genere giapponese che sono Seijun Suzuki e Kenji Fukasaku – capaci
di creare grandi e raffinate invenzioni di stile insieme a rappresentazioni
profonde – in Kill Bill da lui saccheggiati e omaggiati (anche qui come
distinguere le due cose?).
Un po’ vano, geniale maestro dell’esercizio di stile a
partire da Kill Bill, il potenziale di Tarantino è così enorme, così unico
nella storia del cinema per il suo globalizzare le frontiere sia geografiche
sia temporali, che porta a desiderare che questo universo di simulacri dove ha
annullato ogni porta e forse ogni muro, veicoli oltre al ludico anche qualcosa
di intenso, realmente interiore e visionario come, per esempio, riesce al
cinema di un David Lynch.
Rampolla di un Rothschild, il suo nome era quello di una falena; niente di più azzeccato per la futura animatrice delle notti newyorkesi- Pannonica era un’eccentrica che amava le auto veloci e viaggiava con un aereo personale- Con la Seconda guerra mondiale lascia Parigi e gira per il mondo, dall’Africa a Mexico City. Finché un giorno, di passaggio a New York, ascolta un pianista jazz che esegue ‘Round Midnight di Thelonious Monk’s. E questo cambia la sua vita. –
Il disco, Round Midnight, suonò soltanto per tre minuti. Ma
lei rimase di stucco, incapace di pensare ad altro. Nessuna musica le aveva mai
fatto quell’effetto, come di paralisi e di tranche. Pregò il suo amico, il
pianista jazz Teddy Wilson che era passata a salutare sulla strada
dell’aeroporto, di suonarlo di nuovo. Se lo fece ripetere venti volte.
Dimenticò l’aereo, dimenticò la famiglia. Non partì più. Non tornò mai più a
casa. Decise che doveva restare a New York e cercare d’incontrare l’autore, un
giovane jazzista di nome Thelonious Monk.
Era il 1948. La baronessa Pannonica de Koenigswater, detta
Nica, aveva all’epoca 35 anni. Nata Rothschild, Nica era cresciuta nel mondo
privilegiato e recluso della grande dinastia bancaria. Dal suo matrimonio del
1934 con il barone Jules de Koenigswater, un affascinante diplomatico francese,
erano già nati cinque figli.
A sollecitare la sua corda pazza una prima volta era stata
la Seconda guerra mondiale, quando Nica aveva servito come ausiliaria in Africa
nelle milizie di France Libre comandate da Charles de Gaulle. Le era stato già
difficile accettare il ritorno alla routine domestica. Ora, erano bastate
quelle note a farle apparire la sua vita privata banale e priva di senso.
Ma non fu semplice rintracciare l’erratico jazzista. Le
furono necessari sette anni. Nica dovette tornare a Parigi, al concerto che
Thelonious Monk diede nel 1954 al Salon du Jazz. L’incontro avvenne nel
backstage, grazie a un’amica comune, la pianista Mary Lou Williams. Ma quando
lo vide, seppe che aveva fatto bene. Era, avrebbe detto molti anni dopo,
«l’uomo più bello che avesse mai visto». Da quel momento non ci fu più ritorno,
né pentimento. Soltanto amore. Per i successivi 28 anni Nica Rothschild dedicò
la sua vita e il suo patrimonio a Thelonious Monk.
È la pronipote Hannah Rothschild a raccontarci la
straordinaria passione di Nica per uno dei più grandi geni del jazz, in un
libro appena uscito per i tipi di Knopf, che le è costato anni di ricerche e di
ostilità. Nessuno in famiglia voleva infatti parlarle di Nica, che i Rothschild
avevano diseredato per la sua scelta scandalosa. In The Baroness: the search
for Nica, the rebellious Rothschild, Hannah ricostruisce il mistero di una
donna, la cui esistenza fu la dimostrazione di come sia possibile fuggire il
proprio passato in nome di un sogno d’amore.
