IL RAGAZZO TERRIBILE

IL RAGAZZO TERRIBILE

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Helmut Newton

La linea delle gambe, lentamente definita dall’obiettivo con un filo di luce, anzi con un velo d’ombra, quasi a richiamare la carezza di seta delle calze. Il taglio dell’abito che, nel chiaroscuro, fa monumento del corpo nel momento stesso in cui lo nasconde, invitando l’osservatore a guardare, cercare, rincorrere la bellezza, sognandola oltre il visibile. Poi, il viso, disegnato nel gioco di palpebre rigorosamente chiuse a contrasto con labbra morbide a suggerire un inatteso e fintamente rubato languore.

marlene dietrich helmut newton
Marlene Dietrich

Infine, il fumo, voluta bianca che si fa sipario, dichiarando la natura della figura ritratta, non più semplice donna, ma diva: Marlene Dietrich. È nel movimento dello sguardo, ricreato e sollecitato, la seduzione degli scatti di Helmut Newton nato Helmut Neustadter – maestro dell’obiettivo, grande firma della fotografia di moda, più in generale artefice e narratore di una bellezza emozionante, sensuale, altamente materica e al contempo intellettuale.

catherine deneuve by helmut newton 3
Catherine Denueve

A sedici anni dalla morte dell’artista, di cui oggi ricorre l’anniversario è scomparso il 23 gennaio 2004 a West Hollywood e a cento dalla nascita, il 31 ottobre 1920 a Berlino, la GAM-Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino dal 30 gennaio al 3 maggio ospita la retrospettiva Helmut Newton. Works, promossa da Fondazione Torino Musei e prodotta da Civita Mostre e Musei con la collaborazione della Helmut Newton Foundation di Berlino.

Dagli anni 70 con le molte copertine per Vogue al ritratto di Leni Riefenstahl del 2000, l’esposizione, curata da Matthias Harder, direttore della fondazione tedesca, presenta sessantotto fotografie – tra i set preferiti dal maestro, il suo garage a Monaco – selezionate per illustrare la lunga carriera di Newton, nonché la sua filosofia di scatto. «Il desiderio di scoprire, la voglia di emozionare, il gusto di catturare – diceva – tre concetti che riassumono l’arte della fotografia».

june newton by helmut newton
June Newton
helmut newton

Allievo della fotografa Yva, pseudonimo di Else Simon, specializzata in ritratti, nudi e foto di moda, Newton costruisce il suo sguardo in giro per il mondo. Nel 1938 lascia Berlino per raggiungere Trieste, poi lavora come fotografo a Singapore, nel 1940 si arruola nell’esercito australiano, dalla metà degli anni 50 compie vari viaggi in Europa. Nel 1956 firma un contratto con l’edizione britannica di Vogue. Nel 1961 inizia a lavorare a tempo pieno a Parigi per l’edizione francese del magazine. In città, nel 1975 tiene la prima mostra personale. L’anno seguente pubblica il primo volume di foto, White Women. Ormai ha conquistato il successo. Internazionale.

leni riefenstahl by helmut newton
Leni Riefenstahl
calendario pirelli 2014 by helmut newton 2

Intanto, si è sposato, nel 1948, con l’attrice June Brunell, che, con il nome di Alice Springs, nel 1970 inizierà la carriera da fotografa, sostituendolo, mentre è malato, per una pubblicità di sigarette. Nel 1971, Newton ha un infarto a New York. Ciò non ferma, né rallenta la sua carriera, che prosegue tra mostre, libri, cover, il calendario Pirelli – nel 2014 The Cal, in occasione dei 50 anni, ha pubblicato suoi scatti censurati nel 1986 – premi, fino alla morte a Los Angeles, un anno prima della realizzazione della Fondazione a lui dedicata.

twiggy e la sua gatta helmut newton 1967
Twiggy
calendario pirelli 2014 by helmut newton 3
Calendario Pirelli

«La fotografia di Helmut Newton, che abbraccia più di cinque decenni, sfugge a qualsiasi classificazione e trascende i generi, apportando eleganza, stile e voyeurismo nella fotografia di moda, esprimendo bellezza e glamour e realizzando un corpus fotografico che continua a essere inimitabile e ineguagliabile»,spiega Harder.

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Anita Ekberg
june newton
June Newton

Tramite il suo obiettivo, capace di donare una patina di perfezione e soprattutto desiderio a ogni soggetto, Newton invita l’osservatore a spiare il mondo. Gli presta i suoi occhi. Lo rende partecipe di momenti unici. E personalissime intuizioni. «Helmut è un gran manipolatore per June Newton – Sa esattamente quello che vuole ed è implacabile nel cercare di ottenerlo sulla pellicola. Gli piace la teatralità della fotografia. Le modelle diventano le sue creature, i suoi personaggi». Così, nei suoi scatti di moda, l’eleganza algida di alcune modelle è distacco studiato ad accendere le fantasie.

catherine deneuve by helmut newton copia

I ritratti dei personaggi noti, invece, si fanno paradossalmente più vicini. Davanti al suo obiettivo, Marlene Dietrich è il mito incarnato. Andy Warhol è il dio umanizzato, ritratto dormiente, come morto. In questo chiaroscuro di personaggi composti o scomposti ad arte, Newton racconta il 900, tra aspirazioni, fantasie e modelli. Ecco allora Gianni Agnelli, Paloma Picasso, Catherine Deneuve, Anita Ekberg, Claudia Schiffer, Debra Winger. Ed ecco anche i servizi per le grandi Maison, da Mario Valentino a Thierry Mugler. Poi, i nudi. Non sono solo immagini, ma icone del secolo, strumenti per indagarlo, documenti per raccontarlo. Elementi di narrazione del suo immaginario e spunti di costruzione di quello collettivo. «Non m’interessa il buon gusto. affermava – Mi piace essere l’enfant terrible».

