GIORNO

GIORNO

Il leggendario poeta statunitense John Giorno, figlio di emigrati italiani della provincia di Matera, è morto a New York, all’età di 82 anni, dopo una lunga battaglia contro un tumore.  Figlio della Beat Generation, era considerato il mostro sacro della Performance Poetry portando lo Spoken Word (la parola parlata) ad alta forma d’arte, l’autore che con i suoi scritti, le sue incisioni e i suoi spettacoli dal vivo ha cambiato il modo in cui il mondo vede la poesia.

Performer di notevole impatto sul pubblico per la sua presenza scenica e le sue qualità vocali, ardito sperimentalista della poesia sonora, e storico attivista delle battaglie contro l’Aids, John Giorno è stato amico e amante del re della Pop Art, Andy Warhol e dello scrittore Beat William Burroughs.

john giorno

La sua storia lo vede in stretta collaborazione con artisti e poeti di diverse generazioni con cui ha condiviso opere e progetti: da Robert Rauschenberg a Jasper Johns, da Keith Hearing a Brion Gysin, da John Cage a Robert Mapplethorpe, oltre all’esperienza poetica Beat, condivisa con autori come Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Gregory Corso e naturalmente Burroughs, con cui ha realizzato centinaia di performance e condiviso un edificio situato al numero 222 della Bowery a New York fino al 1997, anno della sua morte alla quale assistette.

È suo il corpo nudo e addormentato in Sleep, il primo ‘antifilm’ girato da Warhol nel 1963, ripreso nel sonno per oltre cinque ore, che celebra di fatto la nascita performativa del poeta della Pop Art. Alla prima del film a New York nel 1964 erano presenti in sala nove persone e due lasciarono la sala dopo la prima ora.

Poeta dalle parole dissacranti e ruvide ma dal suono dolce e tagliente, John Giorno è stato uno dei primi artisti a sperimentare il reading, le letture ad alta voce nei luoghi più inconsueti. Celebri i suoi poem paintings, frasi espresse in forma d’arte tra le quali “Life is a killer”, “I Want To Cum In Your Heart”, “Eating The Sky”, “Filling What Is Empty, Emptying What Is Full”, “Inside delusion / everything is delusion / including wisdom”, .

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Nel 1968 il poeta fonda il Giorno Poetry System Institute, centro per veicolare l’arte della poesia al pubblico attraverso nuove forme di espressione. Nel 1969 dal MoMa di New York fa partire il progetto Dial-A-Poem che permetteva, digitando un numero di telefono, di ascoltare cinque minuti di poesia all’apparecchio. Con la fondazione Giorno Poetry Systems introduce definitivamente l’uso della tecnologia nella poesia, lavorando con materiali elettronici e multimedia, creando nuovi luoghi d’incontro e facendo così conoscere la poesia a un nuovo pubblico.

Con il libro You Got To Burn To Shine (1994, tradotto in italiano con il titolo Per risplendere devi bruciare, City Lights Italia, 1997), John Giorno offre i dettagli delle sue intime memorie personali, includendo (fra l’altro) la storia della sua relazione con Warhol, del suo anonimo incontro sessuale con Keith Haring (John e Keith rimangono poi buoni amici) e raccontando i suoi pensieri sulla morte nell’età dell’Aids, dal punto di vista del suo credo religioso di buddista tibetano. L’Aids Treatment Project, fondato nel 1984, è il modo in cui John Giorno ha cercato di combattere con compassione la catastrofe epidemica dell’Aids. Lo scopo è stato quello di fornire sostegno economico per le situazioni di emergenza: alloggi, telefono, assistenza, cibo, medicinali, tasse e qualsiasi altra necessità.