Al tempo in cui incontrò la baronessa, Thelonious Monk era
già sposato con Nellie, dalla quale non si separò mai e della quale la
baronessa diventò amica. La storia di Monk e Nica, secondo Hannah Rothschild,
non fu mai fisica: «Non credo sia mai stato un affare di sesso bollente. C’è
sempre questa tendenza a sessualizzare ogni rapporto, soprattutto quelli che
incrociano classe e razza. Se guardate Nica insieme a lui in fotografia o nei
filmati, è chiaro che ne fosse innamorata, sembra sempre in adorazione. Lo dice
il modo in cui lei gli dedicò la sua vita, la sua devozione anche nei momenti
peggiori. Non penso che il sesso fosse al centro della cosa, non sarebbe durata
tanto».
Nica fu l’angelo di Thelonious. Era lei a fargli da agente,
a guidarlo ai concerti con la sua leggendaria Bentley azzurra, a proteggerlo, a
far sì che la sua creatività musicale non fosse intralciata da problemi
prosaici e terreni, a finanziarlo nei periodi di magra. Ornata di piume, collo
di pelliccia e fili di perle, l’eterna sigaretta fumante dentro il bocchino
d’argento tra le dita, Nica divenne la presenza fissa di ogni concerto di Monk.
I grandi del jazz l’accolsero come una di loro. La sua suite
allo Stanhope, l’albergo dove visse per anni, diventò un cenacolo musicale. Non
solo Thelonious, ma anche Charlie Parker, Art Blakey, Sonny Clark, Tommy
Flanagan e Kenny Drew le dedicarono delle canzoni.
Andò perfino in carcere per Thelonious. Successe nel 1958,
quando la polizia fermò la Bentley con loro due a bordo, mentre si recavano a
un’esibizione fuori New York. Li perquisirono e trovarono una piccola quantità
di marijuana, che Monk fumava regolarmente. Lei non ebbe dubbi.
“Nica, la baronessa. Anche Monk, come Charlie Parker, entra nelle grazie della baronessa Pannonica de Koenigswarter, Nica per gli amici, appassionata di jazz e di gatti. Sarà un’amicizia epica e totale la loro. Definitiva. E poi Teo Macero, capo della Columbia e compositore, un bianco furbo e intelligente, il contraltare di Miles Davis dietro le quinte, che decide di produrlo. E’ l’apice della carriera di Monk. Sono gli anni ’60 e il mondo è cambiato. Così cambiato da poter accogliere Monk’s Dream il suo album più venduto, così cambiato da meritarsi Monk sulla copertina di Time. Ci sono tour, ora, e fotografi, e gente che fa la fila per vedere l’ultimo copricapo di Thelonious.
Monk’s dream. Chissà qual è il sogno di Thelonious negli anni 70, chissà se è un incubo o una febbre covata, tenuta a bada, e che esplode. Perché a un certo punto l’intero microcosmo di Monk, quello che l’artista ha costruito accordo dopo accordo, serata dopo serata, session interminabili e lavoro durissimo, si sgretola. All’improvviso. Il pianoforte smette di esistere. Melodious esce ed entra dalle cliniche psichiatriche. Bipolarismo è la diagnosi. Lui si mette a nanna, sotto sale, si iberna, sceglie il letargo. Via il cappello. Le dita rattrappite, la voce serrata in gola. Il distacco tra Monk e il mondo, all’inizio una fessura, diventa una voragine. Si rifugia per un decennio nella casa di Nica, a Weehawken, New Jersey. Nella stanza ha uno Steinway a coda che non tocca, il contrario di quanto era accaduto a Bud Powell che, pazzo e disperato, aveva continuato a disegnare sui muri del manicomio i tasti in bianco e nero. La musica è finita. Monk, il gran sacerdote del bebop, è una balena arenata tra le pieghe di un mare misterioso, senza onde. Un mare calmo, fetido e mortale. Un giorno disse: “Il rumore più forte del mondo è il silenzio”. Si sbagliava. Il rumore più forte del mondo è la risata di una donna, è il battito del cuore di un bambino su un’altalena, è il respiro di un gigante del jazz che prende la rincorsa, ride, tocca Dio, balla, ed è ancora qui. A farci girare la testa. “
Disse che era sua, pur sapendo di rischiare dieci anni di
carcere e la deportazione dagli Stati Uniti. Venne condannata a tre anni, fece
diversi mesi in galera, ma dopo una lunga battaglia legale successe il
miracolo: un giudice respinse il caso per un errore tecnico della polizia, che
aveva perquisito l’auto senza il permesso di Nica.
