ALBERTO SAVINIO, flâneur a Milano

ALBERTO SAVINIO, flâneur a Milano

Milano dal decimo piano di un grattacielo: è il primo sguardo sul capoluogo meneghino restituito da Alberto Savinio in Ascolto il tuo cuore, città. È l’inizio di una prolungata flânerie, che è insieme percorso fisico nel corpo della città ma anche viaggio nel deposito immenso di ricordi, nozioni, storie, avvenimenti che costituiscono la “memoria” dell’autore.

Memoria è per Savinio un deposito inesauribile, che poggia le sue basi e trae nutrimento dal “passato”. Non è dunque solo una memoria individuale, ma qualcosa che si potrebbe dire memoria collettiva: i pensieri degli altri uomini, l’eredità che viene dalla storia dell’umanità. Ricordi personali e altrui si fondono in un Museo traboccante di immagini.
Per Savinio, la realtà in costante movimento della città può essere raccontata solo attingendo a quel patrimonio di immagini che viene dal passato. La realtà osservata viene ricomposta grazie a un nuovo ordine garantito dalla Memoria. Savinio ricorda, tra l’altro, che l’arte stessa è figlia di Mnemosine. È questo il processo che consente di scoprire la realtà che è nascosta dietro la realtà, in un invito a imparare a vedere, a scovare ed esprimere la voce remota delle cose. Il doppio aspetto che esse possiedono.

“Penso con gratitudine, come il naufrago dal rottame cui si aggrappa pensa alla terraferma, ai miei lavori segreti e alla mia vita solitaria, così bene intonati all’estrema timidezza del mio carattere; e penso allo sforzo, all’allenamento cui mi sarei dovuto sobbarcare se invece che ai lavori poetici e alla vita solitaria mi fossi avviato, come volevano i miei genitori, alla vita di azione.”:


La convivenza tra memoria individuale e memoria letteraria spinge Savinio in continue divagazioni, digressioni, narrazioni di storie. Tutto emerge e si fonde in misura dell’esplorare la città, nel corso di visite, percorsi casuali, passeggiate, esplorazioni, nel corso dei quali, contemporaneamente, la scoperta del tessuto urbano e del suo contenuto diventa esplorazione profonda della psiche. In una di queste esplorazioni Savinio poggia il suo taccuino sul muretto di una cancellata e si appresta a prendere delle note, quando scopre di essere avvicinato da alcuni gatti, evidentemente attratti dal suo taccuino.

Le vie di Milano sono particolarmente atte al conversare, scrive Savinio. Questa loro qualità è da ascrivere soprattutto alla loro ottima pavimentazione: la prima selciatura risale al 1265 e fu opera del podestà Napo Torriani.

Da allora, e Stendhal poté confermarlo, Milano ebbe sempre fama di “ben selciata”. Via Manzoni, però, è la meno adatta per il fragore dei tram, che penetra nel corpo non attraverso le orecchie ma attraverso lo stomaco. La memoria di Verdi e della sua morte aleggia nell’albergo all’incrocio tra via Manzoni e via Croce Rossa. La storia traborda dal Castello Sforzesco e dal Parco di Milano alle sue spalle, da Piazza Belgioioso con la casa di Alessandro Manzoni, dal “fabbricone di aspetto assirobabilonese, che i milanesi chiamano Acquario”, e dal Museo di Storia Naturale a Porta Venezia. Le piazze, invece, “non hanno nulla di apprestato: sono incontri casuali di vie nelle quali il vento della fantasia si raccoglie e gioca, perché in questa città tranquilla e felice altro vento non tira, se non quello della fantasia sottile e pacata”. La piazza dove sorge la Chiesa di San Sepolcro è il luogo da cui partirono i milanesi per la prima crociata e in cui Mussolini fondò il primo Fascio di Combattimento.

IL centro storico, il quadrilatero che corre parallelo a via Torino sono meta delle sue flanerie: Via Valpetrosa, via Cardinale Federico, Piazza della Rosa. Strade, taverne, ristoranti, specialità culinarie, tutto rimanda ad altro, crea assonanze, rievoca, collega. La Pinacoteca di Brera, l’ingresso di un palazzo patrizio, Corso Buenos Aires, riportano alla mente di Savinio qualcos’altro: la sua prima mostra di pittura a Parigi nel 1927 e la prefazione di Jean Cocteau, i racconti di Edgar Allan Poe, l’Uomo invisibile di Wells, i romanzi di Kafka.