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Nel 1971 ha girato il film September on Jessore Road al quale prese parte Allen Ginsberg. Nel 1982 ha lavorato nel film di Ron Mann Poetry in motion. Nel 2007 è stato il protagonista di Nine Poems in Basilicata, film di Antonello Faretta incentrato sulla sua performance e sulle sue poesie e girato nella regione di origine della sua famiglia, la Basilicata. Poeta giramondo, John Giorno è stato spesso in Italia: nel settembre del 1994 ha partecipato alla rassegna che la città di Cesena ha dedicato alla Beat Generation e ha partecipato a Napolipoesia 1999, Parole di Mare (2000) e Il cammino delle comete (2002). Nato a New York il 4 dicembre 1936, la sua famiglia materna, i Panvino, proveniva da Aliano (noto per essere il luogo d’ambientazione del libro Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi) e da Tursi, comuni in provincia di Matera. Il 9 ottobre 2013 il consiglio comunale di Tursi gli ha conferito la cittadinanza onoraria e Aliano gli ha dedicato un museo.

Giorno Poetry Systems è stata anche un’etichetta discografica, con la quale John Giorno ha pubblicato su vinile l’intera avanguardia poetica americana e i maggiori sperimentatori, tra i quali Laurie Anderson, Glenn Branca, Patti Smith, Richard Hell, Frank Zappa, Arto Lindsay, Lydia Lunch. Ha girato anche il film No Accident di Michael Negroponte (1996) e nel 2011 l’ultimo video musicale dei R.E.M. Autore di numerosi libri di poesia, in Italia sono stati pubblicati i volumi La saggezza delle streghe (2006), a cura di Domenico Brancale e Jonny Costantino, da Stampa Alternativa, e John Giorno in Florence, 1983-1998 (Recorthings, 2012).

Articolo apparso su La Repubblica, spettacoli

SOGNO DI NATALE

SOGNO DI NATALE

E’ STATO UN SOGNO, FELIX, COME SPIEGARLO ALTRIMENTI-QUELLA NOTTE, SOTTO LE BOMBE, NEL RIFUGIO, NON C’ERA CON ME UNA PERSONA IN CARNE E OSSA, MA UN ANGELO.

Il signor Giovanni accostò la porta con riguardo non appena vide la coda di Felix sparire oltre lo stipite. Felix era il gatto del vicino che usava ispezionare nottetempo i suoi quartieri di caccia. Per la cucina di Giovanni, un localuccio annerito dal fumo, aveva una particolare predilizione. La testa eretta, i lunghi baffi dritti e nervosi, andava annusando ogni angolo, arrotava minaccioso le unghie raschiandole sul logoro pavimento di legno, ma poi, sopraffatto da un’improvvisa indolenza, si arrampicava sul divanetto, acciambellandosi fra le gambe di Giovanni che lo aspettava battendo le mani sulle cosce.
Faceva freddo quella notte, fuori il vento soffiava forte e la stufa bruciava allegramente mandando un buon tepore.
Era la vigilia di Natale, il primo che Giovanni passava da solo. In quegli ultimi anni tante cose si erano allontanate da lui. La sua bottega di artigiano, chiusa per via dell’artrosi che gli deformava le mani. Nessuno lo cercava più, nemmeno per qualche lavoretto, gli attrezzi stavano arrugginiti in fondo a una cassa. Aveva rinunciato anche alle spedizioni in montagna, la domenica, in autunno, a cercare funghi. L’aria leggera gli dava giramenti di testa e l’affanno gli mozzava il respiro.
Il circolo degli anziani,diventato l’unico rifugio, era stato chiuso. Le caldaie sono da sostituire, si giustificava il sindaco. Era stato bravo a briscola, mano ferma, memoria sicura. Capace di calare carte che facevano sobbalzare il tavolo. Si puntava poco, un caffè, un pacchetto di Saiwa, qualche cioccolatino.
Chiusa l’ultima partita, tutti dispersi come foglie i compagni, chi di qua e chi di là, scatarrando in solitudine.
La malinconia premeva opprimente la testa di Giovanni quella sera. Come una nuvola nera. Giovanni agitò nel buio le mani, come a scacciare mosche invisibili. Aveva un groppo alla gola. Si sollevò delicatamente posando Felix di fianco. Il gatto aprì gli occhi che baluginarono come due tizzoni. “Eh, tu non puoi capire, Felix”- gli disse.
Era il primo Natale che passava da solo, dopo moltissimo tempo. Molte cose l’avevano abbandonato, tanto che non capiva perché mai quella fiammella di vita che sentiva dentro si ostinasse ancora ad ardere.
“Nemmeno il toscano questa notte sembra funzionare” si disse stizzito. Era l’aria umida della cucina a spegnerlo, e poi gli sapeva amaro come il fiele.