Monk soffrì di depressione e schizofrenia negli ultimi anni.
Lasciò il jazz, ma Nica non lasciò lui. Gli aprì la sua casa del New Jersey e
lì lo accudì fino alla morte, nel 1982. Al suo funerale, Nellie e Nica
sedettero in chiesa l’una accanto all’altra e tutti fecero le condoglianze a
entrambe: le vedove. Pannonica Rothschild de Koenigswater morì nel 1988. Aveva
74 anni.
L’unica persona che ho visto spirare è stato mio nonno Raffaele. Ero un ragazzo ai piedi del letto e l’ultimo suo gesto prima di andarsene è stato quello di dire con la mano a mio padre di allontanarmi per evitarmi quella vista. Io sono rimasto, è stato lui ad allontanarsi sgranando gli occhi. Quando poi per vestirlo lo si è dovuto spostare da quel letto al soggiorno, l’ho preso in braccio e l’ho portato nella stanza accanto. Pesava pochissimo il nonno, ma è stata la leggerezza più pesante che abbia mai sentito. Nei pochi chili di quel gran nonno c’era tantissimo. C’erano la vita, la storia, i racconti, le radici sue, di tutta la nostra famiglia e un po’ del mondo intero.
Raffaele Leone, direttore dl settimanale Panorama
I vecchi, e per me in questo caso vecchio non significa superato ma vissuto, sono un grande patrimonio. È meraviglioso quel celebre detto africano che dice: «Ogni vecchio che muore è una biblioteca che brucia». Gli africani, che sul tema hanno una filosofia e una cultura che noi ci sogniamo, quella cultura e quella filosofia l’hanno tramandata per generazioni. Quando tanti anni fa giravo il mondo in lungo e in largo, ricordo ancora quei villaggi fantasmagorici e poverissimi dell’etnia Dogon del Mali in cui si veniva tenuti in considerazione man mano che si cresceva d’età. I più vecchi li riconoscevi subito per quell’aria di rispetto sacro che li circondava. Ci si rivolgeva a loro per un dubbio, per un consiglio, per una disputa da risolvere. Seduti sulla sabbia, col bastone accanto e con quei poveri abiti elegantissimi, sembravano dei re.
A casa in Sicilia abbiamo con noi un eritreo, Aron, diventato praticamente l’angelo custode di mia mamma vecchina vecchina. Sbirciandolo mentre la mette a dormire la sera, ho recentemente scoperto che le rimbocca le lenzuola e le dà la buonanotte con un baciamano. Uno spettacolo. Mamma, oltre ad essere stata una brava mamma, finché le forze glielo hanno permesso è stata una brava nonna non soltanto per i suoi quattro nipoti. A settant’anni inoltrati girava ancora in motorino e per l’Epifania si vestiva da Befana andando a distribuire caramelle per strada e a consegnare regali ai bambini degli amici. L’anno scorso mentre eravamo in auto vicino casa a fare rifornimento, un giovane benzinaio a me sconosciuto si è avvicinato per farle festa. Gli ho chiesto: perché? «Perché sua mamma, quando ero piccolo, si fermava sempre col motorino e aveva sempre una parola o un regalo da darmi. Per me è stata una nonna, una nonna in più. Nonna vuol dire affetto e casa, che cosa c’è di più importante nella vita?».