“A conclusione della mia visita all’Accademia di Brera, Francesco Messina mi fa entrare nella classe di scultura, nella quale egli stesso professa. Dalla soglia egli annuncia ad alta e chiara voce il mio nome. Gli allievi intenti a modellare la creta si levano dagli scanni e levano il braccio al saluto [romano]; e il braccio al saluto leva pure l’ignuda fanciulla che sta ritta sulla pedana del modello. Una vampa di vergogna mi offusca la vista, e a testa bassa, come il toro che s’accinge all’attacco, traverso l’aula fra i trespoli dietro il mio gentile amico, fingendo di guardare qua e là, ma nulla vedendo delle esercitazioni di quegli scultori in erba..

Tutto concorre a creare un’idea di Milano, un’impressione in profondità, aiuta a catturare la sua aura. Non ultimo il fatto che la città “riposa sull’acqua, e questa è una delle principali ragioni della sua perenne freschezza. L’acqua scende dalle Prealpi, s’avvia per misteriosi fiumi sotterranei, cede alla pendenza della vallepadana, passa a sei metri sotto le case di Milano, continua e va a ingrossare il Po”.

L’intero libro si snoda come una sorta di conversazione passeggiata, s’inabissa nelle pieghe della metropoli, “città tutta pietra in apparenza e dura”, ma in fondo “morbida di giardini”, e greca molto più di tante altre città italiane, si impossessa dei suoi segreti olfattivi, dell’odore di legno bruciato esalato dai camini, scopre il fascino della nebbia, e l’orgoglio con cui i milanesi ne parlano. E diventa qualcos’altro: una lunga prolusione il cui senso profondo è una ricerca di sé.

Articolo di Paolo Melissi per ww.satisfiction.se

FONTANA ALLA GALLERIA BORGHESE

FONTANA ALLA GALLERIA BORGHESE

galleria borghese lucio fontana

Andare alla Galleria Borghese un sabato mattina di maggio, quando la Roma storica ti circuisce con una stramba primavera che si fa desiderare come diva capricciosa. Tornare, per l’ennesima e mai identica volta, nella più totale delle opere totali, una (ex) dimora privata che dal 1902 è installazione di pubblico respiro, anatomia muscolare che si esprime su pavimenti, pareti, soffitti, porte e mobilio, praticamente un’opera unica senza zone indecise, senza bianco legittimo. E poi, dulcis non certo in fundo, vagare davanti ad una quadreria spaventosamente qualitativa, parente legittima del complesso scultoreo che carezza la pelle del Paradiso quando a parlare sono Bernini e Canova, i divini chirurghi plastici del marmo bianco, i maestosi artefici del battito cardiaco dentro la pietra scolpita.

galleria borghese lucio fontana 9

Entrare alla Galleria Borghese con mia moglie Elena, zigzagando tipo doppia elica del DNA, io e lei come flussi andamentali di quattro occhi che montano la propria sequenza ideale, scelgono dettagli, aggregano emozioni. Avvicinarsi a distanza di close-up e captare il sostenibile fascino del frammento: il piede berniniano che calza un sandalo già moderno, le pieghe gommose del materassino sotto le natiche della Paolina, le foglie attorno alla Dafne berniniana, gli spunti da fantascienza di due piccoli Canaletto, il quid anatomico di un ermafrodito dormiente… dettagli su dettagli che ti attendono, silenti e borgesiani (da Borges scrittore e non Borghese), per essere captati da occhi investigativi tra il Simenon urbano e il Proust olfattivo, allarme e vigilanza permettendo.

Vagare, come mercurio sul vetro, tra i due piani di un percorso museale perfetto, un rapimento dei sensi che definisce le atmosfere di questo teatro olistico delle arti antiche. L’architettura che si fa scultura, la pittura che si fa scultura del paesaggio, la scultura che si fa carne viva… a dirigere l’orchestra, senza bacchetta ma con spiccata empatia, c’è Anna Coliva dei miracoli professionali, madame strategica e amorevole che ha portato sentori di perfezione in uno dei patrimoni del Pianeta.