Articolo di Valeria Arnaldi per “il Messaggero”

Helmut Newton in mostra a Torino nel 2020. Un inizio d’anno in grande stile alla GAM di Torino con la mostra “HELMUT NEWTON. Works” a cura di Matthias Harder, curatore della Helmut Newton Foundation di Berlino, e organizzata da Civita Mostre Musei. FINO AL 3 MAGGIO.

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elizabeth taylor by helmut newton per vanity fair (1968)
helmut newton con jerry hall
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calendario del realizzato da Helmut Newton
calendario del realizzato da Helmut Newton
calendario del realizzato da Helmut Newton
HELMUT NEWTON FOTO INEDITE
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helmut newton saddle II
calendario del realizzato da Helmut Newton
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newton esercizi in spiaggia
calendario del realizzato da Helmut Newton
calendario del realizzato da Helmut Newton
calendario del realizzato da Helmut Newton
jerry hall helmut newton by david bailey
HELMUT NEWTON
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helmut newton con viviane f
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charlotte rampling
chez patou
le cadre noir de saumur
manichino in bilico per newton
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sedicesimo arrondissement
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iman by helmut newton per vogue us (1989)
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monica bellucci by helmut newton
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david bowie a montecarlo by helmut newton
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helmut newton per vogue 6
in my garage by helmut newton
anthony hopkins by helmut newton
david lynch e isabella rossellini by helmut newton
helmut newton montecarlo 1994
calendario pirelli 2014 by helmut newton
helmut newton per vogue francia 1971
cher by helmut newton in vogue 1974
OLOCAUSTICO

OLOCAUSTICO

Senza testimoni si perderà il ricordo della Shoah ? Da questo interrogativo parte Alberto Caviglia nel suo romanzo di esordio. Ma esso è ben posto, oppure più che il ricordo, che il tempo inevitabilmente sbiadisce, urge la necessità di ragionare e capire su come quegli orrori possano essere evitati da una umanità sballata e esausta?

Ho riso parecchio leggendo Olocaustico di Alberto Caviglia, pubblicato dalla casa editrice Giuntina. Ho riso tanto e sentendomi un po’ in colpa, perché probabilmente non si dovrebbe farlo leggendo di negazionismo e antisemitismo. Eppure qui succede e, alla fine, quel ridere è solo preludio di lacrime e sbuffi di disperazione verso un’umanità sballata ed esausta, che rotola sempre più nell’abisso del non ritorno.

Alberto Caviglia

Siamo in un mondo in cui a vincere il Premio Nobel per la medicina è l’inventore di un rimedio omeopatico contro il mal di testa. Un mondo in cui il Museo Ebraico di Berlino chiude nel totale disinteresse di tutti. Un’epoca in cui le fake news sono ormai diventate realtà, a forza di non essere controllate e smentite da esseri umani troppo pigri e ignoranti per farlo.

Negli ultimi anni i movimenti negazionisti si erano rafforzati in tutto il mondo, riuscendo grazie a un lungo lavoro di disinformazione a mettere in dubbio l’effettiva (e un tempo indiscutibile) portata storica della Shoah. Nonostante il loro numero fosse notevolmente diminuito, l’unico argine per contenere questa inquietante deriva era rappresentato solo dai pochi superstiti ancora in vita. I testimoni Infatti risultavano molto più persuasivi delle fotografie e degli atroci filmati sui campi di concentramento a cui la gente sembrava sempre meno interessata. Per questo lo Yad Vashem, per la prima volta nella sua storia, all’inizio del 2023 aveva avviato un’intensa campagna pubblicitaria invitando chiunque conoscesse un sopravvissuto che non avesse ancora rilasciato la sua intervista, a segnalarlo.

Questo è il mondo in cui vive David Piperno, giovane ebreo romano trapiantato a Tel Aviv con il sogno di diventare un regista famoso, magari girando La lucertola mutante, il film con protagonista una specie di Godzilla mediorientale, per cui ha attivato anche un crowdfunding che stenta a decollare.

Per sbarcare il lunario, David lavora per il Museo di Yad Vashem. Con l’amico Michael e una strampalata combriccola di tecnici si occupa di registrare i drammatici racconti dei sopravvissuti all’Olocausto.
Quei racconti che per anni il mondo ha considerato necessari alla conservazione della memoria e che ora sembrano diventati quasi del tutto inutili di fronte alle leggi emanate da alcuni governi, determinati a dimostrare la loro estraneità al massacro avvenuto durante la Seconda Guerra Mondiale.

Mentre il mondo fa dieci passi indietro rispetto l’esistenza della Shoah, il tempo si rende impietoso complice: l’ultimo dei sopravvissuti è appena morto, chi rimane ora a raccontare la realtà delle leggi razziali e dei campi di concentramento?

Ma il problema per David e la sua troupe è un altro.
Licenziati da Itai Blumenfeld, direttore del museo, costernato da quella morte e ormai rassegnato all’involuzione della coscienza collettiva, come riusciranno a campare?

