UNA IMPERCETTIBILE ATMOSFERA DI SOGNO

UNA IMPERCETTIBILE ATMOSFERA DI SOGNO

gian arturo ferrari

Resto un po’ sorpreso nell’ apprendere che Gian Arturo Ferrari ha fatto il suo esordio nella narrativa. L’ uomo che per un paio di decenni ha inciso in modo determinante sul mondo editoriale, che ha trattato con scrittori, saggisti, intellettuali, decidendone spesso le sorti, che ha saputo stare sul mercato del libro con la durezza che si addice ai grandi manager (capisco che la parola può suscitare qualche imbarazzo) è passato dall’ altra parte della barricata. La domanda ovvia è: chi glielo ha fatto fare? Poi però – dopo aver letto Il ragazzo italiano (il suo romanzo edito da Feltrinelli) – capisci che c’ è qualcosa di più di una ipotetica vanità che porta a strafare e magari a schiantarsi sul muro della critica.

O a non sapere se, nel dubbio, chi legge giudicherà lo scrittore o il manager, l’ uomo con i suoi tormenti o il professionista con le sue certezze. C’ è un punto segreto, indicibile, che Ferrari ha inteso toccare e restituire sotto forma di memoria, ragione e sentimento. E allora forse vale la pena farsi raccontare chi si nasconde dietro le sembianze di un protagonista, un figlio della guerra che in famiglia chiamano Ninni e che, con qualche variazione sentimentale, è niente altro che Gian Arturo.

Riprendo la domanda: chi te lo ha fatto fare?

«Ti rispondo: giudica il libro, non il gesto o il desiderio che lo ha determinato».

D’ accordo, ma il tuo non è un esordio qualunque e non ti sei neanche nascosto dietro uno pseudonimo.

gian arturo ferrari

«So perfettamente i rischi che corro. Ma la domanda è un’ altra: cosa volevo raccontare e per chi?».

Aggiungo: perché?

«Il perché è abbastanza semplice: c’ era una storia, la mia, che avevo l’ ambizione di raccontare andando oltre i fatterelli privati. Ho rovistato in un’ epoca che ho visto con i miei occhi e che considero un mondo perduto».

Ti riferisci al periodo della guerra?

«Ho 76 anni e ne sono il frutto. Ora tutti dicono che dopo la tragedia ci fu la rinascita dell’ Italia. In parte è vero. Ma si dimentica di entrare nei dettagli che illuminano una storia diversa: fatta di durezze, viltà, illusioni, violenze e, ovviamente, dell’ aspra generosità dei protagonisti. Non puoi farti un’ idea di un film dai titoli di coda. Ho provato a raccontare un pezzo di storia che è mia e non è mia e che è all’ origine di ciò che siamo diventati. Con un’ avvertenza».

Quale?

«Ci siamo concentrati sul famoso miracolo italiano, molto meno su come quel miracolo è stato ottenuto. Nessuno oggi ricorda quanto siano stati duri quegli anni del dopoguerra. Faticosi e perfino umilianti per chi ne ha preso parte».

Potevi limitarti a scrivere un saggio di storia, ma hai scelto il romanzo.

«Provengo dal mondo delle descrizioni oggettive. Laurea in lettere classiche specializzazione in Storia della Scienza. Non mi sarebbe costato nulla dedicarmi a uno scavo sociologico e storico sugli anni del dopoguerra. Ma non era ciò che volevo. L’ urgenza era mettere in connessione la parte più intima di me, diciamo pure la mia storia privata, con la storia collettiva, con le emozioni che hanno segnato un certo periodo della nostra storia. E per tentare di farlo c’ era solo la forma del romanzo».

“Ragazzo italiano” racconta la storia di un bambino che da un piccolo e provincialissimo paese si trasferirà con tutta la famiglia a Milano. Una vicenda apparentemente di emigrazione, ma in realtà è come se tu descrivessi il passaggio da un mondo a un altro. Il protagonista è il piccolo Ninni, quanto in lui c’ è di te?

«Abbastanza. Tutta la storia che narro ha elementi di verità personale. Ma se fosse solo questo non interesserebbe a nessuno».

Però ti sei spinto molto avanti nella confessione. Ninni, per esempio, è affetto da balbuzie.

«Anch’ io ne ho sofferto e credo in una forma che ha determinato una certa infelicità adolescenziale».