Scovare, tra le quadrerie esistenti, gli inserti temporanei di un Lucio Fontana nelle tinte dell’oro. Ci sono tagli e buchi del maestro italoargentino (1899-1968) che nel Dopoguerra capì la cosa più importante di tutte, ovvero, la quarta dimensione del quadro: quella oltre la tela, oltre la superficie delle apparenze, dimensione simbolica in cui il cosmo apriva l’occhio alle risposte senza domande, ai misteri oltre le risposte, alla trascendenza dentro ogni domanda.

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Cresce da tempo la combinazione tra edifici antichi e arte contemporanea, un modello curatoriale portato avanti da musei come Castello di Rivoli o Palazzo delle Papesse, nonché dal sottoscritto nel Piano Nobile di Palazzo Collicola Arti Visive, il museo spoletino (che ho diretto dal 2009 al 2019) in cui ho collegato le sale aristocratiche alle spirito installativo del presente. Qui alla Galleria Borghese il caro Fontana non è il primo e non sarà certo l’ultimo incontro tra gli esiti di un passato megalitico e l’eccellenza di un Novecento d’avanguardia. Signore e Signori, a Voi cinque tagli, taglio singolo, tagli e buchi, tagli su telaio tondo, buchi come voragini, tagli su formati tipici e atipici, tipologie variabili con le gamme d’oro come corollario metaforico dell’ultraterreno.  

Oro: la lega più amata dalle aristocrazie e dai potenti, il colore tematico del Barocco, la cromia degli arredi sacri, tinta che connette le figurazioni secolari all’intuizione milanese di Fontana. Oro oltre l’ora: perché nulla varca il tempo e lo spazio come la lega delle leghe, l’unica che in lingua inglese (gold) contiene la parola Dio (God). Oro e Galleria Borghese: un matrimonio finché apocalisse non li separi, racconto dei racconti che ci fa giocare con il tempo mentre inventiamo i nostri spazi dentro la geometria euclidea del luogo.

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Assieme ai quadri in oro anche diversi crocifissi in ceramica, pensati come solo Fontana e Leoncillo sapevano fare negli anni Cinquanta e Sessanta. Il tema iconico produce drammaturgia espressiva: Cristo si fonde con la croce, la materia unisce corpo e simbolo, un flusso atomico che somiglia ai video di Chris Cunningham (realizzati per Aphex Twin) in cui si deformano i corpi sotto l’effetto di velocità lisergiche. Fontana ha oltrepassato le barriere della figurazione, sfibrando la forma d’origine, superando le soglie della percezione. Oro e ceramica si baciano alla Galleria Borghese: per un breve periodo assumono la natura policroma del posto, disponendosi con mimesi e generosità, in modo elegante e sinuoso, senza innervosire uomini e dei che qui vivono con fissa dimora.   

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Scipione Borghese, se avesse posseduto una macchina del tempo, si sarebbe innamorato del contrappunto pittorico in esclusivo oro. Mi immagino una scena del genere: il Cardinale che subito storce la bocca, indeciso se far internare l’artista o studiarlo come fenomeno alieno; poi Fontana che spiega l’andamento delle arti nell’Ottocento, l’arrivo dei futuristi e di Duchamp ad inizio Novecento, l’invenzione di Metafisica e Surrealismo, la diffusione delle astrazioni e della cultura informale, per arrivare agli esiti di un quadro tagliato, in proiezione verso luoghi utopici che si connettono ai culti esoterici tanto amati dalle aristocrazie.