Dalla credenza Giovanni tirò fuori una bottiglia di grappa, ne rimaneva giusto il fondo, appena un bicchierino, poi anche quella sarebbe finita. La grappa lo consolava, anche se non era mai stato un bevitore. Ora quel liquore aspro dal calore liquido appesantiva le palpebre e gli dava una piacevole sensazione di abbandono, di distacco dalle cose.
Così si immaginava il suo ultimo viaggio: lento, come una marea che avanza e blandisce, copre, cancella. Una sola vibrazione, un solo suono infinito che vibra con l’universo.
Sentì in strada uno scoppio di risa, passi affrettati, poi botti di petardi.
L’aveva conosciuta lì, proprio sotto casa, in una notte come quella, con il cielo così sereno, le stelle come coriandoli luminosi, tanti anni prima.
Le case del quartiere erano allora buie e silenziose, tutti trattenevano il respiro, e capirono poi quanto quella notte fosse memorabile. Fu il rombo minaccioso dei bombardieri a dirlo, il cielo solcato da una ragnatela luminosa di crepitii, l’aria scossa da bagliori lontani.

“Nel buio del rifugio ci cercammo le mani, per vincere a paura, per sentire la vita scorrere sotto la pelle, per prolungare il tepore buono di quella inattesa intimità. Uscimmo che eravamo già innamorati. Fu un matrimonio di guerra, solo l’ebrezza della giovinezza poteva vincere un febbraio così gelido e ostile.”
Ora gli anni si affastellavano confusi nella mente di Giovanni, come fotogrammi sbiaditi, sensazioni slabbrate, inghiottite subito dal buio, quasi fossero ricordi di un altro. Anche loro lo stavano lasciando.
Pensò alla vecchiaia decrepita che l’aspettava, alla solitudine delle sue giornate ed ebbe paura.
La sua mano, appoggiata sul dorso setoso di Felix si chiuse a scatto, spasmodica. L’animale pare destarsi sorpreso, tese i nervi, poi tornò a rilassarsi.
“Il primo lavoro lo trovai a sterrare per liberare le strade, pulire i canali, raddrizzare le strade. Poi vennero i cantieri per tirare su le case. Lavoravo molto e cominciavo a guadagnare bene. Lei mi aspettava la sera, il viso pallido, lo sguardo che gli pareva sempre severo. E che io non vedevo, non capivo, divorato com’ero dal lavoro, dal sogno della mia bottega. Non vennero figli, l’amore non si spense, no! ma fra noi cadde il velo della rassegnazione. Ma senza un perché. Continuammo a volerci bene, ma senza slanci, invidiando in segreto la gioia degli altri, ma non avendo il coraggio di chiederne un po’ per noi. Sembrava dovesse durare in eterno, quasi che nella nicchia in cui ci erano rifugiati il tempo non avesse potere alcuno di corrompere e sciupare. “Ma quella sera riordinata la cucina lei uscì, lo faceva solo se c’era da fare spesa, o andare alle poste o dal medico. Si appoggiò alla bicicletta e mi lanciò uno sguardo trasparente come un filo di fumo, poi dileguò.”