Quando dici infelicità pensi al rapporto con l’ ambiente in cui vivevi?

«Alla scuola, agli amici, a mio padre».

Nel romanzo tuo padre non esce benissimo. Lo vivi come una specie di involontario persecutore.

gian arturo ferrari

«Non so quanto involontario. Figura complessa.

Frustrata dal fatto di non aver potuto studiare, non per libera scelta ma perché il nonno non glielo consentì».

Perché?

«Se ne fregò dei figli, si disinteressò completamente del loro futuro. Era un personaggio strano, il nonno: socialista, laico, antifascista, minacciato e picchiato dai fascisti, non ricco ma dotato di piccole capacità imprenditoriali, lasciò inselvatichire il campo della figliolanza. Mio padre non glielo perdonò, attribuendo al comportamento astratto la causa delle sue frustrazioni. E tuttavia dei cinque fratelli fu il solo a seguire il credo socialista del padre».

Quando dici frustrazioni a cosa pensi?

«Al senso di impotenza velato da vaghe ambizioni.

Segnato da una malattia avuta da giovane che il babbo ogni tanto raccontava. La malattia, almeno negli anni Quaranta, era vissuta come una sorta di sospensione del tempo biologico e sociale. Ogni famiglia o quasi aveva un proprio malato – un nonno, uno zio, un fratello – che si allettava in autunno e riemergeva faticosamente con la primavera. Animali in letargo che si risvegliavano lentamente e si aggiravano come fantasmi nei mesi successivi. Mio padre non apparteneva a questa categoria di perdenti ma si era creato una specie di fortilizio da cui osservare il mondo e me, me che ai suoi occhi ero la prova dei suoi fallimenti».

Avevi davvero questa certezza?

«Non era mai riuscito ad accettare la mia balbuzie che la nonna e la mamma vedevano invece come un motivo in più per volermi bene. Quando, giovanissimo, rovistando tra i libri che avevano fatto sognare mia madre e aggirandomi nella biblioteca dello zio, scoprii le virtù della lettura, quando gli stessi professori si accorsero di una certa predisposizione letteraria, mio padre restò allibito. Era come se per lui quell’ unica predisposizione confermasse la mia inettitudine».

gian arturo ferrari

Nel romanzo riporti l’ episodio di un meccano che ti viene regalato e che non riesci a rimontare.

«Mai, probabilmente, un dono si trasformò in una così cocente disfatta. Ricordo che un cugino – con problemi di relazione dovuti a una grave sordità – si avvicinò al meccano e in poco tempo montò una magnifica gru. Lessi negli occhi di mio padre l’ ammirazione per quel bambino e la delusione nei miei riguardi. Fu in quell’ istante che mi sentii un inetto. Un ragazzino privo di attitudini pratiche».

Cominciavi a misurare la distanza da tuo padre.

«Era lui che la misurava da me. Le sue attitudini – cantare, avere una bella calligrafia, dipingere, applicarsi al concreto – non erano le mie. Vivevamo su due pianeti separati».

La Milano nella quale cresci è però una città ricchissima di stimoli.

eugenio montale
Eugenio Montale

«A un certo punto la famiglia decollò. Si pagarono i debiti, il lavoro paterno ingranò. Papà acquistò una Millecento e poi un Telefunken di 21 pollici: un televisore rinchiuso in una cassa di mogano, vero e proprio moloch al quale avvicinarsi con curiosità e soggezione. Nelle serate davanti al Musichiere (una trasmissione di grandissimo successo) sembravamo indigeni prostrati davanti a una divinità che ci parlava».

Nella tua formazione c’ è il liceo Berchet e la progressiva scoperta della politica. Descrivi la figura di un prete le cui sembianze rinviano a Don Giussani. Che ricordo hai di lui?

«Era avvolto da un carisma che non riuscivo a spiegarmi. Non c’ era ancora Comunione e Liberazione ma la Gioventù Studentesca. Che devo dirti? Non mi convinceva l’ idea della fusione completa in Gesù Cristo. Sentivo che sotto a questi atteggiamenti c’ era un che di artificioso. Don Giussani, che allora non sapeva cosa sarebbe diventato – era solo un prete quarantenne – cercava di trasmettere a noi studenti una fede ardente, assoluta. Non lo faceva appellandosi alla dottrina, ai canoni di una chiesa che sentiva minacciata dalla modernità. Lo faceva interpellando i cuori, coinvolgendo le nostre esistenze».