Quadri che non raccontano generi, che non ritraggono nobili o figure sacre, che alle nature morte preferiscono le nature del mondo interiore. Opere di metafisica vertigine e universale energia alchemica, quasi a ricongiungersi con l’uovo di Piero della Francesca, con le aureole minimaliste di Caravaggio, coi pavimenti geometrici del Perugino, con le architetture alchemiche di Raffaello…

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Seguire Scipione mentre si lascia convincere da Fontana ad allestire diversi concetti spaziali nella sua villa delle meraviglie. Uscire dalla Galleria Borghese assieme ai due, camminando dietro di loro, spiando le loro (im)possibili elucubrazioni… seguirli fino alla Casa del Cinema, ascoltando Fontana che parla prima di fotografie e poi di film su pellicola, al punto da far tremare il passo del Cardinale, ormai sgomento davanti alla previsione di un futuro già nostro. Voglio immaginare Scipione rapito dal progresso, talmente ubriaco di novità da chiamare a corte Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Ettore Scola, Mario Monicelli, Luigi Comencini, Dino Risi, Marco Ferreri…  

Tornare verso casa, io ed Elena, uguali a prima ma un pochino diversi, appena migliori di qualche ora fa. Perché la Bellezza è semplicemente così: non te ne accorgi ma ti lavora dall’interno, circola tra sensi ed emozioni, rilasciando frammenti di luce e scie di colore. Scusate ma ora devo proprio andare, vedo che Elena sta parlando con Fontana e non voglio perdermi cosa ci dirà su Scipione Borghese…

Articolo di Gianluca Marziani per Dagospia

Per informazioni, notizie biografiche su Lucio Fontana, per vedere le sue opere (https://www.fondazioneluciofontana.it/index.php)

EDUCARE SENZA SANZIONI: COMPRENSIONE PER CHI SBAGLIA, INDIFFERENZA PER LE VITTIME

EDUCARE SENZA SANZIONI: COMPRENSIONE PER CHI SBAGLIA, INDIFFERENZA PER LE VITTIME

Chiunque abbia bambini che vanno alle scuole elementari sa perfettamente che, ormai da diversi decenni, non solo è praticamente impossibile bocciare un bambino, ma è anche rarissimo osservare sanzioni classiche, come l’ammonizione, la nota sul registro, la sospensione. Al loro posto è invece dato osservare una serie di comportamenti sostanzialmente omissivi o elusivi: far finta di niente, limitarsi a redarguire più o meno blandamente, cercare di spiegare perché un comportamento è sbagliato e non dovrebbe essere ripetuto. I risultati sono scarsissimi, per non dire negativi, visto che il bullismo, sia quello tradizionale sia quello via internet, sono in aumento e coinvolgono spesso bambini, più sovente bande di bambini, che frequentano le ultime classi delle scuole elementari.

Ora non più. Ora si cambia. Ora quel che un maestro o una maestra potevano fare, ma nel 99.9% dei casi non facevano, ossia infliggere qualche piccola sanzione (ad esempio la nota sul registro, con convocazione della famiglia), sarà semplicemente vietato. Così ha deciso ieri la Camera, approvando un emendamento (a un disegno di legge sull’educazione civica nelle scuole elementari) che di fatto toglie a presidi e insegnanti non solo la possibilità di comminare le pene più severe (come l’espulsione dalla scuola), ma persino l’uso di strumenti sanzionatori davvero minimali, come l’ammonizione o la nota sul registro. Al loro posto si propone di estendere alla scuola elementare il farraginosissimo istituto del “Patto di corresponsabilità educativa”, che rafforza e incentiva uno dei più dannosi fenomeni culturali del nostro tempo, ovvero l’ingerenza dei genitori nel funzionamento della scuola, oltre a promuovere una sorta di Far West dei regolamenti, per cui ogni scuola si costruisce il suo patto, con tanti saluti a una delle idee più semplici della vita sociale, ossia che sia più efficace avere poche norme chiare e valide per tutti, piuttosto che lasciare a ogni comunità di darsi regole proprie (chi non avesse bambini a scuola, o non avesse idea di quanto avanti siano andate le cose rispetto a 20 o 30 anni fa, può leggere la pacata quanto agghiacciante  testimonianza dello scrittore Matteo Bussola: Sono puri i loro sogni, Einaudi Stile Libero 2017).