Trovandosi di fronte a un bivio decisivo e capendo che la scelta che avrebbe preso in quel frangente avrebbe pesato per sempre sulla sua coscienza, Itai si alza allontanandosi da Assaf di qualche passo. Dopo aver dedicato l’intera vita alla ricerca della verità, ora, l’unico modo che aveva per proteggere se stesso e l’istituzione di cui era rappresentante era insabbiarla. Doveva mettere da parte l’intransigenza che come una naturale vocazione lo aveva sempre guidato verso la verità, o rimanere fedele ai suoi principi, sprofondando con essi in un abisso che non riusciva neanche immaginare quanto sarebbe stato profondo?

Fino a dove è giusto spingersi per i propri interessi? E può la stessa domanda avere risposta diversa, se gli interessi sono quelli di un popolo che è stato flagellato dal nazismo?

Alberto Caviglia ha scritto un romanzo distopico che dietro a irriverenza e ironia nasconde il coraggio di chi ha occhi ben aperti sul mondo e ne vede l’irrefrenabile declino. Un autore ardito, capace di trovare un nuovo linguaggio per raccontare senza retorica uno dei punti più bassi della storia dell’umanità.
Provocatorio, dissacrante, geniale in molti tratti – i dialoghi di David con i suoi amici immaginari Philip Roth e Itzhak Rabin, le fulminanti battute sui cliché e le grandi contraddizioni del popolo ebraico – Olocaustico è un libro che non passa inosservato, che diverte e angoscia, che semina decine di spunti di riflessione su complottismo e post verità e anche una gran voglia di chiudersi in casa aspettando la fine del mondo.
Perché di questo passo arriverà, e non sarà certo colpa di una grossa lucertola radioattiva. Un libro per chi ha proprio tanta voglia di una trama molto originale

https://www.youtube.com/watch?v=yxarvTN39_E

Articolo di Elena Giorgi In Leggiamo

Elena Giorgi è l’ideatrice e coordinatrice del gruppo di lettura Absolute Beginners dedicato agli scrittori esordienti, presso la libreria La Scatola Lilla di Milano (via Sannio 18 – linea gialla fermata MM Lodi T.I.B.B.). Gli incontri, che hanno cadenza mensile, hanno per argomento un libro scritto da un esordiente italiano e pubblicato da una casa editrice indipendente. Si precisa sul blog: “Un modo per scoprire insieme nuovi autori e case editrici non convenzionali, ma anche per avvicinarci ai processi di pubblicazione. Un gruppo per lettori particolarmente curiosi, che strizza l’occhio anche a chi ha un libro nel cassetto ma non sa da che parte iniziare.”

LAMPEDUSA, DALLE ACQUE CIRCONFUSA

LAMPEDUSA, DALLE ACQUE CIRCONFUSA

Uno scrigno d’orrori e autentica meraviglia

Viaggio nella maggiore delle Pelagie: una “meta a metà”, il cui destino è legato ineluttabilmente al mare che la circonda e la fa somigliare a una terra del mito

Nell’immaginario comune è l’isola dei migranti e “dei Conigli” – dal nome dell’isolotto su cui si affaccia la più scenografica delle sue cale – ma le bellezze più struggenti di Lampedusa sono forse quelle che si nascondono sotto la superficie, o semplicemente meno battute e più effimere

“Mollo tutto e scappo a Lampedusa”. Fra i souvenir in bella vista lungo un’affaccendata e mattutina via Roma, a catturare la mia attenzione è l’invitante scritta sulla t-shirt di una bancarella. Che pensiero felice! mi dico sognante, seduta al tavolino del più affollato bar sulla via principale dell’isola, mentre addento una brioche col tuppo inzuppata in una granita metà mandorla metà fragola.

Di lì a qualche ora, poco dopo il tramonto, la strada tornerà a popolarsi fitta di famigliole felici in vacanza, “passeggiatori” del Nord e d’Oltralpe, avventori di ristoranti di pesce e d’immancabili pianobar: luoghi dove le ballate di Battisti vanno e vengono. Una sera d’estate sì, e l’altra pure. Trascinate dal vento che qui, a Lampedusa, ha più nomi, direzioni e promesse di quanti se ne possano fantasticare altrove.

L’hotspot, le Ong, le “passerelle”. I sopralluoghi del Ministero dell’Interno e le Carola Rackete di turno che si spingono un po’ più in là, forzando i divieti. E ancora, la spiaggia più bella d’Europa, la sabbia bianca e finissima che nulla ha da invidiare alle cartoline caraibiche: nell’immaginario comune, Lampedusa è l’isola dei migranti e dei Conigli – dal nome dell’isolotto su cui si affaccia la più scenografica delle sue cale –, sebbene né degli uni né degli altri si trovi traccia percorrendo le strade e i sentieri (per lo più sbrindellati e sconnessi) che dipartono dal paesucolo in provincia di Agrigento.

Per qualcuno che fugge da qualcosa, c’è sempre un arrivo e, spesso, più di un ritorno. E poi, naturalmente, c’è la quotidianità di chi resta, i suoi “irriducibili” abitanti. Gente che si arrabatta fra le intemperie meteorologiche e metaforiche, su quest’isola pezzetto d’Africa – da cui s’è staccata milioni d’anni or sono – ma che amministrativamente è appendice dello Stivale.

