Ho incontrato Mina
per la prima volta nel 1970. Io vidi lei ma lei non vide me. Ero fra il
pubblico, in galleria, al teatro Margherita di Genova.
Il programma di quella sera era un recital di Mina e Giorgio
Gaber. Mi piacevano entrambi e ci andai da solo. Un po’ perche i miei amici –
venivamo tutti dalla periferia – erano intimiditi dai teatri e i cantanti
andavano ad ascoltarli solo nei locali da ballo. E un po’ perche di fronte alla
musica mi piaceva stare concentrato, senza distrazioni, quindi da solo era
anche meglio. In quel teatro ci avevo sentito Stan Getz, il Modern Jazz
Quartet, Charles Aznavour e poi i Rokes e l’Equipe 84. La musica mi interessava
tutta.
La serata andò piu o meno cosi: nel primo tempo Gaber spiazza il pubblico presentando per la prima volta il Signor G. Noi genovesi, che ci aspettavamo da lui qualcosa di colloquiale e leggero, ci trovammo faccia a faccia con il Gaber trasformato, profondo e teatrale che da li in poi avremmo sempre piu amato. Era il momento giusto, Genova comprese al volo.
Dopo un quarto d’ora di intervallo le luci si abbassano
nuovamente e il sipario si riapre. Dietro il sipario, bellissima, alta,
statuaria, fulva in controluce… Mina. Il pubblico ammutolito non applaude
subito. Probabilmente qualcuno ha anche smesso di respirare. Passano forse tre,
quattro secondi di assoluto silenzio che a teatro sembrano interminabili. Io
che avrei applaudito al primo istante mi guardo intorno sgomento, e finalmente
l’applauso scoppia. Lungo, corale, liberatorio.
Bisogna comprendere: eravamo una platea di genovesi, il che
spiega molte cose. E poi non l’avevamo mai vista cosi da vicino. Soprattutto
non l’avevamo mai vista a colori.
Maestra internazionale
Mi piace da sempre. Insieme al jazz, al rock. In tutte le
fasi della mia musica non ho mai smesso di ascoltarla. Mi sono sempre aspettato
qualcosa di sorprendente da Mina. Era lei che ci aveva portato piu vicini Chico
Buarque, Juan Manuel Serrat, Tom Jobim, era lei che alle nove di sera in tv
duettava con Toots Thieleman. Ci stava insegnando molto e dopo avrebbe fatto
ancora di piu. Ecco perche per un paio di settimane mi ero conservato il
biglietto del concerto piegato con cura nel portafogli. Ecco perche quella sera
non avevo voluto nessun amico seduto accanto a berciarmi nelle orecchie.
Mina e amata da tutti i musicisti. A partire da quelli che
si guadagnano da vivere suonando nei locali da ballo fino ai piu raffinati
jazzisti e compositori, in Italia e non solo. Io all’epoca facevo parte della
prima categoria. Avevo ottenuto un ingaggio professionale come chitarrista in
un’orchestrina, e non mi sfiorava neppure l’idea che un giorno l’avrei cono-
sciuta, o le avrei anche solo parlato. Quando avevo dei soldi in tasca
comperavo dischi dei Blood Sweat and Tears, dei Jethro Tull, di Ray Charles e
Aretha Franklin, Mina e Lucio Battisti. Quelli degli Stones, dei Beatles, dei
Beach Boys, degli Animals e degli Who li avevo consumati da tempo.
Ho sempre ascoltato Mina con attenzione perche fra i miei
maestri c’e anche lei. Nessuno regola e governa il suono delle parole come lei
fa. Nessuno guida e conferisce altrettanto bene, in tempo reale, significato a
ogni singolo passaggio e pensiero. Nessuno, o forse pochissimi nel mondo,
amplificano o smorzano le emozioni a loro piacimento con la sua stessa
maestria, alzando o abbassando la temperatura dell’interpretazione nel corso di
uno stesso brano. Fonetica, musica e pensiero si muovono insieme e Mina lo sa.
Il primo incontro
Ci sono voluti altri otto anni perche lei e io ci
incontrassimo davvero. Nel 1978 lei decide di non esibirsi piu in pubblico, e
nello stesso anno io passo giornate a scrivere canzoni che nessuno vuo-le
cantare. In genere gli editori me le rispediscono indietro, trovandogli ogni
sorta di difetti. E come se questo non fosse abbastanza per la mia autostima,
pubblico un album, La casa del serpente, che non vende nemmeno mille copie.
Ma improvvisamente nel suo doppio live Mina live ’78 lei, a
sorpresa, reinterpreta due pezzi tratti proprio da quel mio disco di nessun
successo. La vado a trovare alla Bussoladomani, il teatro tenda dove si
esibisce per l’ultima serie di concerti. Non mi ricordo se in quel primo
incontro ho l’ardire di abbracciarla ma spero proprio di averlo fatto. Anche
perche nello stesso tempo accade qualcosa: nel giro di un paio di settimane gli
editori e i cantanti che avevano rifiutato le mie canzoni mi cercano, mi
telefonano, chiedono se possono riascoltarle e se ne ho altre.
Nei due anni seguenti non pochi dei brani prima rifiutati
diventano successi da classifica.
Sono tuttora grato a Mina, perche sono sicuro che lei
c’entra. Ma so altrettanto bene che se le accenno la vicenda sorride, minimizza
e taglia corto.
Il disco mancato
Negli anni seguenti per me le cose andarono sempre meglio. I
miei album finalmente avevano successo e i teatri erano pieni. Facevo anche il
produttore e le canzoni che scrivevo non le rifiutava piu nessuno. Mina non la
perdevo di vista; ogni tanto lei reinterpretava qualcosa di mio, spesso le
canzoni piu particolari, e per me era una sorpresa e una gioia come la prima
volta. Un filo sottile a cui tenevo che non si spezzava.