La vicenda è politicamente interessante. Perché, a quanto si apprende, la soppressione del regio decreto del 1928 che prevedeva la possibilità di irrogare sanzioni agli alunni delle scuole elementari, è stata voluta da tutte le forze politiche. Una chiara testimonianza di quanto certe idee, che eravamo abituati ad attribuire alla mentalità progressista, siano ormai penetrate nello spirito pubblico, coinvolgendo anche quanti un tempo le combattevano.

Ma quali idee?

Fondamentalmente tre convinzioni. La prima è che, nel processo educativo, le sanzioni non debbano e non possano svolgere alcun ruolo. Chi sbaglia deve essere convinto a cambiare comportamento con la sola forza della persuasione. L’uso di punizioni, anche di lieve entità, non solo sarebbe controproducente, ma sarebbe la testimonianza del fallimento del processo educativo.

La seconda è che, a dispetto della loro conclamata incapacità (o non volontà) di educare i figli, l’ultima parola spetti ai genitori, unici giudici dei loro pargoli, unici arbitri e custodi del destino delle loro creature. Di qui la tendenza a porsi verso ogni autorità, ma prima di tutto verso l’autorità scolastica, come sindacalisti dei propri figli.

Ma la più pericolosa è la terza convinzione, che forse più che una convinzione vera e propria è una sorta di strabismo, di partito preso, o di riflesso pavloviano. Quando qualcuno viola le regole, il che quasi sempre comporta la sofferenza di qualcun altro (si pensi alla diffusione del bullismo, già alle elementari), stranamente la pietas, la compassione, quasi automaticamente si indirizzano verso i prepotenti, che andrebbero capiti, perdonati e rieducati, e ignorano le ragioni delle vittime. Curiosamente, chi fa proprio l’imperativo del perdono, non sente altrettanto forte il dovere di impedire che altre violenze e sopraffazioni si scatenino contro nuove vittime.

Eppure è proprio questo il nodo della questione. C’è un’incredibile ingenuità pedagogica e sociologica nella credenza che, per la prevenzione di fenomeni come il bullismo e il cyberbullismo nelle scuole, possano bastare corsi, lezioni, momenti di sensibilizzazione, ammonimenti, prediche, e che ogni punizione sia inutile o addirittura controproducente. Come se la consapevolezza di non rischiare alcuna vera sanzione non fosse un potente incentivo a perseverare nei comportamenti più aggressivi, violenti e anti-sociali. Come se, soprattutto, la rinuncia delle istituzioni a sanzionare i comportamenti più scorretti, più che una forma di umana comprensione per chi sbaglia, non fosse invece quello che è: una forma di disumana indifferenza verso le vittime.


Articolo dii Luca RicolfiSocietà Il Messaggero

INCROCI

INCROCI

tullio pericoli
Tullio Pericoli

Tullio Pericoli ha sempre scritto disegnando e dipingendo. Ha, per esempio, raccontato il mondo di Robinson Crusoe, la vita di Robert Louis Stevenson, le biografie letterarie di tantissimi scrittori, letti e trascritti nella loro umana fisionomia, ma anche in quella intellettuale che con la prima è ormai tutt’ uno. Il volto di Beckett, più volte narrato da Pericoli, contiene fatalmente la sua scrittura, ne è una specie di proiezione ideale.

Una scrittura dunque, che non è soltanto descrizione, ma anche interpretazione. E dipingendo i suoi paesaggi Pericoli ancora una volta scrive. Racconta l’ antichità di una terra indagandone la geologia, il variare delle colline marchigiane infinitamente corteggiate, l’ intensità delle Langhe che in qualche modo alludono a Pavese o a Fenoglio, perché anche dietro ai paesaggi c’ è spesso la scrittura, sicché l’ opera di Pericoli più che dal vivo, scaturisce molte volte dall’ accumulo di memoria, dal rivivere-ripensare un’ emozione che dunque chi guarda può non solo vedere, ma anche leggere, appunto come si fa con un racconto.

tullio pericoli

Ora capita invece che Pericoli pubblichi da Adelphi un piccolo libro, Incroci, in cui compie l’ operazione inversa: usa la scrittura per farci vedere un episodio, un frammento significativo, della sua vita. Nel libro ci sono anche dei disegni, ma sono questa volta complementari, perché tocca alla scrittura il compito più importante: fissare un momento, un incontro o addirittura un addio. Lontano nel tempo affiorano i ricordi dell’ adolescenza, talvolta enigmatici come quello di un certo Zè, tornato nel paese di Pericoli e accolto dal giubilo di Iolanda, la donna di servizio, che subito si mette a correre su e giù per le strade, accompagnata dal giovane Tullio, per gridare a tutti: è tornato Zè. Chi fosse poi questo Zè, Tullio non lo ha mai saputo.