La spiaggia dell’isola del Conigli, a Lampedusa

Fin dall’antichità, la maggiore delle Pelagie ha rappresentato un luogo sicuro, riparo nelle tempeste, dove rifocillarsi e rifornirsi di viveri, per migliaia di viaggiatori di etnia o religione diversa, peregrini o pirati; membri di fazioni nemiche pronti a fronteggiarsi in mare o su un campo di battaglia, ma mai a Lampedusa, che continuò a essere isola neutrale per secoli. Un porto franco dove si narra che un eremita avesse addirittura diviso in due una grotta naturale, destinandone una parte ai musulmani e una ai cristiani, e dove si era soliti lasciare un po’ di cibo, qualche indumento, attrezzature per naufraghi sfortunati. Fino a metà dell’Ottocento, quando i Borbone decisero la colonizzazione di Lampedusa e, allora, un gruppo di 120 persone provenienti da varie parti della Sicilia vi si stabilì in cerca di condizioni migliori, ognuna portando con sé i propri dialetti, usi e costumi, dando così vita a una piccola comunità multiculturale che andò assumendo una sua peculiare identità. Un’isola nell’isola.

Veduta di Lampedusa. Credit: Giovanni Giliberti

Oggi Lampedusa ha il suo aeroporto, la sua dose cadenzata di villeggianti e migranti. Ma è una sorta di meta a metà. Punto d’approdo, ma quasi mai ultimo arrivo per chi affronta i cosiddetti viaggi della speranza. Destinazione di un turismo per molti versi “alla bell’e meglio”, fra strutture storiche vista mare e altre improvvisate; fra lattonieri che s’inventano anche noleggiatori di scooter, e commercianti al dettaglio che all’occorrenza gestiscono due, tre, dieci appartamenti – meno della metà dei quali registrati su portali come Airbnb. Una terra che tiene insieme i residui di una genuina vita isolana, fatta di semplicità e sorrisi, e i tentativi, talvolta maldestri, di adeguamento alle logiche del turismo di massa. Che però, qui, ha annate buone e altre meno. A seconda che riprendano le crociere per il Mar Rosso, verso mete “più d’élite”, o che una sfilza di orribili naufragi riempia le prime pagine dei Tg nazionali.

Lampedusa isola dell’accoglienza, isola da mare e d’amare, ripetono gli slogan. Anche se i suoi abitanti, sulla carta circa seimila anime, non la pensano tutti allo stesso modo. “I riflettori si accendono e si spengono quando vogliono loro”, racconta un’esercente. “Ma quando le telecamere vanno via, siamo noi lampedusani a dover fronteggiare le emergenze. Noi a doverci sbracciare, a dispetto delle tante belle parole. Mentre i barchini fantasma continuano ad attraccare, di notte come di giorno”. A farle eco, un ex operatore dell’hotspot recentemente riaperto: “Le situazioni che si presentano tutt’oggi sono tra le più disparate, difficili da controllare e da gestire, non è tutto bianco o nero, come le narrazioni spesso semplificate ci propongono”.

A cambiare con incredibile rapidità sono i nomi di chi si avvicenda al governo, le gestioni dell’hotspot – e con esse anche il personale e i modus operandi (non sempre ortodossi) nel centro di prima accoglienza – ma non le situazioni che puntualmente si ripresentano, in questo paese di pescatori adattati anche a soccorritori, le mani tese – loro malgrado – a salvare bambini, donne e uomini annaspanti in un mare che strega e che inghiotte.

Lampedusa: Museo della fiducia e del dialogo per il Mediterraneo. Disegni delle torture subite dai migranti.

Il museo locale, aperto durante la bella stagione, ospita anche una sezione dedicata a chi prova a farcela e non sempre riesce. Con esposto ciò che resta di vite spezzate, oggetti che portavano con sé i migranti stipati all’inverosimile sulle imbarcazioni-trappola. Un olocausto 2.0 di cui è impossibile non sapere. C’è anche un video accessibile ai visitatori in una stanza buia: immagini che mostrano il recupero dei corpi in un relitto affondato e che hanno il potere di trascinare lo spettatore in apnea, per quello che pare un tempo lunghissimo. Pochi minuti, il tempo di un’immersione che pure avviene in quello stesso mare che ai vacanzieri “ignari” si mostra come uno scrigno di meraviglie. La variegata posidonia, i colori che non hanno eguali, le madonne di pietra adagiate sui fondali.

Perché le bellezze più struggenti dell’isola sono forse quelle sotto la superficie o semplicemente meno battute e più effimere. Le cale frequentate specialmente dagli autoctoni – come Cala Pisana, dove i bimbi lampedusani, molto lieti e poco pensosi, si divertono in tuffi acrobatici, o Mar Morto – dove lo snorkeling è un’esperienza impareggiabile. Come l’evocativa Sciatu Persu (“fiato perso”) o la pacifica Cala Galera.

Sciatu Persu (fiato perso) Lampedusa

E i tramonti sono forse lo spettacolo più bello di tutti, commoventi nell’unico sottofondo del vento che spira e delle onde che s’infrangono dolci sulla scogliera di Capo Ponente, sospesa tra cielo e mare, per raggiungere la quale ci si lascia alle spalle il paese, incespicando in un triste ammasso di relitti, abbandonando le vetture lungo le strade battute per inseguire sentieri popolati unicamente di grilli saltellanti.

Capo Ponente, Lampedusa. Credit: Giovanni Giliberti

A ricercarla tra le pagine della letteratura, si scoprirà che uno dei primi a citare l’isola fu nientemeno che l’Ariosto, nel suo Orlando Furioso: “Che s’abbia a ritrovar con numer pari/ di cavalieri armati in Lipadusa/un’isoletta è questa che dal mare/ medesimo che la cinge è circonfusa”. Un destino, quello dell’odierna Lampedusa (e dei suoi abitanti), che ancora oggi è ineluttabilmente legato al mare che la circonfonde. E che la fa somigliare a una terra del mito, a un’isola che non c’è, a un miraggio. Metafora di una Sicilia, di un’Italia, di un’Europa della quale si offre Porta, che si lascia attraversare e mai completamente afferrare.