Ora Giovanni parlava ad alta voce, Felix non l’ ascoltava, né poteva capirlo, nemmeno Giovanni aveva capito mai quel suo gesto, come si potesse dileguare, sparire letteralmente una persona in carne e ossa. Era successo giusto un anno prima, le strade piene di neve, mentre nella piazza l’albero natalizio illuminava le case con la sua luce intermittente. Le tracce delle ruote della bicicletta si fermavano in mezzo alla piazza, sotto l’albero e poi… poi più nulla, come se fosse stata rapita in cielo, come se una forza misteriosa l’avesse sollevata in alto, oltre i tetti, verso le stelle.
“E’ stato un sogno, Felix, come spiegarlo altrimenti. Quella notte, sotto le bombe, nel rifugio, non c’era con me una persona in carne e ossa, ma un angelo. Forse, finito l’incarico è tornata da dov’era venuta, e si è portata la bicicletta con sé, perché nemmeno quella si è trovata. Lassù si muovono con le ali, ma forse ogni tanto un giro in bicicletta se lo fanno volentieri. In fondo sono stato un uomo fortunato, ora l’unica cosa che chiedo è starmene qui e, chiudendo gli occhi, sentirmela vicina, come quella notte sotto le bombe.”
Poco dopo mezzanotte l’uscio di Giovanni si aprì, un’ombra sembrò uscirne, scivolare lungo la scala sulla neve intatta dei gradini, perdersi nell’ombra spettrale degli alberi.
Felix uscì poco dopo miagolando, immobile odorò l’aria, sembrò inseguire con aria stupita i fiocchi di neve che lenti scendevano dal cielo e li salutò con uno sbadiglio.

Le immagini che illustrano il racconto sono dei presepi opera della bottega di Giuseppe Ercolano di Meta di Sorrento (Na) che ringraziamo.(www.presepenapoletano.net)

METAMORFOSI

METAMORFOSI

In attesa che, dopo la morte, avvenga la resurrezione dei corpi, oppure la reincarnazione, non è possibile vivere più esistenze in questo mondo, dal momento che ci siamo?

Lo può fare anche chi non crede né alla prima, né alla seconda. Non si tratta di aggiungere più vita ai giorni e non viceversa, come suggeriva Rita Levi Montalcini, né di una metempsicosi: l’anima può rimanere dov’è. Il fatto è che noi ce la teniamo, ma l’ignoriamo o la trascuriamo. L’io di pavoneggia, fino allo sfinimento, nello specchio, solo ciò che è esteriore colpisce, e Narciso è sempre lì a contemplare se stesso, esteticamente riflesso, ma non la sua facies interiore.

Vi siate mai chiesti, leggendo Kafka, perché lo scrittore praghese, quando descrive Samsa, non ci parla della sua anima, ma del fatto che “Gregorio Samsa, svegliatosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo.”? Vi siete mai chiesti del perché di questa trasformazione, del suo valore simbolico? Samsa non riesce o non vuole sottrarsi a una famiglia in cui la dipendenza da un padre autoritario diventa oppressione. La sua trasformazione non è altro che la metafora che precede la morte, l’unica maniera per liberare la famiglia dalla sventura della sua presenza immonda, unica maniera per dare significato ad una vita per lui senza alcun senso.

Samsa non pensa neanche lontanamente che una vita diversa è sempre possibile, che dipende da noi.

Immagine tratta dal Libro Rosso di di C.G. Jung

Leggendo le storie della vita di sant’uomini, colti da rapimenti mistici, oppure di guarigioni sorprendenti, di incontri emotivamente sconvolgenti, di sventure che stroncano, un dato è costante: è quello l’istante dell’avvio di una radicale trasformazione, non cercata chiaramente (per tutte, la conversione di San Agostino), spesso non voluta (chi cerca la propria sventura), ma che letteralmente resetta la nostra esistenza. Dopo siamo nuovi e diversi, e nuovo e diverso è il nostro sguardo sul mondo. Un nuovo avvio, insomma, una rinascita. Appare quello che io chiamo uomo inedito, rubando l’espressione a Ernesto Balducci, presbitero, editore, scrittore e intellettuale, autore de La civiltà del tramonto- saggio sulla transizione.

Inedito nel senso che Balducci indicava: l’uomo che riesce a tirare fuori non quello che non c’è, ma quello che ha inespresso dentro di sé.

Ogni volta che riusciamo a farlo è una nuova partenza e non siamo più quelli che eravamo il giorno prima.