Tornano i professori del liceo che una frase, un gesto, ha reso eterni nella memoria e, via via, le persone incontrate a cominciare da Zavattini che va a trovare dopo aver viaggiato tutta la notte per arrivare da Ascoli a Roma e che, dopo aver visto i suoi disegni, gli consiglia di andare a Milano e gli scrive sul momento due lettere di presentazione: una per Gian Carlo Fusco e l’ altra per Gaetano Baldacci. Non sono racconti lunghi quelli di Pericoli: sono flash, istantanee.

tullio pericoli

Come quella scattata a Montale. Lo vede di spalle scendere le scale del Corriere della Sera, lo riconosce, lo sorpassa e gli si pone davanti, presentandosi e offrendogli un passaggio in macchina per tornare a casa. È, la macchina, una vecchia Cinquecento nella quale il poeta riesce a infilarsi. Sono anni di bohème. Fusco, un giornalista come pochi, ma anche un irregolare assoluto, se lo porta dietro in locali di dubbia fama, oppure da Bagutta offrendogli la cena. Trova casa in via San Gregorio 40: ultimo piano, il quinto, senza ascensore. Sembra una canzone di Jannacci.

Poi scopre perché quella casa costava così poco: al primo piano, con le finestre eternamente sbarrate, si era consumato il delitto di Rina Fort, la belva di via San Gregorio che aveva sterminato la moglie e i figli piccoli del suo amante, un pasticcere presso cui lavorava. Il processo fece epoca e Dino Buzzati lo raccontò sul Corriere. Intanto Tullio aveva cominciato a lavorare per Il Giorno, il magnifico quotidiano diretto da Italo Pietra che fu anche all’ avanguardia per la nuova veste grafica.

tullio pericoli

È proprio il direttore Pietra a chiedere a Pericoli un dipinto, un paesaggio delle sue terre. Pericoli illustrava allora i racconti che uscivano la domenica e che erano firmati da Calvino, Soldati, Gadda, Primo Levi. Salì così in macchina (ora era una 1100 di seconda mano) e tornò nelle Marche per guardare con occhi nuovi il paesaggio nel quale era nato e vissuto. Ho scritto prima che Incroci è un piccolo libro.

Paradossalmente contiene molta gente e molte cose, molti momenti cruciali e non solo per l’ autore. Ecco Garzanti commissionare a Pericoli una grande opera: si tratta di raccontare la storia della casa editrice sui muri di un salone.

“L’area che a Milano va da corso Monforte a corso Concordia è un’area generica: priva di monumenti celebri (porta Monforte è stata realizzata come l’ultima delle cinque porte milanesi), riunisce in sé tutti gli estremi della città. Di fianco all’hotel di lusso Chateaux Monforte c’è infatti un centro di accoglienza francescano e una mensa per i poveri.

Tutt’intorno, caratterizzato da memorie patriottiche (piazza Tricolore, viale Premuda, viale Piave), si estende il quadrilatero della moda; d’altronde, in cinque minuti a piedi si arriva al Duomo e nello stesso tempo, ma in automobile, si è già sulla tangenziale Est. È precisamente su questa parte di città che si affaccia dal 1999 lo studio di Tullio Pericoli: «Guardare il trambusto del traffico e dei lavori per la nuova linea metropolitana dalle mie finestre mentre lavoro è rilassante come guardare un acquario».

Forse per Pericoli il trambusto esterno riflette quello interiore dell’illustratore e del pittoresempre al lavoro, anche al sabato e a volte la domenica, un rovello esistenziale indotto dalla condizione di chi è intrappolato nel labirinto quotidiano del mestiere creativo….”