I vecchi sono l’esperienza e, se ci pensate, sono un libro di fiabe e di racconti. Interrogarli vuol dire farsi condurre in mondi che non ci sono più, in epoche e costumi cambiati, in dinamiche psicologiche e sociali diverse. Sono una macchina del tempo vivente che può portarci indietro di un secolo. A maggior ragione oggi che tutto accelera e che le tappe si bruciano in fretta, ci danno ancor più la percezione concreta del passaggio su questa terra e della storia, ci aiutano ad avere il senso della misura, ci insegnano a vivere bene l’oggi guardando al domani. Ci ricordano che quell’oggi e quel domani diventeranno presto ieri. E che sarà così sempre e per tutti. Bisognerebbe che le scuole facessero un’ora di lezione in cui i vecchi salissero in cattedra per raccontare le loro vite. Sarebbe istruttivo nel santuario dell’istruzione.
In questi tempi in cui si diventa più longevi, poi, i nonni sono ormai compagni di viaggio più attivi che in passato. Seguono i nipoti in tratti di strada più lunghi, sostituiscono noi genitori nella vita quotidiana, diventano aiutanti indispensabili. Anche quando fanno smuovere i nervi li si guarda poi con affetto. Quante volte nella mia giornata di padre indaffarato, la soluzione l’ho trovata nelle tre parole magiche: chiediamo-ai-nonni. Sono «nonnipresenti» e così ho voluto titolare l’articolo di copertina in vista della festa dei nonni.
Da quando sono direttore ricevo un numero di lettere inaspettato da parte di lettori. Molti sono anziani. Acuti, attenti, partecipi, stimolanti, severi, pacati. E spesso affettuosi in modo disarmante. Leggono di tutto e scrivono di tutto. Rafforzano la mia convinzione che invece di metterli da parte e considerarli il passato dovremmo seguirli di più, valorizzarli di più, restituire loro di più. Non solo in famiglia. Perché senza nulla togliere ai ragazzi, anch’essi una fantastica scuola di vita, i vecchi sono spesso la nostra meglio gioventù.
A
quasi mezzo secolo dalla consegna del premio Oscar ad Amarcord , il
protagonista Bruno Zanin ha avuto una di quelle sorprese che ti cambiano la
vita. In peggio: ha scoperto che non può avere la pensione come attore. «Mi
sono rivolto a un patronato di Domodossola. Dall’ estratto conto Inps risulta
che, nei 143 giorni trascorsi sul set fra gennaio e luglio del 1973, ero
dipendente del Tennis club Diano Marina. Assurdo. Per aver diritto alla minima,
dovrei versare altri cinque anni di contributi».
Zanin
abita ai piedi del monte Rosa, a Vanzone, in una vecchia baita. I capelli del
Titta Biondi, che nel capolavoro di Federico Fellini incarnò l’ amico d’
infanzia del futuro regista, sono diventati grigi. Dal 2018 riscuote l’ assegno
sociale concesso ai meno abbienti: 470,90 euro al mese. «Per arrotondare, ho inventato
il libro a chilometro zero».
Parla
del suo romanzo autobiografico Nessuno dovrà saperlo , scaturito da una
violenza sessuale subita a 13 anni, a opera di un missionario che poi si
sarebbe impiccato in Venezuela. «Chi legge questo libro, non lo dimenticherà»,
ha scritto Ferdinando Camon. Fu pubblicato la prima volta dall’ editore Tullio
Pironti e tradotto anche in spagnolo. Ora l’ autore se lo ristampa in proprio e
lo invia a chi ne fa richiesta attraverso la sua pagina Facebook.
Com’
è possibile che un attore figuri all’ Inps come giardiniere?
«Non
ho mai messo piede in quella località ligure, anzi, a dirla tutta, nemmeno so
dove sia. Magari il Tennis club Diano Marina apparteneva al produttore Franco
Cristaldi. Eppure sul libretto di lavoro c’ è il timbro del legale
rappresentante “Società F.C. Srl Amarcord”. Mi sono spariti i
contributi su altri film, produzioni Rai in appalto, spot pubblicitari, un paio
di fotoromanzi, una stagione teatrale. Addirittura dal carteggio Enpals-Inps
risulta che a retribuirmi come attore ci furono persino due società di
scommesse sportive».