Forse nessuno intorno se ne accorgerà, almeno sulle prime, forse la metamorfosi resterà confusa, incerta, recalcitrante anche per noi, ma essa è presente e lavora nel profondo.

Non serve la conversione, né il ritiro spirituale, né la meditazione per fare emergere l’uomo inedito che siamo. Ha scritto Agostino d’Ippona: “Arrivammo così alle nostre menti e passammo oltre”. Il superamento dei limiti della coscienza, tappa di un lungo viaggio che dal contingente porta al trascendente, fino “ai prati della verità”, non poteva essere detto più poeticamente e più intensamente. Non c’è niente di più concreto della trascendenza quando viene testimoniata attraverso le opere, nel quotidiano “labora”.

Ma preferiamo pavoneggiarci davanti allo specchio perché è più facile. Perché sorprenderci allora se l’immagine che abbiamo di noi è la stessa che Samsa ha di sé:  “Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, bastava che alzasse un po’ la testa per vedersi il ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati; in cima al ventre la coperta, sul punto di scivolare per terra, si reggeva a malapena. Davanti agli occhi gli si agitavano le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante.”

L’uomo inedito non guarda solo con gli occhi, ma con l’anima. Con quello sguardo interiore, per riprendere le parole finali del libro di Balducci, che sa guardare lontano, dove arriva la luce del faro, e non si accontenta di stare ai piedi del faro, perché lì c’è solo buio.

INCANTO E DISPERAZIONE

INCANTO E DISPERAZIONE

Si dice che è l’astrattezza a rendere generalizzabile la poesia, poi però, in ogni verso, si ricerca il respiro della biografia più che della vita.

Nel caso di Wislawa Szymborska, fare grandi i suoi versi quasi fossero lo specchio di una vita sensazionale, è impresa destinata a fallire. Trasferitasi a Cracovia la sua famiglia che era ancora bambina, lì visse e morì. Ebbe, come lei stessa scrisse un “peccato di gioventù”, quello di sentirsi attratta dal realismo socialista. Poi due matrimoni, l’attività di redattrice e di saggista. Il premio Nobel nel 1966.

Piccola, grandi occhi, un filo di sorriso sempre presente, grande fumatrice. Viveva in case ricolme di oggetti piccoli e grandi, messi alla rinfusa, carte ovunque, vinta dalla necessità del superfluo. Così la ricorda Michal Rusinek, suo segretario personale, nel libro Nulla di ordinario, edito da Adelphi. Un’ombra che benevolmente l’ha accompagnata per vent’anni, fino alla morte della poetessa nell’inverno del 2012.

“Il 3 ottobre del 1996 l’Accademia di Svezia comunica a Wisława Szymborska che le è stato assegnato il premio Nobel. Da quel momento, lei così schiva, è costantemente sollecitata: arrivano lettere, telegrammi, manoscritti, richieste e proposte spesso del tutto incongrue. Il telefono squilla anche di notte. Si impone il supporto di un segretario. Quando Michał Rusinek, neolaureato ventiquattrenne, si presenta in casa sua, la trova sgomenta. «Allora» racconta «chiesi cortesemente un paio di forbici e tagliai il cavo. Il telefono smise di squillare. La Szymborska esclamò: “Geniale!”. E fu così che venni assunto» (dal risvolto del libro)

I critici dicono che, da un punto di vista epistemologico, prevale nella sua opera un “atteggiamento costantemente congetturale, un tratto ipotetico, rispondente alle infinite possibilità in cui può concretizzarsi l’essere”. Oppure, che la sua forza poetica nasce dalla “condensazione aforistica, nella capacità di sintetizzare un più ampio ragionamento filosofico ed esistenziale in una breve illuminazione lirica”. Ma sono complicazioni interpretative che nulla aggiungono e che, soprattutto, non spiegano il costante successo editoriale, che la sua opera ha, un caso più unico che raro nel panorama della poesia contemporanea.  

La poesia di W.S. è fatta con parole leggere, non sentenzia, nè scava o sforza, non pretende se non un po’ di attenzione, una purezza nello sguardo vicina al suo, ma pronti a seguirla nel paradosso, nella ironia spiazzante.