Articolo di Valentina Barresi per la Voce di New York

Valentina Barresi è corrispondente dall’Italia per La Voce di New York. Giornalista dal 2008, s’interessa d’attualità, cultura, esteri e mafie. Vincitrice della 28esima edizione del premio “Mario Formenton”, ha scritto per la Repubblica, America 24, il Giornale, la Sicilia e ha collaborato con gli uffici stampa dell’Ambasciata d’Italia a Washington DC e di Oxfam Italia. Tra le città in cui ha vissuto, ci sono Palermo, New York, Roma, Milano, Lussemburgo. Peregrina per necessità o diletto, non ha ancora trovato il suo “centro di gravità permanente”, sebbene la Sicilia rimanga per lei l’ombelico del mondo.

IL RE MENDICANTE

IL RE MENDICANTE

emanuele severino

Professore, il 26 febbraio scorso ha compiuto novant’anni. È stato un modo per guardare più indietro o avanti?

Niente di particolare. Quasi ogni giorno il mio lavoro è guardare anche queste cose: guardare il tempo.

Quando scriveva di “eterno” e di “essere”, sua moglie Esterina le diceva: “Come vorrei che tutte le cose che pensi fossero vere”. Sono vere?

Sono vere. Ma a dirlo così le si immiserisce. E il dire è patetico. Bisognerebbe innanzitutto chiarire che cosa significa “vero”. Ed è il chiarimento più complesso.

Testimoniando il destino, il suo ultimo libro, è soprattutto la testimonianza di un lungo percorso di studio, della forza di un pensiero improntato a smascherare la follia. A che punto è la follia dell’Occidente?

emanuele severino e la moglie
Severino con la moglie da giovani

La Follia sta andando verso il suo punto più alto. Per arrivarvi ha ancora molto cammino da fare, ma è in cammino. D’altra parte il suo mostrarsi, nonostante tutto, è prezioso. Senza di essa, infatti, lo stare al di sopra di essa è impossibile. La Follia non è una povera cosa: è piena di intelligenza, di bellezza, di luce, e di potenza.

Ed è qualcosa di essenzialmente più radicale del peccato di Adamo. Ma anche questa mia risposta è, inevitabilmente, un balbettare. Quanto allo smascheramento della Follia, di cui lei parla, esso è qualcosa che ha incominciato a parlare, nei miei scritti, quasi sin dall’inizio. Potrei dire sin dalla metà degli anni cinquanta. Qui, certo, i miei novant’anni, mi fanno guardare soprattutto all’indietro, suscitando sentimenti contrastanti.

emanuele severino

Che cos’è la filosofia? Sono più i problemi che risolve o quelli che solleva?

Da che vive, l’uomo lotta contro la morte. Il primo grande Rimedio contro di essa è il mito, ossia il Racconto che garantisce la vittoria sulla morte. Ma a un certo punto l’uomo si accorge della debolezza di quella garanzia. Il mito è la semplice volontà che le cose stiano come esso vuole che stiano. La parola “filosofia” significa invece l’aver a cuore (phileín) ciò che sta in luce (saphés) e che quindi è affermato non perché è voluto, ma perché si impone da sé.

EMANUELE SEVERINO - RITORNARE A PARMENIDE

La grandezza della filosofia sta cioè nell’aver evocato l’idea di un sapere assolutamente innegabile, che né uomini o dèi possano smentire, né cambiamenti di luoghi e di epoche, e nemmeno un Dio onnipotente. Poi la filosofia ha inteso stabilire, lungo un processo durato più di due millenni, in che consista il contenuto di questo sapere, ed è questo processo ad aver condotto, e inevitabilmente, alla destinazione della tecnica al dominio assoluto del mondo, ossia al culmine della Follia a cui abbiamo prima accennato.

Ciò significa che sin dall’inizio la filosofia è rimasta accecata e che la destinazione della tecnica al dominio è il risultato di questo accecamento. La storia dell’Occidente e ormai del Pianeta (che è storia dei pensieri e delle opere) cresce all’interno dell’accecamento della filosofia. Ma, ripetiamo, senza questo accecamento sarebbe impossibile la limpida vista che guarda stando al di sopra di ogni cecità. (Non solo, ma al nostro tempo si addice anche che il lettore di questa intervista  – il lettore che di queste cose ha sentito poco – faccia presto a voltar pagina).

L’accecamento della filosofia – che pure è pieno di intelligenza, di bellezza, di luce, e di potenza – non sta nelle nuvole ma è ormai la terra in cui ormai l’umanità intera affonda le proprie radici.

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Martin Heidegger

Cesare Pavese ha scritto che “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”. Lei, pur avendo insegnato a Milano e a Venezia, non ha mai lasciato Brescia. Abita ancora nella casa dove arrivò, se non erro, che aveva soltanto quattro mesi. Che cosa vuol dire?

Forse vuol dire che, proprio perché in questa casa son quasi nato, ed è cresciuta con me, mi è sembrato innaturale staccarmene.

Chi è Martin Heidegger?