Verso la fine degli anni Novanta lei mi fa sapere che
vorrebbe registrare un disco insieme a me. Ha gia in mente la lista delle mie
canzoni che dovremmo cantare insieme, perche e veloce e mentre pensa una cosa e
gia piu avanti della successiva. Io invece fatico a riprendermi dalla sorpresa.
Sono disorientato, e di nuovo sgomento come quella volta nel 1970 a teatro
quando mi sembrava che l’applauso tardasse ad arrivare. Ci incontriamo in un
ristorante di Milano e ne parliamo.
Potrebbe venirne fuori un gran bel disco, adesso lo so. C’e
entusiasmo, forse un po’ di timore da parte mia, ma lo supero, quindi abbiamo
tutto quello che serve. I discografici pero, per motivi che mi sono ancora
ignoti, raffreddano gli entusiasmi e insieme tutto il progetto (poi uno si
chiede perche la discografia ha fatto la fine che ha fatto. Non e tutta colpa
di Internet). Mina e io per un po’ ci perdiamo, ma si fa per dire.
Passa altro tempo. Otto anni fa sono io che decido di
smettere coi dischi e le tournee. La routine mi ha stancato, quello che ho
intorno non mi piace piu come prima. Mi trasferisco a Nizza e vivo una vita
tutta differente, viaggio molto con mia moglie e la musica la ascolto e basta;
solo quella che mi piace, senza subire il resto. Suono sempre molto, ma lo
faccio per me, perche c’e comunque tanto da imparare. E perche la passione di
tutta la vita non la puoi spegnere col telecomando come il televisore.
Poi, poco piu di un anno fa, ero appena rientrato da un viaggio in Estremo Oriente, quando Mina mi fa sapere che a quel progetto di tanto tempo prima lei ci pensa ancora, e se fossi d’accordo… Resto disorientato ma me lo faccio passare subito. Uno sano di mente puo dirle di no? Così butto all’aria i miei impegni, abolisco le distrazioni, affogo il cellulare dentro la vasca da bagno e comincio a scrivere. Lei dice che sa gia come chiamare l’album: Mina Fossati.
E ora in studio con lei
E adesso ci siamo. Proprio mentre scrivo queste righe il
disco viene pubblicato. Ne Mina, ne io, pensiamo a come andra; nel farlo c’e
stato tutto l’entusiasmo che c’era da aspettarsi, tutta la sorpresa e la
meraviglia. Scrivere canzoni e interpretarle insieme a lei e appunto una fonte
di meraviglia continua. Uno spostamento attraverso intuizioni diverse. Mina non
e solo la grandissima cantante che conosciamo ma e pura intelligenza musicale.
Qualsiasi cosa ti aspetti artisticamente da lei devi prepararti a riceverla
migliore di come l’hai pensata. Devi essere pronto a imparare ancora. Non so
nemmeno se sono in grado di descriverlo.
Ogni tanto, durante i mesi di lavorazione, fra scrivere e
registrare, mi sono sentito per brevi attimi come quella sera a Genova al
teatro Margherita. Erano solo momenti, passavano veloci e non glielo dicevo.
Dietro le lenti sfumate degli occhiali mi avrebbe fatto uno di quei sorrisi
amabili e divertiti che fa, poi di sicuro avrebbe di nuovo tagliato corto.
Articolo di Ivano Fossati per “Sette – Corriere della Sera”
AMA DEFINIRSI PIRLA, IN REALTA’ E’ UNO SCAFATO UOMO DI MONDO- GIORNALISTA, UN POCO DANDY, AMA LE BELLE DONNE E L’AGIATEZZA BORGHESE, DISCRETA, MISURATA- OGNI MATTINA ALLE 6 RECITA IL ROSARIO, MA AMA DEFINIRSI COMUNISTA, PIU’ PER VEZZO CHE PER CONVINZIONE. ECCO A VOI CARLO ROSSELLA.
A Pavia, in corso Mazzini, Carlo Rossella ha affittato un appartamento per collocarvi quella che definisce la «sezione d’ intelligence» della sua sterminata biblioteca: «In casa non mi ci stava». Il clima da guerra fredda è rafforzato dal fatto che ha rinunciato al riscaldamento: «Vengo qui ogni due giorni, perché pagare un botto di spese condominiali? Ti accendo la stufetta». Sa tutto di tutti. Avrebbe potuto lavorare tanto per il Kgb quanto per la Cia («Allora meglio il Mossad»), invece ha fatto l’ inviato speciale e il direttore di giornali. Ora è presidente della Medusa, la casa cinematografica di Silvio Berlusconi. Chi , il settimanale di gossip della Mondadori, lo ha appena esonerato.
Che succede? Il Cav non la ama più?
«Pare che fossi troppo comunista».
Nella rubrica «Posta del cuore»? Dai!
«Ero antipatico a qualcuno che sta al di sopra del direttore Alfonso Signorini».
Non ha protestato con l’ editore?
« Never complain , never explain . Mai lamentarsi, mai spiegare. Non si disturba il maestro perché un alunno ti ha sporcato d’ inchiostro la seggiola».
Davvero è ancora comunista?
«Certo. Semel abbas semper abbas ».
In che modo lo diventò?
«Per via di sangue. Padre antifascista.
E zio romagnolo, comunista e gappista, grande amico di Armando Cossutta».
Ma il nipote guidava una Rolls-Royce.
«Una Corniche blu con interni bianchi. Mi urlavano: “Te l’ ha data Berlusconi!”. L’ ho dovuta vendere per 48.000 euro».