Per dei quindicenni poteva essere una suggestione fortissima.

«Per molti lo fu, non per me. Il richiamo a una sorta di militanza o di apostolato nascondeva il rischio del fanatismo. Finii il liceo nel 1963 e fu come un cambio di passo. Favorito anche dall’ incontro con scrittori e poeti che io e un ristretto gruppo di studenti cercavamo di contattare per il giornale scolastico».

Racconti l’ incontro con Eugenio Montale.

«Adoravo le sue poesie. Gli chiedemmo un’ intervista.

Accettò. Ci ricevette in un salottino della redazione del Corriere della Sera dove lavorava. Ci venne incontro un uomo grassoccio, avvoltolato in un cappottone peloso. Quell’ immagine così prosaica contrastava con la bellezza dei suoi versi. Non volle parlare di poesia. Anzi fu lui a farci domande con la curiosità di un entomologo davanti a degli insetti. Mi sentii a disagio.

MONTALE - QUASIMODO - UNGARETTI
Montale, Quasimodo, Ungaretti

Gli chiesi perché un poeta con il suo prestigio sentisse il bisogno di lavorare per un giornale. Volevo provocarlo. Ci guardò con durezza. Vedrete, disse ironico, che ne riparleremo tra qualche anno quando magari, dopo esservi laureati in lettere, verrete a cercare proprio qui un lavoro. Non aveva nessuna fiducia nelle capacità di un poeta di potersi mantenere con i propri versi».

Fu una lezione di concretezza.

«Tenuta da un poeta era un po’ strano. Ma servì per crescere. Stavo uscendo dalla lunga adolescenza: l’ università, l’ attenzione alla politica, gli amori, la guarigione».

Ti riferisci alla balbuzie?

«Sì, accadde nel corso di un’ assemblea studentesca. Presi la parola. Nessuno si aspettava, a causa del mio difetto, che avrei potuto farlo. Invece parlai in modo argomentato e fluente. Fu come se in quel momento fosse finita la lunga adolescenza di un ragazzo».

Diventasti improvvisamente grande. Ma che cosa ha significato quel passaggio?

DON GIUSSANI
Don Luigi Giussani

«Forse prendere coscienza di una certa normalità. Il mio lavoro nell’ editoria – alla Boringhieri, in Rizzoli, in Mondadori – ha significato uscire dalle illusioni. Ricordo che quando vidi il film Il gigante mi innamorai perdutamente di Elizabeth Taylor. Quell’ illusione fece sbiadire il ricordo della fine di un amore vero. Per poi lasciar spazio a un nuovo legame. Quell’ impercettibile atmosfera di sogno ha accompagnato la mia infanzia, è stata il solo antidoto all’ infelicità. Ma non puoi vivere nutrendoti soltanto di questo».

Hai avuto bisogno di un romanzo per rimettere insieme i due mondi: quello dell’ intimità e della confessione e l’ altro fatto di impegni, di scadenze, di strategie e logiche stringenti?

DON GIUSSANI

«Forse sì, anzi sicuramente è stata la molla. Ma è pur vero che non ho un animo da specialista e ho voluto raccontare tutto quello che ho vissuto negli anni della formazione. È stato come cancellare la linea d’ ombra che per tanto tempo mi ha accompagnato. La mia prima moglie diceva che la mia vita era composta di tanti cassettini e che non permettevo che venissero confusi o mescolati. Ecco, per la prima volta li ho aperti tutti o quasi, come fossero un solo grande baule.

Ho accostato cose e sensazioni senza però confonderle. In un certo senso per molto tempo ho vissuto come una persona squartata, divisa. E poi ho voluto vedere come funzionava una storia tradotta in scrittura. Il romanzo ha rimesso a posto molte cose».

Il finale – un giovanile viaggio in Grecia con una ragazza che non rivedrai mai più – sembra concedere qualcosa alla nostalgia.

«No, ti sbagli. Ho evitato certi facili sentimentalismi. Quello che ho vissuto si è limpidamente depositato nella mia memoria. Da qui ho attinto a volte con angoscia, altre più serenamente. Sono stato anche quella roba lì, certo. Ma non volevo ridurmi all’ autoritratto più o meno indulgente. C’ erano conti in sospeso e ferite ancora aperte. La scrittura ha funzionato come farmaco, spero».