Crede
che anche Fellini fosse in regola come raccattapalle o allibratore?
«Come
no». (Ride).
Che
tipo era il regista?
«Insuperabile.
Pochi potevano eguagliarlo. Mi scelse per caso fra il pubblico di Cinecittà,
dopo che il suo amico Gustavo Adolfo Rol, il sensitivo torinese, gli aveva
profetizzato: “Smetti di cercare il protagonista. Ti troverà lui”.
Appena scritturato, a me Rol disse: “Sta’ attento, Zanin. Federico è un
vampiro”».
«Era
istrione, ruffiano, egocentrico, bugiardo patologico. In pubblico affettuoso
marito della moglie Giulietta Masina; dietro le quinte tirannico carceriere di
Anna Giovannini detta la Paciocca, amante tenuta a sua disposizione dentro una
torre di avorio. Governava la troupe in modo imperioso, urlava, pareva Mosè
sceso dal Sinai. Tolse il saluto al fratello Riccardo, colpevole d’ aver
firmato un film da due soldi con il cognome Fellini. Per una beffa del destino
morì nella stessa stanza del Policlinico Gemelli di Roma dov’ era spirato il
congiunto».
Non
starà esagerando?
«Chieda
a Moraldo Rossi, il suo primo aiuto regista. Comunque con me Federico era tenerissimo.
Mi scriveva letterine gentili. Si vantava d’ avermi raccomandato a Giorgio
Strehler per Il campiello al Piccolo di Milano. Saputo che ero senza soldi, mi
scritturò per Ginger e Fred , pagato profumatamente per non fare nulla nel
ruolo di un paziente bendato, quindi irriconoscibile: secondo lui dovevo
restare per sempre il Titta di Amarcord ».
Le
voleva bene.
«E
io a lui, moltissimo. Mi ha dischiuso una carriera durata quasi vent’ anni e
interrotta solo per mia volontà. Non gli ho perdonato due bidoni. Quando mi
diede buca in un ristorante cinese di via Cavour, a Roma, dov’ ero ad
aspettarlo con uno dei miei due figli, all’ epoca undicenne, armato di macchina
fotografica per immortalare l’ evento.
E
quando a Parigi recitavo in francese Eugène Ionesco al Théâtre de la Ville. Mi
aveva promesso di venirmi a vedere con Giulietta Masina. Gli feci tenere due
posti in prima fila alla première. L’ indomani trovai in camerino un biglietto
di scuse: era dovuto andare a cena con la moglie dall’ ambasciatore italiano.
Peccato che il diplomatico la sera prima fosse con la consorte a teatro proprio
per incontrarvi Fellini. Era fatto così. Nella sua villa di Fregene imitava al
telefono la voce della colf per non farsi trovare: “Il maestro non è in
casa”».
Mi
risulta che lei abbia avuto rapporti un po’ spigolosi nel mondo del cinema, per
esempio con Gian Maria Volonté.
«Teneva
le distanze, ma non solo con me. Per assomigliare allo statista dc nel film Il
caso Moro , mi trattava come se fossi davvero un brigatista. Un 9 aprile,
mentre recitavamo, giunse negli studi della De Paolis una grande torta di
compleanno.
Lui
credeva che gliel’ avesse mandata Armenia Balducci, la sua compagna di allora.
Ne diede una fetta a tutti, tranne che a me. Quando scoprì che il dolce mi era
stato regalato dal mio agente, rimediò una porzione fra i presenti.
“Non
sapevo che compissimo gli anni nello stesso giorno”, si scusò. “Non
sembri un ariete. Per me sei del segno del calamaro. Butti inchiostro per
nasconderti, solo tu sai da che cosa”».