Sul «Foglio» nei giorni scorsi ha battuto le mani a Massimo D’ Alema.
«Batto e ribatto. Con Berlusconi ed Enrico Letta è il politico migliore».
Credevo che lei avesse militato nel Pri.
«Per modo di dire. Con l’ altoparlante sull’ auto, aiutavo due amici nei paesi dell’ Oltrepò: “Votate Vittorio Olcese e Antonio Del Pennino”. Poi mettevo “La bambola” di Patty Pravo: “Tu mi fai girar…”.Di giugno, all’ ora della pennica. Insulti dalle finestre: “Va’ a da’ via el cü!”».
In seguito entrò nel Psi.
«Nel Psi mai. Ero solo amico, e lo sono ancora, di Paolo Pillitteri. Suo cognato Bettino Craxi lo copriva di male parole: “Perché frequenti quel comunista?”».
Che cosa pensa di Matteo Salvini?
«Non mi piace. Troppo macho».
E di Luigi Di Maio?
«Che t’ aggia dì?».
E di Giuseppe Conte?
«Un buonuomo».
Come arrivò al giornalismo?
«Per caso. Un mio parente conosceva il caporedattore di Grazia . Erano ex comunisti. Quello m’ indirizzò a Nino Nutrizio, direttore della Notte di Milano, ex fascista, che mi ricevette alle 5 del mattino, lui in piedi, io seduto. Dava del voi a tutti: “So che siete del Pci: qui nessuno è del Pci. So che siete laureato: qui nessuno è laureato. Torni domani alle 5”. Il giorno dopo esplose una pompa di benzina in via Tabacchi. Mandò me. Dettai il pezzo al telefono, a braccio. Al ritorno Nutrizio mi disse: “Siete assunto. Ora non fate come gli altri, che scrivono due articoli belli all’ inizio e poi solo schifezze”».
Soffre di astinenza da direzione?
«Mai sofferto di astinenza da nulla».
Quindi neppure dalle droghe.
«Dopo aver fumato l’ unica canna della mia vita durante una festa a New York, mi guardai allo specchio e vomitai».
Il direttore che le ha insegnato di più?
«Alberto Ronchey, alla Stampa . E il suo vice Carlo Casalegno, assassinato da quei delinquenti delle Br. Ti correggeva gli articoli con la matita rossoblù».
Soffrì a lasciare il posto che era stato di Ronchey?
«No, perché Gianni Agnelli mi concesse di traslocare a Washington, da dove in un anno la direzione mi chiese d’ inviare un solo editoriale».
Argomento?
«Il frigo in cui Monica Lewinsky aveva conservato l’ abito blu macchiatosi durante un rapporto orale con Bill Clinton».
Ha il potere di far girare un film?
«No. Ci pensa l’ amministratore delegato Giampaolo Letta, figlio di Gianni, che è bravissimo. A me i film piace di più vederli. Adoro Miseria e nobiltà con Totò e Casablanca . Li guardo per intero».
Perché me lo dice? Mi pare la norma.
«Dipende. L’ Avvocato aveva il cinema in casa, ma i film li faceva vedere al maggiordomo. Poi gli chiedeva: “Bvunetto, com’ è il pvimo tempo?”. Brunetto gli raccontava la trama e il finale. E Agnelli: “Allova guavdiamo il secondo tempo”».
Rossella con Daniela Santanchè
Può almeno lanciare un’ attrice?
«Meglio evitare tentazioni. Sono sposato. Cerco di peccare il meno possibile».
Però nel 2001 allegò a «Panorama» il calendario di Manuela Arcuri.
«Che cosa c’ era di meglio in giro?».
Fabio Volo commentò: «Carlo Rossella non sbaglia un corpo».
«Or non è più quel tempo e quell’ età».
Si definisce eterosessuale a riposo.
«Quest’ anno saranno 77».
Le gambe delle donne.
«Corteggiarle è faticoso. Alcune sono anche care. Non nel senso di affettuose».
Da ragazzo le piacevano tutte.
«Tutte quelle belle. A cominciare dalla prima, Françoise, una francese. Avevo 16 anni. Lo facemmo in spiaggia, a Igea Marina. Perché non si sporcasse, stesi sulla sabbia L’ Espresso formato lenzuolo. Rincasò con la controstampa di un articolo di Eugenio Scalfari sulle natiche».
Ha mai tradito sua moglie?
«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere».
Su «Chi» scrisse che 60 italiani su 100 hanno l’ amante. Come fa a dirlo?
«Dal basso della mia esperienza».
Nei verbali sulle «cene eleganti» di Arcore un’ olgettina dice che ballò con lei.
«Confermo. Sono ballerino di tango. Lo imparai di pomeriggio in una tangueria di Buenos Aires frequentata dalle cameriere. Buttavano acqua saponata sulle assi di legno per facilitare il figurato».
Che cosa sa del bunga bunga?
«Nulla. Partecipai a una sola di quelle cene e non vidi alcunché di sconveniente. Tante belle ragazze. Me ne andai presto perché guardavano solo il Cav».
Come giudica il leader di Forza Italia?
«Come imprenditore, di lui mi piace tutto. Come politico, è troppo buono».
Ma lei non tifava per l’ Inter?
«Adesso per la Fiorentina, in onore di Diego Della Valle. Ma di calcio non capisco un’ acca. Motivo per cui Berlusconi non mi ha mai parlato del Milan. Lui coglie al volo quali sono i tuoi interessi».
Si narra che in tutte le redazioni dove arrivava come direttore per prima cosa appendesse al muro un crocefisso.
«Sempre lo stesso. Mi portavo da casa anche martello e chiodo. Ora sta a Roma, nel mio ufficio alla Medusa».
Non la facevo così timorato di Dio.