Martin Heidegger è un grande pensatore, il cui accecamento non ha però avuto la radicalità che esso ha in Nietzsche, Gentile, e innanzitutto in Leopardi. Ma lo dico non nel senso che egli riesca più di loro a guardare verso la Non-Follia, ma nel senso che meno di loro è coerente con le premesse (ossia con l’accecamento iniziale) che lui e loro hanno in comune. Fuori luogo, comunque, voler ridurre il pensiero di Heidegger ai rapporti col nazionalsocialismo e con la questione ebraica.

Che cosa può e/o che cosa deve l’uomo di fronte alla tecnica?

Gli uomini di potere (politico, economico, religioso, ecc.) continuano a dire al resto dell’umanità che cosa deve fare. È stato sempre così. Fin dall’inizio la filosofia sostiene che “fare” significa far essere le cose che ancora non sono e far non essere quelle che sono. Il che presuppone  che le cose siano di per sé disponibili a passare dal non essere all’essere e viceversa. Che cosa c’è di più “evidente” di tutto questo?

Non stiamo perdendo tempo a parlarne? (Ma – la domanda è retorica – l’accecamento di cui prima ho parlato non sarà proprio questa che tutti considerano un’ovvia “evidenza”?). La Non-Follia non dice che cosa si deve fare, ma che cosa gli uomini sono destinati a volere. E l’uomo del nostro tempo è destinato ad abbandonare sempre più i valori e i costumi della tradizione e a presentarsi sempre più come un funzionario della tecnica.

Ma può diventarlo solo se, insieme, diventa funzionario del pensiero filosofico che negli ultimi due secoli ha mostrato l’impossibilità di ogni Realtà immutabile che regoli, domini, produca la realtà diveniente, dove le cose oscillano appunto tra l’essere e il non essere. In seguito è destinato a venire il tempo in cui all’uomo si apriranno gli occhi e vedrà la Follia del mondo in cui vive. Non potrà smettere di voler trasformare le cose, ma vedrà l’alienazione di questa volontà, e vedendola egli sarà già un diverso modo di esser uomo.

C’è una responsabilità che imputa alla Chiesa cattolica?

Anche la Chiesa cattolica, anche il cristianesimo, l’ebraismo, l’islamismo appartengono alla storia dell’Occidente. “Responsabile” non significa esser qualcosa che si sarebbe potuto non essere, ma esser destinati a essere ciò che si è.

L’uomo, dice lei, è un re che si crede mendicante. Non ritiene che il politico sia un mendicante che si crede re? Che cosa vede nel tramonto della politica?

Ma la regalità che il politico e in generale l’uomo potente credono di avere non è la regalità autentica che compete all’uomo in quanto eternamente sovrastante la Follia.

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Papa Francesco

Il suo libro più importante è La struttura originaria. È anche quello a cui tiene di più?

Il mio libro è l’insieme dei miei libri.

Quale sarà il prossimo?

È un periodo di riflessione. Sto prendendo appunti sui pensieri che si affacciano.

Lei ha dato la vita alla filosofia o il contrario? (Glielo chiedo perché molti giornalisti dicono di aver dato la vita al giornalismo, invece è il giornalismo ad averne data una loro…).

“Dar vita” significa far essere qualcosa. Se ci ricordiamo di quel che ho detto sull’accecamento del far essere, allora la limpida vista mostra che la filosofia non ha dato vita a me e tanto meno io a lei.

Qual è il filosofo dal quale non può prescindere la filosofia?

Hegel diceva che la filosofia è un organismo. E da un organismo si potrebbe prescindere dal cuore, dai polmoni, dalle gambe, dalle braccia? (Questo, anche se  Hegel nella filosofia non poteva vedere altro che ciò che nello sguardo della Non-Follia si mostra come la Follia).

EMANUELE SEVERINO LA STRUTTURA ORIGINARIA

C’è un filosofo vivente che legge con maggiore attenzione?

Leggerei con maggiore attenzione quelli che con maggior coerenza e radicalità camminassero al seguito della Follia – i seguaci del grande Errare (che essi intenderebbero non come l’Errare ma come l’unica verità possibile). Ma tra i viventi ne vedo assai pochi.

Qual è il collegamento, se c’è, tra musica e filosofia?

In una delle mie prime risposte ho accennato al rapporto tra il mito e la filosofia. Nel tempo del mito la festa è il luogo in cui, del mito, viene celebrata la potenza salvifica. La celebrazione si manifesta nel grido, nella voce  dei celebranti; ed è la musica delle origini. Gridano l’esultanza per il loro esser riusciti a vivere e diventare padroni della loro vita: hanno vinto le potenze demonico-divine che lo impedivano, ma insieme tentano di placarle per l’ingiustizia commessa nei loro confronti.

Aldo-Masullo
Aldo Masullo

Nel più antico testo filosofico che conosciamo – il frammento di Anassimandro – si dice appunto che le cose e gli uomini, morendo, ritornano là, tra le potenze supreme dalle quali si son voluti separare, e  pagano così il fio per l’”ingiustizia” (adikía) compiuta staccandosi da esse. Espiano la colpa, ma salvandosi dalla morte annientante. La tradizione filosofica dell’Occidente si manterrà all’interno di questa visione.

Poi, negli ultimi due secoli la filosofia mostrerà che non esiste alcuna potenza suprema al di sopra del divenire del mondo. Lo si dirà in vari modi anche in tutti gli altri campi del sapere. La musica lo dice con l’atonalismo, che è il rifiuto di considerare il “tonale” come la regola e quindi come la potenza suprema nel campo dei suoni.

Dove sta andando l’Europa?