Perché
rinunciò al mestiere di attore?
«È
un mondo di cartapesta, di non realtà. Il luogo ideale per alcuni, una gabbia
di sofferenza per altri. Io non ho fatto nulla per entrarvi, vi sono stato
portato in braccio dalla fortuna. Volevo indietro la mia vita selvaggia di
prima».
Da
allora di che ha campato?
«Mi
sono buttato in avventure scriteriate, come quella di andare in Bosnia a fare
per tre anni il Brancaleone degli aiuti umanitari fai da te. Ci ho ricavato
corrispondenze di guerra per la Radio Vaticana, Der Spiegel , Famiglia
Cristiana , una volta anche per il Corriere della Sera . Dopo un periodo di
depressione nera, ho ripreso a girare il mondo».
Dov’
è stato di recente?
«A
camminare per tre mesi in Turchia, sulla via Licia, sentiero impervio con
panorami inimmaginabili. Mentre ero lì, un giovane film-maker comasco, Alberto
Gerosa, mi ha chiesto via Facebook se fossi disposto a lavorare in un
documentario-verità che stava girando a Hong Kong. Il personaggio che dovevo
impersonare era un prete accusato di pedofilia, fuggito all’ estero per evitare
l’ arresto. Così ho tirato dritto fino in Cina».
Come
riesce a pagarsi questi tour?
«La
provvidenza ogni tanto mi fa l’ occhiolino. Per la parte a Hong Kong, per
esempio, mi hanno ben retribuito. Vivo di poco o niente, giro con lo zaino,
dormo in tenda. Non ho l’ auto, non ho vizi, non fumo, non assumo droghe. Ho
amici che mi vogliono bene, il miglior investimento che potessi fare nella
vita. E nessuno di loro è famoso, se si escludono Raffaele La Capria, il suo ex
genero Francesco Venditti e il compianto Edward Melcarth, il pittore-scultore
prediletto dal miliardario Malcom Forbes che affrescò l’ hotel Pierre di New
York e disegnò gli occhiali di Peggy Guggenheim.
Mi
raccattò in una calle veneziana e mi educò. Andavo a colazione dalla
collezionista con lui e il mio cane Whisky».
So
che ha compiuto molte volte il Cammino di Santiago di Compostela.
«Non
mi tiri dentro a competizioni di questo genere, le odio, “io ne ho fatti
tre”, “e io quattro”, “ma io li ho fatti d’ inverno”.
Il Cammino di Santiago è diventato la via Veneto di un tempo. Pochi lo
affrontano con lo spirito delle origini. I pellegrini fighetti lo percorrono
per sfoggiare materiale tecno da migliaia di euro, Zanin per ammazzare la
disperazione che ogni tanto gli serra la gola».
Qual
è il suo più grande desiderio?
«Chiedere
scusa a tutte le persone che ho ferito e scandalizzato con comportamenti da
filibustiere. Vorrei dire al regista Marco Tullio Giordana che sono molto
addolorato per aver perso la sua amicizia. Mi ha rivelato un dono, la
scrittura, che non sapevo di possedere. È una gran bella anima, non lo sento da
una quindicina di anni. Colpa mia. Talvolta mi capita di essere cattivo perché
le mie rotelle non sempre funzionano».
Da
chi ha avuto di più nella vita?
«Dalla
buonanima di mia madre Adele, che mi ha insegnato sin da piccolo a credere nel
bene, a perdonare, a dare una mano a chi è in difficoltà. Ho avuto un’ infanzia
edenica nei campi del Veneziano. Portavo i fiori alla Madonna, ripetevo all’
infinito la giaculatoria “Gesù e Maria ve vogio tanto ben”
insegnatami da mia nonna Teresina, cadevo in estasi.
Durante
una di queste trance, vidi una donna che affogava con due bambine in un canale.
La sera ne parlai in casa. L’ indomani fu trovata una mamma annegata con le
figliolette: s’ era suicidata».