«Ogni mattina alle 6, appena sveglio, recito il rosario, seduto sul bordo del letto, e guardo una statuetta della Madonna di Lourdes. È molto rilassante. Ne ho due di corone, una rossa e una nera. Me le ha regalate Cristina Borgomanero, un’ amica di Bologna che accompagna i malati alla Grotta di Massabielle».
Sapevo solo che è contrario all’ aborto.
«Sì, fermamente, con tutto il rispetto per le donne. Baldovino del Belgio si sospese da re per non promulgare la legge sull’ interruzione di gravidanza. Purtroppo in Italia non abbiamo più il re».
Da direttore del Tg5 consentì alla conduttrice Paola Rivetta di presentare il Family day.
«Ci andai anch’ io. Lo condividevo».
Papa Francesco le piace?
«Mi piacciono tutti i papi. Ma nel cuore ho san Giovanni Paolo II. Nel 1976, sulla via per Auschwitz, un’ amica mi disse: “A Cracovia va’ alla messa mattutina del cardinale Karol Wojtyla”. Andai. Alle 5.30 la piazza era già gremita. Per me è il più grande personaggio del secolo scorso».
Perché la chiamano Carlito?
«Un nomignolo che mi fu affibbiato quando facevo l’ accompagnatore della Italturist a Cuba e nell’ Urss».
Ricorda Pedrito. Carlito el Drito.
«Più che altro Carlito el Pirla».
In quale Paese ha lasciato il cuore?
«In Russia. E in Armenia. Le armene sono bellissime».
Credevo negli Stati Uniti.
«Ho vissuto a New York e Washington, ma il mio buen retiro è Miami, dove i ricordi superano la realtà. Ci andavo nei weekend. Ora ci torno due volte l’ anno».
Roma e Milano non le piacciono?
«Per carità! Ci ho lavorato, ma ho sempre mantenuto la residenza a Pavia. Roma è Il Cairo senza i musulmani, Milano è New York senza i calvinisti».
Potrebbe trasferirsi in Portogallo, come il suo amico Fabrizio Del Noce.
«Ci ho pensato, per via delle tasse agevolate sulla pensione. Ma ascoltando “Il re del Portogallo volea ballar la samba” del Trio Lescano m’ è venuto il magone.
Era la canzone delle mondine. Da bambino le spiavo nelle risaie con il cannocchiale di un mio amico, nipote di un ammiraglio. Alle mondane ho sempre preferito le mondine. Sono il mio mito erotico. Invece con Del Noce mi divertivo a tirare sacchetti pieni d’ acqua contro le vetrine dei negozi di Pavia».
Vittorio Feltri mi ha detto che di Rossella ne conosce almeno due o tre, «anzi, sette, i sette fratelli Rossella».
«Potresti pregarlo di trovare sette spose per sette fratelli? Feltri è il più grande giornalista italiano. Il suo editoriale è il primo che leggo la mattina».
L’ ha definita «un grandissimo figlio di buona donna».
«Mi assunse come suo vicedirettore all’ Europeo . Dopo aver brindato a champagne, non mi presentai a firmare il contratto. Senza dare spiegazioni».
Posso sapere perché non si presentò?
«Claudio Rinaldi, immenso direttore di Panorama , quella sera stessa mi triplicò lo stipendio. L’ uomo non è di legno».
LA CONTRASTATA E TARDIVA FORTUNA IN ITALIA DELL’AUTORE DI ADDIO ALLE ARMI – AVVERSATO DAL FASCISMO, TROVA IN CESARE PAVESE E FERNANDA PIVANO I TRADUTTORI PIU’ CONGENIALI
L’interesse per Hemingway in Italia è abbastanza tardivo,
se si pensa che il primo intervento critico – un articolo di Mario Praz apparso
su La Stampa nel
1929, intitolato Un giovane narratore americano –
risale ad una fase già avanzata della sua carriera letteraria, quando The Sun also Rises e AFarewell to Arms avevano
già spopolato tra gli scaffali di mezzo mondo. Interesse non solo, come detto,
tardivo, ma anche in linea con certa indulgente bonarietà che la prima
generazione di americanisti riserva alla letteratura americana: letta e
criticata, ma sempre relegata al ruolo di appendice delle nobili lettere
inglesi, senza mai insidiare la millenaria superiorità della tradizione
europea. Basta osservare lo sforzo (spesso artificioso) dello stesso Praz di
ricondurre l’originalità americana a derivazioni europee. Basta guardare il
tiepido entusiasmo di Emilio Cecchi, o il cauto slancio di Carlo Linati, che
traduce Il ritorno del soldato già
nel 1925 e riceve un biglietto di ringraziamento dallo stesso Hemingway, ma non
riesce a immaginare «come possa [la civiltà europea] abbandonare questi suoi
preziosi beni nelle mani di Babbitt» (LINATI, 1923) [Ndr. “Babbit” è il tipico
americano medio-borghese di provincia per bene del boom economico. Il nome
deriva dal titolo di un romanzo del 1922 di Sinclair Lewis, intitolato “Babbit”
appunto].
Tra l’altro l’interesse dei
letterati italiani per Hemingway si riallacciava ad un elemento puramente
accessorio, o comunque esteriore, ossia lo stretto legame biografico
dell’autore con la nostra penisola. L’esperienza della guerra – l’arrivo a
Schio, la ferita alla gamba a Fossalta di Piave, il ricovero a Milano – si consuma
tutta su suolo italiano, e lascia in lui un fantasma da esorcizzare con
continui ritorni (almeno sette in totale). Nel 1922 Hemingway è in Italia due
volte, in aprile per seguire la Conferenza Economica Internazione di Genova
(dove, non essendo molto ferrato in economia, passa il tempo a disegnare
caricature di Lloyd George) e in maggio, quando attraversa le Alpi a piedi e
torna sui luoghi di guerra (leggenda vuole che abbia defecato sull’esatto punto
in cui fu ferito). Nel 1923 fa visita a Ezra Pound a Rapallo, vanno a piedi a
Pisa e Siena; poi, dopo una breve sosta a Sirmione, scopre una località di
montagna allora sconosciuta, resa glamour dal suo passaggio: Cortina d’Ampezzo.