Sta andando verso nuove e più ampie forme di aggregazione. Già trent’anni fa scrivevo che l’Europa è nata vecchia. La tecnica è destinata a scompaginare ogni forma di aggregazione – vecchia o nuova –  che non abbia come scopo lo scopo della tecnica, cioè l’incremento indefinito della potenza.

Ha detto che la democrazia è una fede. E la fede?

La fede è la contraddizione in cui si vuole che sia verità indiscutibile ciò che non lo è.

Aldo Masullo, a 96 anni, ha detto che vive con dispetto il dover andarsene senza aver capito chi è Aldo Masullo. Lei ha capito chi è Emanuele Severino?

Gli individui sono ciò che nell’uomo è il mendicante. Ci sono vari, infiniti modi di essere individui e mendicanti. È la morte a far capire a ognuno in che modo egli è mendicante.

giacomo leopardi sul letto di morte
Giacomo Leopardi sul letto di morte

Che cos’è la morte?

La morte, da un lato, è il riapparire di tutti gli eterni (ogni cosa è un eterno) che sono scomparsi, dall’altro lato è il comparire degli eterni che liberano da tutte le contraddizioni della Follia. Eterne anch’esse, peraltro, perché se si annientassero il “Non” della Non-Follia resterebbe senza ciò che esso nega e quindi non ne sarebbe più la negazione. La morte è l’apparire della Gioia.

Ha già disposto di voler morire in casa, da solo. Cremato. Perché?

La cremazione consente di far mettere le proprie ceneri all’interno della tomba che custodisce i resti di chi abbiamo amato. Ma c’è molta esagerazione nel culto  funerario. I cadaveri sono soltanto l’ultima forma che il corpo umano presenta. L’ultima di una serie infinita di forme eterne, spesso splendenti: da quelle che ci competono appena nati, un po’ cresciuti, ancora più cresciuti, ragazzi, adulti, anziani. Per ora queste forme sono scomparse e soltanto i cadaveri si fanno vedere; ma poi, come dicevo prima, anche queste forme sono destinate a riapparire – nella Gioia.

Ma, mi lasci dire, se si intervista un fisico sulla teoria della relatività, egli non può mostrare, nell’intervista, i fondamenti di tale teoria. Che dunque si presenta come un dogma, o peggio. Qualche secolo prima Copernico e Galileo erano considerati dei pazzi dalla gente. A maggior ragione ciò accade quando l’intervista riguarda la filosofia. E ancora di più quando si è invitati a parlare di ciò che in noi sta eternamente al di sopra della Follia. Le risposte sembrano i sogni di un visionario.

Intervista a cura di Davide D’Alessandro per www.ilfoglio.it (7 aprile 2019)

RONALDO

RONALDO

Nella sua Storia intima di un mito globale dedicata a CR7 per 66thand2nd, Fabrizio Gabrielli analizza il nostro rapporto con gli eroi dello sport, oltre a uno degli atleti più interessanti e controversi del XXI secolo.

Una piscina a sfioro piastrellata con tesserine da mosaico rosse che ricordano il corallo. Una facciata di cemento brutalista misto ad acciaio e vetro, dentro cui si riflette il paesaggio di montagne e case bianche di Funchal, capitale dell’arcipelago di Madeira. È questa la prima immagine che ci si trova davanti cercando online il Pestana CR7 Funchal Lifestyle Hotel, un albergo a 4 stelle da 76 euro a notte («Il prezzo più basso dei prossimi 30 giorni», promette la promozione prenatalizia sul sito).

Territorio portoghese al largo delle coste marocchine: è da qui – dalle origini – che parte la ricerca di Fabrizio Gabrielli, giornalista e vice direttore della rivista «l’Ultimo Uomo», per il suo Cristiano Ronaldo. Storia intima di un mito globale, edito da 66thand2nd (pp. 240 – € 17,00). Il luogo infatti – che per chi ha trascorsi poetici ricorda il bicchierino e l’annesso contorno di aragostine di Montale – è noto oggi, più che per il liquore che vi si produce, per l’aver dato i natali a Cristiano Ronaldo. Il quale, nella costante operazione di branding di sé stesso, ha costruito qui un albergo ispirato al culto di sé, in collaborazione con l’imprenditore Dionisio Pestana, amministratore delegato di una holding del settore turistico di lusso portoghese.

Annesso all’albergo, a completare la dimensione di celebrazione del mito, il CR7 Museu, davanti al quale si trova una statua di bronzo del calciatore che «ha delle macchie più chiare, quasi dorate, all’altezza delle mani e del pube, le parti più provate dall’usura, dallo sfregamento», racconta Gabrielli nel prologo. Qui sono contenute le prime tracce di un mito dentro cui Fabrizio Gabrielli ci fa immergere, con un racconto poliedrico di un uomo che ha fatto di tutto per trasportare sé stesso in una dimensione diversa da quella dell’umano. E nell’analisi del culto, molto emerge di noi e dei nostri tempi.