Crede
ancora in Dio?
«Sì,
ma ultimamente sono più dubitante che credente. Temo che Lui non si fidi più
dell’ umanità, che ci abbia abbandonato al nostro destino. In duemila anni di
cristianesimo lo abbiamo troppo deluso. Siamo egoisti, intolleranti, pronti a
maltrattarci a vicenda, finti.
Sento
di essere fasullo anch’ io. Recito una commedia infinita. Lo dimostra questa
intervista, in cui ho fatto di tutto per sembrare simpatico, intelligente e
originale».
Può
dirsi felice?
«A
volte mi capita di esserlo per qualche momento: un gatto che viene a
strofinarsi tra le mie gambe, un cane che mi scodinzola, un bimbetto che mi
sorride, un amico che mi telefona. Cose minime eppure enormi. Quanto l’
infelicità di non riuscire più a godere d’ essere vivo in questo mondo
sgangherato che mette paura».
Il critico d’arte in scena nei teatri italiani con lo spettacolo sull’artista toscano: “Di Maio assomiglia a Leonardo, entrambi erano dei nullafacenti che volevano il reddito di cittadinanza. Nel Rinascimento Salvini sarebbe stato un suo capomastro, bravo solo a eseguire”
Leonardo da Vinci? Un fannullone di talento. Aspetti che devo andare a pagare due spremute d’arancia. Ma tu sei della Lega? Insomma è andata bene a Caltanissetta. Ah no, sei dei 5 Stelle, ma tra quanto si vota?». Esiste solo una cosa più difficile dell’intervistare Vittorio Sgarbi:dargli un’etichetta. Perché questo critico d’arte, ex sindaco, conduttore televisivo, divulgatore, saggista, opinionista, attore, professore, politico e intellettuale sfugge a qualsiasi definizione. Riesce a fare tutto, un po’ come Leonardo. Tra una votazione in Parlamento, una battuta con i colleghi nel Transatlantico e una chiacchierata con gli altri deputati alla bouvette, Sgarbi riesce a spiegarci perché è importante ricordare da Vinci a 500 anni dalla morte avvenuta il 2 maggio del 1519. «È ancora in linea? Allora le dicevo: Leonardo è un genio, ma queste celebrazioni sono iettatorie».
Perché? Perché sia questo che quello di Raffaello nel 2020 e Dante nel 2021 celebrano la morte dell’artista. E invece Leonardo non è morto, ma vivo. La sua vita è stato un continuo e incessante dubbio per capire le ragioni del mondo, della natura e di Dio. Si celebra Leonardo perché rispetto ad altri personaggi famosi del Rinascimento come Michelangelo è il più attuale, per la sua ansia di conoscenza. E poi le celebrazioni prescindono dall’importanza oggettiva di un personaggio. Possiamo festeggiare sempre Leonardo da Vinci anche senza centenari o cinquecentenari.
Qual è il più grande equivoco che abbiamo su Leonardo? L’equivoco è che sia stato un grande artista. È stato il genio dell’imperfezione ma un grande dilettante. Non c’è un’architettura, non c’è una scultura, non c’è un’invenzione riuscita. Ci sono dei quadri, pochi e dipinti in modo anche talvolta incerto. Ma in lui c’è una intuizione assoluta di Dio nell’uomo. La pittura è cosa mentale, poi non importa farla materialmente. Quello che è importante di Leonardo è l’ansia. È stato un personaggio capace di interpretare quella che oggi si chiama arte concettuale. Prendi la Gioconda: non è il ritratto di una persona, è proprio una persona viva. La Gioconda vive, parla. Questa è la sua forza: aver creato una dimensione divina.
Qual è l’opera più sottovalutata? La dama con l’ermellino perché non ha avuto la fama della Gioconda, benché sia forse persino più bella. E invece è da riscoprire: è un’opera di profonda sottigliezza. Indica la devozione amorosa come esclusività. La dama non guarda negli occhi noi che siamo davanti al quadro. Guarda qualcuno al di fuori.