Antonio Gnoli per “la Repubblica – Robinson”

SI VIVE UNA SOLA VOLTA

SI VIVE UNA SOLA VOLTA

Un mestiere in cui smetti di appartenerti e spendi tutto quello che hai per il produttore, per il film e per il pubblico. Si vive una volta sola è una storia di amicizia e quando mi sono trovato a scrivere con Giovanni Veronesi ho pensato soprattutto a loro. Agli amici perduti. Ai rapporti che quando avevo vent’anni credevo fossero indissolubili. Eterni.

Verdone col cast del film Si vive una sola volta

Tutti i battiti del suo cuore: «Da bradicardico, se stiamo ai freddi numeri, ho cinquanta pulsazioni al minuto. Ma ai tempi dei sudori improvvisi, dei giramenti di testa, dei formicolii sul labbro e dei frangenti in cui mi sembrava di morire da un momento all’altro, ne avevo 160». Era l’epoca dei primi successi: «In cui io, riservato, introverso e un po’ malinconico ero stato lanciato come un sasso da una mazzafionda al solo scopo di invitare tutti alla leggerezza e provocare la risata negli altri.

Compito terribile, al quale non ero preparato e una forma di violenza che mi costrinse, da peggior nemico di me stesso, a mettere in discussione il mio carattere». Per farsi forza, sostiene Carlo Verdone «ricorrevo a una frase che mi ripeteva sempre mia madre. “Si vive una volta sola” diceva e aveva ragione». Nel suo ventisettesimo film che recupera nel titolo il precetto materno e mette al centro della scena quattro persone incapaci di trovare fuori da corsie e operazioni una ricetta utile a guarire da insicurezze e nevrosi, Verdone, medico mancato, si traveste da dottore e guardandosi indietro si scopre diverso da ieri: «Potrei dire migliore».

Formuli una diagnosi.

«Oggi affronto ostacoli che non mi sarei mai immaginato di superare a trent’anni. E dalla maggior parte dei miei problemi sono guarito».

Che problemi erano?

«Per un timido la vita non è una passeggiata. Crede che fosse facile dover rispondere alle aspettative della gente o essere riconosciuti per strada da un giorno all’altro? Non sapevano neanche come mi chiamassi. “Lei è quello dei due cervi? Quello che alza gli occhi al cielo in tv?”».

La popolarità gliela restituì Non Stop di Enzo Trapani.

«Enzo, teorico dell’improvvisazione selvaggia, ci sequestrò per tre mesi a Torino in pieno inverno. Aveva facoltà di girare anche il sabato e io a Roma non riuscivo a tornare mai. Prima di andare in scena e dare sfogo ai miei sketch attraversavo atroci tormenti». 

Che tipo di tormenti?

«Farò ridere? Parlerò bene? Risulterò simpatico? I miei colleghi d’avventura erano sciolti, disinvolti, tranquilli. Io passavo una notte in bianco dopo l’altra e riproponevo un repertorio che avevo sperimentato soltanto nei teatrini off».

Andò bene.

«Ma la televisione mi cambiò la vita e la popolarità rappresentò una tempesta interiore. Mi tremavano le gambe. Ero bloccato. Fragile. L’ansia mi divorava».

Come ne uscì?

«Grazie a Piero Bellanova, uno dei più autorevoli psicanalisti italiani. Con mio padre, di cui era amico, condivideva la passione per il futurismo e accettò di incontrarmi un paio di volte alla settimana. Andò subito al punto: “Carlo, qui non c’è niente da analizzare”, disse. “Il tuo corpo reagisce a uno stravolgimento e i farmaci non servono a niente: ti devi adattare al destino che cambia e piano piano il quadro si addolcirà”».

Messa così sembrerebbe semplice.

«Avevo una 127 bianca. L’avevo acquistata a 27 anni, nel 1978, con i risparmi di Non Stop nonostante il dirigente Rai di allora, Bruno Gambarotta, mi avesse vivamente sconsigliato di farlo: “Li spenda meglio i primi soldini che ha guadagnato, dell’auto non ha nessun bisogno, molto presto avrà chi la accompagnerà guidando al suo posto”».

I tempi non erano ancora maturi.