«De summo illo deo, qui scitur melius nesciendo»

La massima di Sant’Agostino sulla teologia negativa, in base alla quale dio si può descrivere solo per ciò che non è, mi sembra il miglior riferimento per parlare di un volume che ambisce a raccontare uno sportivo di caratura planetaria, controverso, odioso e stizzoso, polarizzante. Uno di fronte al quale, per via delle sue molteplici sfaccettature che trascendono il solo fenomeno sportivo, semplicemente non è facile restare indifferenti. Fabrizio Gabrielli fa una scelta chiara, al principio di questo libro: parlare di Cristiano Ronaldo come di una divinità. Bibbia, mitologia, vite dei santi: anche nei riferimenti agli strumenti narrativi il contesto teologico viene sempre esplicitato e rafforzato (come fa pure l’immagine cristologica in copertina). Nel rapporto con il concetto di divino che tutti abbiamo, Gabrielli individua la chiave di lettura di un personaggio ineffabile. Cosa sono infatti i campioni per noi se non eroi, semidei, divinità tonitruanti? Raccontarli è possibile, descriverli no. E allora lui sceglie di spostare il focus a tratti su di sé (scelta che funziona, ma non sempre al meglio) e soprattutto su di noi (e qui dà il suo meglio, com’è normale che accada per un bravissimo giornalista con piglio da narratore).

Sul lato del sé Gabrielli sceglie come espediente narrativo quello di intervallare la propria ricerca rivolgendosi alla divinità Ronaldo, alternando nel discorso diretto un piglio interlocutorio con uno indagatorio. Parla pertanto al mito da lontano – come sempre si parla alla divinità – ma non come uno che ne celebri i riti, piuttosto con lo scetticismo dell’ateo, o al massimo del laico. Mostra il tentativo di ricercare un’intimità, una relazione di pensiero. Ma che Cristiano Ronaldo non gli piaccia è chiaro da principio (e che questo libro sia una sfida con cui l’autore ha deciso di spostarsi in un territorio a lui meno congeniale è rivelato con onestà in una iniziale captatio benevolentiae). Stare fuori da quella che Gabrielli chiama «comfort zone» gli crea alle volte degli impacci, che al lettore arrivano, ma si percepiscono in questo libro anche un coraggio e un’onestà che sono l’humus su cui poi il testo sboccia. È uno scioglimento che avviene dopo la presentazione di un personaggio chiave, secondo me: lo scultore autodidatta Emanuel Santos, quello deriso per lo strambo busto di Cristiano Ronaldo rivelato nel 2017 quando l’aeroporto di Madeira venne intitolato al calciatore. Un personaggio specchio di Gabrielli, uno che come e prima di lui ha tentato di descrivere il mito guardando all’impressione che esso ha su di noi, mirando alla sua interiorità, piuttosto che alla vulgata perfetta della sua immagine in cui tutti più facilmente saremmo pronti ad accomodarci.

La previsione come principale caratteristica del dio. Dal minuto 20:14

Da qui in poi il libro prosegue serrato per capitoli in cui si dipana la successione delle esperienze biografiche di Cristiano Ronaldo: la famiglia d’origine, i primordi a Lisbona nello Sporting Clube de Portugal, il Manchester di Alex Ferguson. Questa successione rimane sempre intrecciata con la storia della sua trasformazione in uomo-macchina e nel marchio CR7; da calciatore in mito. Com’è chiaro per una divinità, tutto è già scritto in principio, e quindi ogni cosa si rivela in segni premonitori visibili a chi sa leggerli. E quindi la famiglia che si è letteralmente “costruito”, il rapporto con il procuratore Jorge Mendes e il preparatore René Meulensteen, gli incontri imprenditoriali e la consacrazione con il passaggio al Real Madrid. Tutto fin verso l’analisi dei tempi più recenti, con il passaggio alla Juventus come «opportunità di business» e l’emersione delle storie più controverse di Ronaldo, ovvero l’evasione fiscale in Spagna e le accuse di stupro da parte dell’ex attrice e modella Kathryn Mayorga, messe a tacere con un accordo-extragiudiziale.

È in questo tessere la ricostruzione biografica con l’analisi intima del campione che Gabrielli riesce in quella che, secondo me, è l’operazione più interessante del libro: spostare di continuo l’asse su un’analisi sociale, che va a coinvolgere la fenomenologia della rete e la costruzione della relazione con il pubblico. Il calcio di Ronaldo, instillato nel sistema comunicativo del XXI secolo, va analizzato per quello che dice del pubblico, del suo rapporto con l’eroe. Ecco allora che il volume di Gabrielli spazia nella filosofia, nella sociologia, nel marketing, ma senza mai assumere i toni di queste discipline. Rimane una narrazione che non cerca nemmeno la magniloquenza, ma è ben condotta da chi è dotato di sguardo divertito ed estremamente intelligente, capace di cogliere uno spirito dei tempi. Lo stesso spirito che è sintetizzato da un sistema di sharing economy come Airbnb (a proposito di luoghi dell’accoglienza), che non solo sta trasformando il tessuto economico e sociale delle città in cui si è diffuso, ma ha preso a filtrare le permanenze delle persone nei luoghi attraverso quelle scatole presettate che sono le experiences («Discover local things to do», recita il sito). Una nuova dimensione normativa del viaggio che Gabrielli ritrova in CR7, ponendo e ponendoci qualche domanda. «Non è affascinante il totalitarismo dell’idea di calcio di Ronaldo? La sua presunta e autoproclamata infallibilità? Il punto a cui voglio arrivare», scrive «è che se esiste una rappresentazione genuina di cosa sia il calcio nel Ventunesimo secolo questa è ciò che ci restituisce non tanto il personaggio, ma l’esperienza Cristiano Ronaldo. Non sarà sufficiente per definirlo il più forte, ma basta per proclamarlo il più interessante». Il dibattito è ancora aperto, e questo libro si candida a fungere da utilissimo strumento di valutazione e orientamento.

di Vittorio Martone per il sito http://www.leparoleelecose.it/

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