Del 1927 è un breve giro in macchina con l’amico Guy Hickock, con annesso incontro
con Giuseppe Bianchi, il prete che lo aveva battezzato in fin di vita al
fronte. Nel 1948 e nel 1954 si divide tra Venezia e l’isola di Torcello, mentre
in mezzo, nel 1953, inaugura il famosissimo muretto di fronte al Caffè Roma di
Alassio.
Ma è proprio quando la situazione politica cambia – e la
dittatura fascista si consolida – che cambia l’interesse italiano per
Hemingway. Non più saltuario e superficiale, ma serio, strutturato, foriero di
nuove suggestioni nel mutato clima generale del paese. Non a caso sono gli anni
del mito dell’America,
avversata dai fascisti come potenza plutocratica e covo del giudaismo mondiale.
«Dominio dei monopoli», «popolo sradicato», «sabba di macchine», «società priva
di storia» sono solo alcuni degli epiteti riservati agli USA (ANTONELLI, 2008).
Nel decennio degli anni ’30, «il decennio delle traduzioni» (PAVESE, 1951),
l’introduzione in Italia di autori americani come Hemingway diventa quindi
molto più di una mera traslazione da una lingua ad un’altra. È un’operazione culturale,
una protesta politica, uno slancio ideale, in una suggestione – quella degli
Stati Uniti come altrove di libertà e della loro letteratura come vergine
adesione alle cose – che si alimentava delle progressive restrizioni, delle
reiterate censure, delle asfissianti gabbie della retorica.
Il primo a capire la connessione è Cesare Pavese.
«Laggiù noi cercammo e trovammo noi stessi» dice cogliendo il punto (PAVESE,
1945). E nonostante i suoi preferiti siano altri – su tutti il Moby Dick di
Melville, ma anche Sinclar Lewis e Sherwood Anderson – riserva sempre grande
attenzione alle opere di Hemingway. Ad un suo amico americano, Antonio
Chiuminnato, già nel 1930 chiede di inviargli «qualcosa di Ernest Hemingway (Anche il sole sorge, Uomini senza donne, Addio alle armi) o
qualsiasi altra cosa di lui sia reperibile», testimoniando le difficoltà nel
reperire edizioni italiane («Specialmente dell’ultimo libro si parla molto qui,
ma non se ne è vista nessuna edizione») (PAVESE, 1966). Un paio d’anni dopo,
prega ancora Chiuminatto di cercare «un’edizione economica di in our time di
Hemingway. Sento dirne meraviglie» (PAVESE, 1966). E in quella miniera di
lucidi giudizi critici che è Il
mestiere di vivere, se ne rintraccia uno, in cui coglie
l’originalità della prosa hemingwayana:
Ma è proprio quando la situazione politica cambia – e
la dittatura fascista si consolida – che cambia l’interesse italiano per
Hemingway. Non più saltuario e superficiale, ma serio, strutturato, foriero di
nuove suggestioni nel mutato clima generale del paese. Non a caso sono gli anni
del mito dell’America, avversata dai fascisti come potenza
plutocratica e covo del giudaismo mondiale. «Dominio dei monopoli», «popolo
sradicato», «sabba di macchine», «società priva di storia» sono solo alcuni
degli epiteti riservati agli USA (ANTONELLI, 2008).
Nel decennio degli anni ’30, «il decennio delle traduzioni» (PAVESE, 1951),
l’introduzione in Italia di autori americani come Hemingway diventa quindi
molto più di una mera traslazione da una lingua ad un’altra. È un’operazione
culturale, una protesta politica, uno slancio ideale, in una suggestione –
quella degli Stati Uniti come altrove di libertà e della loro letteratura come
vergine adesione alle cose – che si alimentava delle progressive restrizioni,
delle reiterate censure, delle asfissianti gabbie della retorica.
Il primo a capire la connessione è Cesare
Pavese. «Laggiù noi cercammo e trovammo noi stessi» dice cogliendo il punto
(PAVESE, 1945). E nonostante i suoi preferiti siano altri – su tutti il Moby
Dick di Melville, ma anche Sinclar Lewis e Sherwood Anderson – riserva
sempre grande attenzione alle opere di Hemingway. Ad un suo amico americano,
Antonio Chiuminnato, già nel 1930 chiede di inviargli «qualcosa di Ernest
Hemingway (Anche il sole sorge, Uomini senza donne, Addio
alle armi) o qualsiasi altra cosa di lui sia reperibile», testimoniando le
difficoltà nel reperire edizioni italiane («Specialmente dell’ultimo libro si
parla molto qui, ma non se ne è vista nessuna edizione») (PAVESE, 1966). Un
paio d’anni dopo, prega ancora Chiuminatto di cercare «un’edizione economica
di in our time di Hemingway. Sento dirne meraviglie» (PAVESE,
1966). E in quella miniera di lucidi giudizi critici che è Il mestiere
di vivere, se ne rintraccia uno, in cui coglie l’originalità della prosa
hemingwayana:
Stendhal-Hemingway. Non raccontano il
mondo, la società, non dànno il senso di attingere a una larga realtà
interpretando a scelta, a volontà – come Balzac, come Tolstoi, come ecc. Hanno
una costante di tensione umana che si risolve in situazioni sensorio-ambientali
rese con assoluta immediatezza. Altre non ne saprebbero rendere, come invece i
suddetti. Su questa costante han costruito un’ideologia, che è poi il loro
mestiere di narratori: l’energia, la chiarezza, la non-letteratura.