«All’epoca ero fidanzato con Gianna che sarebbe poi diventata mia moglie. Abitava a Vitinia, vicino a Ostia e io non andavo più a trovarla perché mi girava sempre più spesso la testa e avevo paura di svenire o di avere un infarto mentre guidavo. Lo raccontai a Bellanova e lui decise di sottopormi a delle sfide: “Dobbiamo andare alla radice del problema e devi metterti alla prova”».

In cosa consistevano le sfide di Bellanova?

«Non solo mi intimò di mettermi al volante, ma pretese di farmi allungare la strada passando per Ostia: “Prima di andarla a trovare arrivi sul lungomare, fai due giri della rotonda, respiri forte e poi riprendi il cammino”. Ostia a fine anni ’70 era più o meno il Bronx. “No professore” piagnucolai: “Ostia de notte no, la prego. Lei me vuò fa’ morì”. “Non morirai, ma se non farai come dico, da me non tornare proprio”.  Andai. La prima volta stipai le tasche di gettoni e arrivai a Ostia in condizioni pietose. Telefonai a Gianna: “Sto malissimo, per favore, vienimi a prendere”. Riaccadde la stessa cosa almeno quattro volte e alla fine, pur ridotto uno straccio, riuscii a tornare a casa da solo. Esanime, ma vivo. Bellanova aveva capito tutto».

Cosa aveva capito?

«Che i problemi non si aggirano. Devi combatterli e puoi anche vincere. Il difficile è esserne consapevoli. Da quel giorno comunque non ho avuto più un solo attacco di panico e invece di imbottirmi di farmaci ho imparato a conoscere meglio me stesso».

Chi è Carlo Verdone?

«Sotto tanti aspetti, un uomo molto fortunato. È successo tutto quello che sognavo potesse succedere. Però poi se rifletto, non è vero che non abbia avuto momenti di grande difficoltà. Quando mia madre si è ammalata di una sindrome neurologica rara e spietata per me furono quattro anni di merda. Era la persona a cui volevo più bene al mondo, la vedevo sfiorire e il solo guardarla mi faceva disperare. Era arrivata a pesare 39 chili.

Con la tristezza e il cuore rotto, dovevo continuare a far ridere e la scissione era brutale. Durante il giorno giravo Acqua e sapone e al tramonto tornavo da lei. Nuotare tra Natasha Hovey, la Sora Lella, Padre Spinetti e il dolore reale fu un’esperienza tremenda. Stavo perdendo mia madre e mi ricordo che faticavo a perdonarmi perché desideravo morisse il prima possibile. Non si poteva vedere una persona ridotta così. Non si poteva accettare di sapere che soffrisse così tanto». (Qui la voce di Verdone si incrina e si affaccia la commozione, ndr).

Momenti tristi.

«Fu triste anche il momento della separazione. Il giorno in cui io e Gianna andammo in tribunale per le pratiche mi presentai senza legale. Il giudice era sconvolto: “Ma lei non ha un avvocato?”. Implicitamente mi stava dicendo: “Guardi che sua moglie vincerà su tutta la linea”.

Lo anticipai: “Decida lei, per me non è cambiato niente”. Fu brutto, ma Gianna si dimostrò speciale. Accettai ogni decisione senza fiatare e poi alla fine della liturgia lei si avvicinò: “Che fai quest’estate? Parti? Hai programmi?”. Allargai le braccia. “Cosa vuoi che faccia?”. “Io vado in Sardegna con i bambini, se non hai niente da fare vieni, loro saranno contenti”. Aveva già prenotato una stanza perché sapeva che le avrei detto di sì. Fu una cosa molto bella». 

Perché finisce l’amore?

«Ah, vattelo a spiega’. Non lo so, dirlo è difficile. Non lo so, non lo so davvero. Il tempo gioca sicuramente la sua partita. Poi credo ci abbia messo un macigno la pesantezza del percorso che ho fatto e che sto tuttora facendo. Un mestiere in cui smetti di appartenerti e spendi tutto quello che hai per il produttore, per il film e per il pubblico.

Sposi loro. Sposi un lavoro. Sposi le aspettative. Sei sempre sotto esame, non sei libero e questo incide. Forse ero io a non riuscire più a dare tanto al rapporto o forse mi serviva la grande alleanza degli inizi. Fino a un certo punto resse, poi la distanza si allargò e probabilmente su certe cose non andavamo più d’accordo. Una consolazione però mi resta».

Quale?