Nella prima poesia che riporto, Scrivere un curriculum, tratta dalla raccolta Vista con granello di sabbia, un verso pare sinterizzare la poetica di W.S. Questo: “Scrivi come se non parlassi mai con te stesso e ti evitassi.”

La seconda, dal titolo Il 16 maggio 1973, tratta da La fine e l’inizio, la vita viene descritta come “Tanti puntini tra parentesi”,….. Mi sarebbe più lieve pensare/Di essere morta per poco,/piuttosto che ammettere di non ricordare nulla/benché sia vissuta senza interruzioni. “

Sempre sulla W.S. potete trovare in questo sito un pezzo che la riguarda: https://www.ninconanco.it/il-respiro-e-nei-dettagli/

Scrivere un curriculum

Che cos’e’ necessario?
E’ necessario scrivere una domanda,
e alla domanda allegare il curriculum.
A prescindere da quanto si e’ vissuto
e’ bene che il curriculum sia breve.
E’ d’obbligo concisione e selezione dei fatti.
Cambiare paesaggi in indirizzi
e malcerti ricordi in date fisse.
Di tutti gli amori basta quello coniugale,
e dei bambini solo quelli nati.
Conta di piu’ chi ti conosce di chi conosci tu.
I viaggi solo se all’estero.
L’appartenenza a un che, ma senza perche’.
Onorificenze senza motivazione.
Scrivi come se non parlassi mai con te stesso
e ti evitassi.
Sorvola su cani, gatti e uccelli,
cianfrusaglie del passato, amici e sogni.
Meglio il prezzo che il valore
e il titolo che il contenuto.
Meglio il numero di scarpa, che non dove va
colui per cui ti scambiano.
Aggiungi una foto con l’orecchio in vista.
E’ la sua forma che conta, non cio’ che sente.
Cosa si sente?
Il fragore delle macchine che tritano la carta.

Il 16 maggio 1973

Una delle tante date

Che non mi dicono più nulla.

Dove sono andata quel giorno,

che cosa ho fatto – non lo so.

Se lì vicino fosse stato commesso un delitto

– non avrei un alibi.

Il sole sfolgorò e si spense

Senza che ci facessi caso.

La terra ruotò

E non ne presi nota.

Mi sarebbe più lieve pensare

Di essere morta per poco,

piuttosto che ammettere di non ricordare nulla

benché sia vissuta senza interruzioni.

Non ero un fantasma, dopotutto,

respiravo, mangiavo,

si sentiva

il rumore dei miei passi,

e le impronte delle mie dita

dovevano restare sulle maniglie.

Lo specchio rifletteva la mia immagine.

Indossavo qualcosa d’un qualche colore.

Certamente più d’uno mi vide,

Forse quel giorno

Trovai una cosa andata perduta.

Forse ne persi una trovata poi.

Ero colma di emozioni e impressioni.

Adesso tutto questo è come

Tanti puntini tra parentesi.

Dove mi ero rintanata,

dove mi ero cacciata –

niente male come scherzetto

perdermi di vista così.

Scuoto la mia memoria –

Forse tra i suoi rami qualcosa

Addormentato da anni

Si leverà con un frullo.

UNA CHE FARA’ STRADA

UNA CHE FARA’ STRADA

La talentuosa Flóra Borsi, per di più autodidatta, si definisce fotografa e artista visiva. È diventata famosa per i suoi affascinanti autoritratti con la serie Animeyed, in cui crea immagini assolutamente fuori dal comune utilizzando le sue incredibili capacità come ritoccatrice e creatrice di immagini.

Dando un’occhiata al suo portfolio, è difficile credere che sia ancora una studentessa della Moholy Nagy University di Budapest. Post-produzione creativa e talento fotografico vanno di pari passo per questa ragazza autodidatta di 23 anni, che lavora con Photoshop fin dall’età di 11.