Flaubert sceglieva un ambiente; loro no.
Dostojevskij costruiva un mondo dialettico; loro no.
Faulkner stilizza atmosfere e mitologizza; loro no.
Lawrence indagava una sfera cosmica e l’insegnava; loro no.
Sono i tipici narratori in prima persona. (PAVESE, 1952)
Al di là di queste scarne notazioni, il merito di
Pavese sta nell’aver introdotto all’opera di Hemingway una sua allieva
particolarmente dotata. Siamo a Torino, nella primavera del 1935, e Fernanda
Pivano è una giovane studentessa del liceo classico D’Azeglio. Tra le
versioni da Erodoto, l’antipatia per la professoressa di chimica e l’amicizia
con i suoi compagni – tra cui Primo Levi, «sommesso e timidissimo», ma che «si
imponeva da gigante con la sua bravura, il suo talento, la sua gentilezza»
(PIVANO, 2008) – rimane folgorata dall’arrivo di un supplente di italiano
«giovane giovane», un po’ ritroso, con i capelli arruffati, ma con «una
bellissima voce che avrebbe fatto invidia a un attore, un po’ atona, un po’
soffocata, sempre sommessa, fascinosa mentre leggeva Dante o Guido Guinizelli e
li rendeva chiari come la luce delle stelle». Fa lezione sul Momigliano
(manuale inviso al ministero), cita De Sanctis e Croce, e non fa mistero della
sua insofferenza per le fanfare in camicia nera. Lui è, appunto, Cesare Pavese,
e i suoi studenti lo adorano. Un giorno l’idillio viene interrotto dalla
polizia fascista, che lo arresta e lo manda al confino. Fernanda, bocciata
all’esame di italiano, lo rivede per caso in piscina tre anni più tardi, nel
1938. Pavese non ricorda la sua vecchia allieva, ma se ne innamora all’istante.
L’ammirazione sconfinata di lei, però, non sfocia nella passione amorosa (due
volte lui la chiederà in sposa, due volte lei opporà un garbato rifiuto) ma
l’intesa intellettuale è ottima, e mentre lei prepara la tesi su P.B. Shelley,
Pavese le suggerisce di dirottarsi verso la letteratura americana. Così la
Pivano:
Naturalmente gli avevo chiesto che
differenza c’era tra le due letterature e lui si era passato la pipa da una
parte all’altra della bocca e invece di rispondermi mi aveva lasciato in
portineria quattro libri, ognuno avvolto in una carta da pacchi arancione e il
titolo scritto in corsivo con la penna stilografica, come usava allora: Farewell
to Arms di Ernest Hemingway, Leaves of Grass di Walt Whitman,
l’autobiografia di Sherwood Anderson e questo strano libro di poesie, Spoon
River Anthology di Edgar Lee Masters. (PIVANO, 2008)
Un gesto così semplice come portare dei libri poteva
costare caro a quei tempi. Proprio quell’anno, il 1938, segna un vigoroso giro
di vite nella censura fascista, che si fa più stringente, più
puntigliosa, aspirando al controllo sistematico di ogni uscita editoriale. «A
datare dal 1° aprile c.a. soltanto questo Ministero potrà autorizzare la
diffusione in Italia delle traduzioni straniere» recitano i documenti ufficiali
(RUNDLE, 2010). Incurante del pericolo, Fernanda legge i libri d’un fiato e
traduce Masters: grazie ad un astuto stratagemma – la raccolta viene spacciata
per una devota e improbabilissima Antologia di S. River – il
libro esce nel 1943 presso Einaudi. Fernanda, ormai conquistata dalla
letteratura americana, lavora ora su Addio alle armi di Ernest
Hemingway, altro testo proibitissimo dal fascismo.
Il perché sia proibito è facile da intuire. È un
romanzo antimilitarista, antiretorico, e la descrizione della disfatta di
Caporetto (a cui tra l’altro Hemingway non assistette, modellandola sulla
ritirata greca in Tracia durante la guerra greco-turca del 1922) è considerata
lesiva per l’onore delle forze armate italiane. Facile immaginare, dunque,
perché Hemingway suscitasse l’entusiasmo degli oppositori. Come è facile
immaginare la faccia delle SS naziste quando, durante una retata presso la sede
di Einaudi, trovano il contratto di traduzione per Addio alle armi.
Commettono però un errore: il contratto è erroneamente intestato a «Fernando
Pivano» e le SS arrestano Franco, il fratello di Fernanda. Appena ricevuta la
notizia, lei si fionda all’Hotel Nazionale, il quartier generale nazista dietro
piazza San Carlo, e riesce, pur tra mille difficoltà, a chiarire l’equivoco.
Scagionato il fratello, rimane in carcere per dodici ore, subendo interminabili
interrogatori, continue minacce, feroci intimidazioni, in una corrida, così la
definirà, «in cui io sono un povero torellino inesperto e loro matadores che da
anni passavano la vita a mandare la gente nei lager» (PIVANO, 2008).
L’episodio dovette giungere alle orecchie di Hemingway
poiché, una volta finita la guerra, invita la Pivano a raggiungerlo all’hotel
Concordia di Cortina, aperto fuori stagione solo per lui. Lei all’inizio pensa
ad uno «scherzo di cattivo gusto», poi si precipita sul «trenino da favola ora
scomparso delle Dolomiti» (PIVANO, 2017) e lo raggiunge. È il 10 ottobre del
1948:
Quando mi aveva vista lì sulla porta della
sala da pranzo, coperta di fuliggine e di polvere e troppo emozionata per
entrare, si era alzato e aveva attraversato il salone con le braccia aperte
richiudendole su di me in uno hug come quelli di cui avevo letto nei suoi
racconti; poi mi aveva preso per mano e accompagnandomi al tavolo mi aveva
detto in uno di quei bisbigli coi quali mascherava la sua leggera balbuzie:
“Tell me about the Nazi” (PIVANO, 2008).