Tratto da un articolo di Manuel Orazi : https://icondesign.it/storytelling/tullio-pericoli/

Geloso del successo dell’ artista, l’ editore non si affacciò neppure il giorno dell’ inaugurazione. Ecco Tullio che con Andrea Zanzotto e Franco Fortini scrive una lettera, che verrà poi firmata da molti collaboratori del Corriere della Sera per protestare e prendere le distanze all’ epoca della P2. Ecco le gite a Vigevano per incontrare Lucio Mastronardi che un bel giorno alla Stazione di Milano si era messo a dar via dei soldi ai passanti.

tullio pericoli

Era uno scrittore molto originale e molto turbato. Tanto che finì suicida. Vigevano richiama sempre la celebre inchiesta di Giorgio Bocca che fulminava la cittadina con una piazza bellissima, piena di milioni ma senza una libreria. Anche Bocca, conosciuto al Giorno è presente in questo libro. Pericoli lo racconta (stavo per dire lo disegna) in uno degli ultimi incontri, quando, già malato, manda a chiamare l’ amico, resta un po’ con lui e poi si congeda bruscamente, che era il suo modo di essere affettuoso.

montale
Eugenio Montale

Poi ci sono Pirella, Tadini, Fachinelli e quel singolare scrittore che è stato Aldo Buzzi, che Pericoli corteggiava perché voleva conoscere Saul Steinberg che di Buzzi era amico da sempre. E Umberto Eco, salutato infine nel momento della morte, che a Tullio sembra appunto “fare il morto” come quando stava ore nella piscina di Rosara. E c’ è, a proposito di Rosara e del paesaggio marchigiano, un invito a visitare i monti della Sibilla che ancora una volta Pericoli ci dipinge con le parole davanti agli occhi, spalancandoci dirupi e orridi, oltre alla grotta leggendaria recentemente toccata dal terremoto. Il vero enigma di tutti quei luoghi.

Articolo di Paolo Mauri per la Repubblica

IL TACCUINO DI UN UBRIACONE

IL TACCUINO DI UN UBRIACONE

BUKOWSKI, QUANTO CI MANCHI – “MEZZO SECOLO FA IL PERBENISMO VOLEVA REGOLAMENTARE CIÒ CHE AVVENIVA A LETTO, ADESSO, BEN PIÙ PERVASIVO, CIÒ CHE AVVIENE NELLA MENTE” – “UN TEMPO ERA IL VECCHIO SPORCACCIONE CHE ESALTAVA LE GIOVANI GENERAZIONI CON LE SUE GESTA EROTICO-ETILICHE, OGGI È IL LIBERO PENSATORE CHE INCORAGGIA GLI OPPRESSI DI OGNI ETÀ A DIRE CIÒ CHE PENSANO.

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Charles Bukowski

«Una signora mi ha accusato di stupro, la puttana». Vorrei conoscere lo scrittore vivente capace di esprimersi in tal modo. So che rimarrà un poco pio desiderio e non mi resta che godere di Taccuino di un allegro ubriacone (Guanda, pagg. 324, euro 18), titolo troppo ovvio per una raccolta di testi per niente ovvi di Charles Bukowski. Sono articoli, prefazioni, interviste del «dirty old man», tutto materiale inedito in Italia, tutta roba destinata a umiliare noi posteri, noi autocensurati, mettendoci di fronte a una libertà di espressione che possiamo soltanto ammirare, giammai imitare.

charles bukowski taccuino di un allegro ubriacone

Erano altri tempi? Senza dubbio. Forse erano anche altri pubblici ma innanzitutto erano altri autori. «Il significato di tutte queste stronzate femministe è che le donne vogliono comandare tutto il gioco invece dei soli tre quarti»: Bukowski simili righe le batteva furiosamente a macchina nel 1976 e dunque all’ epoca della seconda ondata di manifestazioni, grida e cartelli alzati davanti alla Casa Bianca, contro il potere del maschio.