“Mi è sempre piaciuto disegnare e mia sorella mi ha regalato un abbonamento a Photoshop affinché potessi provarlo. All’inizio non sapevo come utilizzarlo, ho iniziato provando qualche funzione e premendo qualche pulsante a caso. Negli anni ho imparato sempre di più sperimentando e guardando tutorial”.

Scattare con il flash

Tuttavia, la semplice manipolazione di immagini scaricate da Google non era sufficiente per Flóra, che desiderava creare qualcosa che fosse originale e assolutamente personale. Era inevitabile iniziare a scattare foto.

“A 15 anni ho vinto una Canon EOS 40D e ho iniziato a studiare le basi della fotografia. All’inizio è stato molto difficile capire le regole della luce e tutto il resto”.

Alcuni anni dopo, Flóra ha capito di non essere più soddisfatta delle immagini che scattava: “Da bambina mi chiedevo sempre come facessero i professionisti a scattare foto così perfette. Quindi, mio padre mi ha spiegato che utilizzavano il flash per ottenere quei risultati. Ecco cosa mi serviva: ho trovato un lavoretto estivo e ho comprato i mie primi due flash. Mio padre è un ingegnere che ama la fotografia classica e mi ha dato alcuni consigli per utilizzarli al meglio.

“Ho iniziato a utilizzare i Profoto B1 poco tempo dopo. Ho bisogno di fonti di luce che siano rapide e potenti. Ora sono in grado di scattare immagini che prima non avrei potuto creare. E posso fermare nel tempo tutte le immagini che mi vengono in mente. È ciò che ho sempre desiderato!”.

Riprendere se stessi

Flóra ha sempre utilizzato se stessa come modella per le sue foto, cosa che lei ritiene vantaggiosa ma anche complessa. A volte è più semplice mettersi in posa da soli piuttosto che spiegare a qualcuno in che modo posare.

“Se voglio esprimere un’emozione utilizzando una precisa espressione è più semplice per me mettermi direttamente in posa perché so esattamente ciò che voglio comunicare”.

“Tuttavia, in molti casi può essere complicato creare le immagini. Quando faccio un errore non posso correggerlo immediatamente perché devo vedere innanzitutto il primo risultato e poi scattare nuovamente per ottenere l’effetto che desidero”, afferma Flóra, spiegando che preferisce scattare con una sola luce in studio per semplicità.

“Non scatto on-location. Non mi trovo a mio agio a scattarmi foto all’aperto con un treppiede di fronte ai passanti indaffarati nelle loro occupazioni. Mi piace lavorare in uno studio, perché posso pianificare ogni piccolo dettaglio. È solo mio e so perfettamente cosa sto cercando di ottenere”.

Quando le ho chiesto a chi si ispira, Flóra ha fatto i nomi di alcuni fotografi che l’hanno influenzata: Tim Walker, Istvan Sandorfi, Gottfried Helnwein, Solve Sundsbo e Marton Perlaki.

“Adoro i dipinti e influenzano molto il mio lavoro”.

Arte visiva e post-produzione

Flóra spiega che Photoshop è il software perfetto per modificare le sue foto originali.

“Tuttavia, talvolta non modifico le immagini ma mi limito a regolare i colori in Lightroom. Aggiungo i dettagli alle immagini e le ritocco”, spiega Flóra. “È come creare una fotografia che assomigli a un dipinto. Ecco perché mi ritengo contemporaneamente fotografa e artista visiva”.

“Penso che il mio lavoro sia molto personale. Mi lascio ispirare dalla mia vita, dai ricordi ma anche da sensazioni ed eventi”, spiega quando le ho chiesto informazioni sul suo processo creativo.

“L’arte per me è come una terapia, un modo per elaborare le mie emozioni. Come una confessione”.

Falsi d’autore

Flóra si diverte anche a fabbricare delle falsi immagini, frutto della sua grande capacità di rielaborazione, in cui appare accanto a personaggi famosi del passato. Eccone alcuni esempi: Marylin Monroe, Katharine Hepburn , John Lennon, Salvator Dalì.

Articolo Scritto da: Jens-Linus Lundgren-Widén per il sito https://profoto.com/it

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