È l’inizio del sodalizio tra Papa (come
lei chiama lui) e Daughter (come lui chiama lei). Lui le parla
di Fitzgerald e Gertrude Stein, impilando tutti i ricordi della stagione
parigina che riorganizzerà in A Moveable Feast. Lei accumula
indelebili memorie, tra luci e ombre: la lunga tavolata del Natale 1948 a villa
Aprile, sempre a Cortina; le gite in montagna su una vecchia Buick azzurra;
l’«ombra permanente di disperazione» (PIVANO, 2017) al Gritti di Venezia, dove
la chiama nel 1954, l’anno del Nobel, per sostenerlo dopo l’incubo di uno
sciagurato safari in Congo (con ferite, notti all’adiaccio e ben due incidenti
aerei); il solare declino alla Finca Vigia, la casa di Hemingway a Cuba, dove
Fernanda lo rivede nel 1956 con «i suoi bermuda sorretti per miracolo sotto lo
stomaco teso dal gin» (PIVANO, 2017).
In tutto si conteranno, su Hemingway, una biografia, la curatela dell’opera
omnia, cinque edizioni delle opere, quindici prefazioni, quattro traduzioni,
innumerevoli pagine critiche.
Estratto dell’articolo di Mario Taccone Revisione e cura: Alessandro Ardigò, Valentino Valitutti
I palchi della Scala sono il centro della vita milanese. E una deliziosa mostra li racconta
Ho una grande passione per i teatri storici: sono un patrimonio da tutelare, ma a volte nel nostro paese si preferisce costruire mastodontici Auditorium o Palaqualcosa, anche in piccoli centri, piuttosto che recuperare teatri anche con capienze importanti. Hanno avuto, dopo i grandi esempi di architettura (da Bibbiena a Vanvitelli e Piermarini), un’esplosione attorno all’Unità d’Italia e, laddove non si trovava il terreno idoneo e i finanziamenti erano insufficienti, si arrivava a riconvertire edifici che nulla avevano a che fare con lo spettacolo, come a Ceva, ricavato da un ex macello, o a Chivasso in una ex cappella delle suore (per entrambi i quali ho curato il restauro).
I Teatri sono nati con l’intento non solo di rappresentare opere liriche o di prosa, e quindi di diffondere cultura, ma anche come momento di socialità, di esibizione del benessere economico, di sfoggio di eleganza. Di ciò protagonisti assoluti erano i palchi. Palchi protagonisti di una deliziosa mostra al Museo della Scala, inaugurata a pochi giorni di un’apertura di stagione che si preannuncia strepitosa, con una Tosca, come l’aveva concepita Puccini nel 1900, che per quest’opera profuse un impegno di ricerca ambientale mai avuta per altre sue composizioni.
“Nei palchi della Scala” si rappresentano gli aspetti sociali, umani e divertenti del Teatro come centro della vita milanese, raccontando fasti e curiosità dell’epoca successiva alla costituzione dell’Ente Autonomo fino agli anni 60. Il percorso espositivo è arricchito da un piacevole documentario che narra, in modo puntuale ma leggero, cambiamenti sociali, vezzi e vizi dei palchettisti, così erano chiamati i possessori dei palchi.
Erano e rimasero privati, ognuno con un suo proprio allestimento, sino a quando un decreto del 1928 ne determinò l’esproprio a favore del Comune di Milano che diede avvio anche a uniformarli stilisticamente. Sono stati identificati, palco per palco, tutti i proprietari e gli ospiti del Teatro dal 1778 al 1920, anno dell’esproprio; inoltre viene ripercorsa la storia delle grandi famiglie milanesi, dai Trivulzio, ai Litta, ai Belgiojoso, ai Visconti, le cui vicende si intrecciano a quelle dei patrioti, come Luigi Porro Lambertenghi, Federico Confalonieri e Silvio Pellico, oltre ai grandi letterati da Stendhal a Foscolo, da Parini a Manzoni.
Diciotto pannelli, nel ridotto dei palchi, rievocano gli intellettuali, i grandi artisti, le personalità della politica nazionale e internazionale ospitati nei palchi della Scala dal dopoguerra a oggi: dal Presidente Luigi Einaudi a Rita Levi Montalcini, dalla Senatrice Liliana Segre a Eugenio Montale, da Maria Callas a Patrice Chéreau (laddove cultura e mondanità si sovrappongono senza escludersi).
Il percorso della mostra inizia dall’ingresso del Museo con un grande ritratto di Guido Visconti di Modrone, benefattore della Scala riuscendo nel 1898 a riaprire il Teatro dopo una chiusura durata più di un anno. Egli, grande sponsor del teatro, la cui influenza e carisma trascinò le più importanti famiglie milanesi per quasi centocinquant’anni a trasformare il Teatro in quel “gran salotto che concentra tutti i salotti di Milano”, come diceva Stendhal.
Scorrendo le numerose riproduzioni dei ritratti dei palchettisti della Scala, sempre eseguiti da importanti artisti, tra cui Francesco Hayez, si nota Domenico Barbaya che, da cameriere del caffè degli Artisti, divenne ricchissimo, tanto da trasformarsi in un affermato impresario teatrale e benefattore della Scala, e per aver inventato la barbajada, gustosa e calorica bevanda al caffè cioccolato e panna per scaldare gola, mani e cuore dei melomani.