Chi? L’uomo che ama. È la dimostrazione di una dedizione amorosa unica. Non c’è un altro ritratto prima nella storia dell’arte dove una donna guarda da un’altra parte. Questo fa intendere che Ludovico il Moro, di cui la dama con l’ermellino è innamorata, è in realtà dentro di lei. Mentre la Gioconda è la donna di tutti, è una grande puttanona.
Addirittura. Sì, appartiene e assomiglia a tutti. Lei e la dama con l’ermellino sono due mondi opposti. La Gioconda è un’opera nella quale si vede il tentativo di uscire dal quadro stesso. Tanto è vero che conosci la Gioconda, o almeno la sua idea, avendo visto prima la fotografia del quadro. Quando vai al Louvre non riesci a vederlo per quanta gente c’è davanti. Ma la conosci da una cartolina vista a cinque anni, da una fotografia su un libro o dalla una riproduzione nello studio di un dentista. È un’opera di una potenza inarrivabile dal punto di vista della sua identità emblematica.
Di Maio assomiglia a Leonardo da Vinci perché entrambi non hanno mai fatto nulla in vita loro. Da Vinci cercava il reddito di cittadinanza, era un fannullone. Entrambi avevano l’idea di fare successo senza faticare. Salvini avrebbe potuto fare al massimo il capomastro del Maestro per eseguire i suoi progetti.Vittorio Sgarbi
E qual è l’opera di Leonardo più sopravvalutata? L’ultima cena, ma non perché non sia un capolavoro, anzi. Ma è dipinto oggettivamente male. Invece di essere un affresco fu dipinto a secco quindi nell’arco di cinquanta anni si è disperso. È rimasto un fantasma. Una specie di Sindone di quello che è stato. Non ha la forza di un affresco che resiste al tempo. Il restauro lo ha un po’ rimesso a nuovo ma è oggettivamente dipinto male. Non è sopravvalutato rispetto alla concezione di Leonardo, anche lì straordinaria in questo meraviglioso disegno di stati d’animo. Però se guardi le figure non c’è più niente: è un dipinto logorato.
Ci dica la sua opera preferita di Leonardo. La Madonna Benois che si trova al museo dell’Ermitage di San Pietroburgo. Mi piace perché introduce un elemento assolutamente nuovo: l’emozione e la tenerezza di essere madre. Nessun volto ha quella dolcezza che mai altro artista prima di lui ha espresso. Leonardo è stato capace di restituire la dimensione ineffabile della felicità dell’essere madre.
Cosa ne pensa della supposta unica scultura di Leonardo esibita a Palazzo Strozzi? Penso sia una bufala del calabrese Cagliotti che conosce Leonardo come io il Tibet, dove non sono mai stato. Non si conoscono le sculture di Leonardo e quella è troppo solitaria per poter essere una prova della sua autenticità. È impossibile che Leonardo abbia fatto una scultura. Si tratta di una speranza, un desiderio, un’ansia. Come uno che sogna Naomi Campbell e si masturba davanti a una fotografia. Ora però devo tornare a votare alla Camera.
A proposito di politica, se lei fosse presidente del Consiglio, in che ministero metterebbe Leonardo? All’istruzione, senza dubbio. Perché la sua parabola insegna quello che l’uomo dovrebbe sapere o almeno ciò che dovrebbe inseguire: la conoscenza. Sarebbe più difficile mettere i politici di oggi nel Rinascimento perché sarebbero dimenticati dalla storia. Anche se Di Maio assomiglia a Leonardo.
Cosa li accomuna? Leonardo non ha mai fatto nulla in vita sua, cercava il reddito di cittadinanza, era un fannullone. Entrambi avevano l’idea di fare successo senza faticare. Salvini avrebbe potuto fare al massimo il capomastro di Da Vinci per eseguire i suoi progetti. Nulla di più.
Intervista a cura di Andrea fIORAVANTI per l’Inkiesta.it