Un altro si sarebbe accodato o avrebbe taciuto, non lui che se fosse nato per il quieto vivere avrebbe continuato a lavorare nell’ ufficio postale lasciato a 49 anni per un azzardo potenzialmente letale: la fama o la fame. Dieci anni prima, 1966, era un poeta emarginato e dunque alla ricerca di editori e testate ospitali, tuttavia descriveva così le allora potentissime riviste letterarie: «La maggior parte è pubblicata da giovani depressi cronici o da vecchie lesbiche, e cosa saprà mai questa gente delle Arti?». In America un Premio Strega per fortuna loro non esiste, ma è chiaro che, se esistesse, l’ autore di Storie di ordinaria follia non lo avrebbe vinto mai.

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Bukowski è morto da un quarto di secolo eppure la necessità di leggerlo continua a crescere, nel mentre la sua fisionomia continua a mutare. Un tempo era il vecchio sporcaccione che esaltava le giovani generazioni con le sue gesta erotico-etiliche, oggi è il libero pensatore che incoraggia gli oppressi di ogni età a dire ciò che pensano, a fregarsene di Christian Raimo, per dire.

Mezzo secolo fa il perbenismo voleva regolamentare ciò che avveniva a letto, adesso, ben più pervasivo, ciò che avviene nella mente. Negli States puritani poteva essere problematico scrivere questo: «Le signore preferiscono di gran lunga scoparsi un poeta più di chiunque altro, persino più di un pastore tedesco».

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Bobby Kennedy

Nell’ Occidente smidollato, sostituendo Kennedy con Macron o Trudeau o un qualunque altro politico indegno della vostra stima, sarebbe più pericoloso scrivere questo: «C’ è qualcosa di molto scoraggiante in Bobby Kennedy ma non vogliamo ammetterlo, non ancora: ma signore, signore, quando arriverà finalmente un vero uomo???».

Però torniamo a quell’ aprile 1968, lasciamo scritto Bobby Kennedy e rendiamoci conto che Bukowski si permise di attaccare il fratello di un presidente assassinato, il candidato del partito democratico, l’ avversario del malvagio Richard Nixon, il politico sostenuto dai pacifisti e dai neri, il difensore dei diritti civili, l’ oppositore della guerra in Vietnam… Ma cosa gli era saltato in mente? Troppe birre?

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Camillo Langone, autore dell’articolo

Era un comportamento rischioso per chiunque e rischiosissimo per uno scrittore underground con un esecrabile passato di simpatie naziste e un ambiguo presente di fan céliniano…Quel pinguino lesso di Jonathan Franzen non l’ avrebbe mai fatto. Chiaramente c’ è del machismo in Bukowski, qualcosa che oggi Michela Murgia definirebbe sessismo.

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Le scrittrici non gli piacevano, tranne Carson McCullers che guarda caso era molto poco femminile: «C’ è chi dice che fosse lesbica. Però era proprio brava. Io mi chiedevo: è stata una donna a scrivere questo?». In un tempo di conformismo ginofilo, Taccuino di un allegro ubriacone è una boccata d’ aria. Parlavo di machismo, che il nostro eroe dal ventre prominente condivide con Hemingway, maestro riconosciuto e però stroncato, sebbene a malincuore, quando esce il postumo Isole nella corrente: «Il grande uomo ha pisciato fuori dal vaso».

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Secondo Martin Amis le stroncature possono scriverle soltanto i giovani, più in là negli anni non è decoroso, non sta bene: la letteratura come galateo o qualcosa del genere. Bukowski del galateo letterario se ne infischia, stronca Hemingway a cinquant’ anni e non è più giovane nemmeno quando seppellisce il poeta John William Corrington, alzi la mano chi lo ha sentito nominare. La recensione, qui a pagina 191, è molto più importante del recensito, è un pezzo di bravura che dimostra quanto contino il soggetto (poco o nulla) e lo stile (quasi tutto o tutto). Bukowski si scaglia contro ogni singola poesia del libro del malcapitato, e poi contro i professori (Corrington era un professore), e poi contro la maggior parte dei poeti, e infine contro la maggior parte degli uomini. Anni dopo, nell’ ultima intervista, amplierà il concetto: «Una cosa che non sopporto proprio e alla quale non riesco ad abituarmi è il genere umano». Ubriacone forse, lucidissimo certamente.

Camillo Langone per “il Giornale”

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