Episodi divertenti e piccanti, raccontanti in parte dai gentilissimi e orgogliosissimi custodi del Museo – come quelli legati al palco del Viceré, più intrigante del palco reale – ma anche documentati da disegni e testimonianze dell’epoca. Il teatro non era quindi un luogo imbalsamato, come cerco sempre di far capire ai miei committenti, ma un luogo polifunzionale, aperto, di svago. E nei palchi succedeva di tutto, si mangiava, si amoreggiava, si giocava anche d’azzardo, accompagnati però da intrattenimento musicale di altissimo livello.
Così le famiglie milanesi vivevano il teatro quotidianamente, con i palchi arredati quasi fossero un’estensione delle loro abitazioni: sono anche esposti arredi originali e due tavoli da gioco che si usavano durante gli spettacoli. Non manca il glamour, attraverso il servizio fotografico degli anni della ricostruzione e del boom, in cui la moda ha iniziato a diventare protagonista a Milano, rendendo la Scala la più grande vetrina di eleganza del nostro Paese: abiti firmati da stilisti di allora (tra cui Curiel, Schön, Valentino, Capucci) esposti in un ambiente che richiama l’atmosfera di un palco.
Protagoniste dell’ultima sala alcune grandi dame degli anni Cinquanta e Sessanta, da Grace Kelly a Elisabeth Taylor a Valentina Cortese, sempre in abito da sera in occasione delle inaugurazioni di stagione che hanno reso la Scala una vetrina internazionale. Insomma una mostra divertente e colta che parla di architettura, storia, costume e soprattutto tanta Bellezza!
PERCHE’ DIO GRADISCE l’OFFERTA DI ABELE E NON QUELLA DI CAINO?- OGNI UOMO E’ ABELE MA PUO’ ESSERE CAINO- SI TRATTA DI SCEGLIERE FRA PERDONO E VENDETTA.
L’altra faccia di Caino, il primo assassino della storia umana. Ce la mostra Andrea Camilleri nelL’inedito monologo che avrebbe dovuto interpretare lo scorso 15 luglio alle Terme di Caracalla. E’ ‘Autodifesa di Caino‘, attesissimo dal pubblico e fortemente voluto dallo scrittore, morto il 17 luglio 2019, diventato ora un libro, il primo ad uscire postumo, il 21 novembre per Sellerio.
Testo potente, profondo, risponde alle domande sul bene e il male. “Sapete qual è stato il mio vero errore? Quello di non essermi mai difeso, di non avere mai esposto le mie ragioni. Ma ora basta! Questa sera ho deciso di pronunciare la mia autodifesa, immaginando che davanti a me ci sia un’aula di tribunale e che voi, se vorrete ascoltarmi, siate i giurati” dice Caino che ci mette a nudo con le sue domande. “Avanti, diciamocelo, agli assassini ci avete fatto, come si usa dire, il callo” afferma citando le due guerre mondiali, gli stermini, i massacri, le stragi, gli attentati, i femminicidi degli ultimi 150 anni.
“E’ il primo libro di Andrea Camilleri che pubblichiamo dopo la sua morte. Ed è per noi quindi il primo che egli non ha potuto vedere stampato. In esso, per come è ideata e compiuta l’opera, il lettore sentirà risuonare la sua voce” spiega nella nota che apre il libro l’editore e ringrazia “Arianna Mortelliti che, avendo sostenuto il nonno Andrea Camilleri nella rifinitura del testo in vista della messa in scena, ha collaborato alla cura di questa edizione”. Camilleri aveva completato tutto e immaginato la scena , gli intermezzi musicali, i filmati da proiettare sullo schermo, tra cui un video di Dario Fo da ‘La storia di Caino e Abele’ , i testi da interpretare di persona e quelli da far recitare per questo monologo che avrebbe segnato il suo ritorno sul palcoscenico, dopo il successo di Tiresia. Caino, l’emblema stesso del Male, è chiamato a giudizio ma Camilleri vuole che siano i lettori ad emettere il verdetto, i testimoni a carico sono tanti, ma non mancano quelli che Caino può convocare a suo sostegno.
“Ho finito. Non voglio che pronunciate il vostro verdetto ora. Riflettete su quanto vi ho raccontato questa sera e poi decidete da voi. Secondo coscienza” dice lo scrittore che poco prima indica nel testo la proiezione sullo schermo di un breve spezzone del film ‘Il terzo uomo’ di Carol Reed, con battuta di Orson Welles. Sono proprio e soprattutto le parole di autodifesa dell’assassino di Abele a fornirci una nuova versione dei fatti, la sua. Ricorda Camilleri che “nella tradizione ebraica, e in parte anche in quella musulmana, esistono una miriade di controstorie che ci raccontano un Caino molto diverso da quello della Bibbia. In alcune di quelle antiche narrazioni lo scontro tra i due fratelli ne rovescia in qualche modo le posizioni”. Lo scrittore che pensava di essere “in fondo un contastorie” come ha più volte detto, ripercorre quella parte del mito totalmente ignorata: è quella del Caino fondatore di città, inventore dei pesi e delle misure, della lavorazione del ferro, ma soprattutto quella di Caino inventore della musica. “…Una volta che me ne stavo disteso in un canneto sentii il vento che entrava e usciva dai buchi delle canne producendo un rumore” racconta. Autodifesa di Caino sarà presentato per la prima volta l’8 dicembre alle 19.00 a ‘Più libri pù liberi’, alla Nuvola di Roma, come evento conclusivo della fiera della piccola e media editoria, di cui è ideatrice e curatrice del programma Silvia Barbagallo, che era diventato tradizione fosse chiusa da Camilleri.