«Pur nella tristezza della separazione io e Gianna siamo stati intelligenti. Ci siamo detti: “Va bene, non stiamo più insieme però facciamo sì che i nostri ragazzi non soffrano oltre misura”. Lo abbiamo fatto, credo e spero, nel migliore dei modi. Siamo stati uniti e assennati. I miei amici e le mie amiche che si sono separati sono ancora increduli: “Ma come ci siete riusciti? Io ho passato la vita a litigare, a far scrivere l’avvocato, a discutere di tutto e a litigare su ogni cosa”. Giulia e Paolo, i nostri figli, questa amarezza non l’hanno vissuta. Sono il nostro orgoglio. Hanno una dignità enorme, non hanno mai chiesto niente e non si sono mai sentiti i figli “di”. Se io o Gianna ci azzardavamo ad alzare il telefono per provare ad aiutarli non ci rivolgevano la parola per una settimana». 

Quello che ci ha dato, l’ha sottratto alla vita privata?

 «Assolutamente sì e l’ho sottratto anche ai miei amici. Si vive una volta sola è una storia di amicizia e quando mi sono trovato a scrivere con Giovanni Veronesi ho pensato soprattutto a loro. Agli amici perduti. Ai rapporti che quando avevo vent’anni credevo fossero indissolubili. Eterni.

L’amicizia era veramente importante. Condividevamo le stesse passioni: lo studio, il cineclub, la musica, le cantine umide in cui recitare. Eravamo un gruppetto di 6 o 7 persone e non facevamo altro che stare insieme. A volte qualcuno si fidanzava con la compagna di quello con il quale il rapporto era ormai logoro. Ma non c’era né gelosia né rabbia. Dicevi: “Vabbè, m’è andata male, però se è felice con lui va bene così”».

Poi che accade nell’amicizia?

«Irrompono le famiglie, il lavoro, i figli, la stanchezza. La tragedia è dai 30 a 40 anni e il primo segnale d’allarme suona quando getti la spugna, preferisci restare a casa e dici: “Non andiamo all’ultimo spettacolo, ve prego, che domattina me devo alza’ presto”. Non ce la fai più, ti mancano le energie e lasci per strada tante cose fino a quando, magicamente, a 50 anni la situazione migliora perché ti aggredisce uno sconfinato desiderio d’evasione.

Ti fa piacere parlare o andare a mangiare con qualcuno. Torni a confrontarti, a incontrarti, a scambiarti qualcosa. Finalmente, arrivato quasi a 70 anni, riesco a rivedere delle persone che avevo perso: non gente di cinema, per carità di dio. I miei veri amici, salvo pochissime eccezioni, non fanno parte del mio mondo. E mi creda, è bellissimo».

Lei 70 anni li compirà a novembre. 

«Ogni tanto mi guardo allo specchio e mi ripeto: “Ma io ho davvero 70 anni?”. Ancora mi domando come sia stato possibile arrivarci e cosa mi sia davvero successo nella vita. Il primo biglietto di un mio spettacolo teatrale venne venduto nel 1977. Quasi 45 anni fa. E sto ancora lavorando».

Le sembra incredibile?

«Mi dico: “Ma non è che la mia vita non è altro che un sogno? Che magari non è successo niente?”. Sembra una battuta, ma me lo domando veramente».

Cosa significa avere 70 anni?

«Esteticamente non li dimostro però nel corpo ogni tanto si rompe qualcosa. È come una macchina antica dalla carrozzeria che sembra reggere e il cui motore a volte si blocca».

E la immalinconisce?

«Per niente. Non sono mica triste di andare verso i 70: l’arco della vita è quello perché mi dovrei disperare? Si disperavano altri attori, tutti morti depressi, Alberto Sordi compreso. Ringraziando dio ho figli, passioni, un percorso credo ineccepibile e molti ricordi magnifici. Mi chiedono: “Ma il giorno che lascerai il tuo mestiere, come farai?”. Rispondo che sarà un grandissimo giorno: la missione è stata compiuta nel migliore dei modi».

Bilanci?

«Ho fatto esattamente quello che dovevo. I personaggi, i film da protagonista, quelli corali come Si vive una volta sola».

Momenti nascosti, quasi sepolti?

«La prima volta che mi spinsi oltre Roma lo feci per andare all’Hop Frog di Viareggio. Era un circolo di estrema sinistra dove si erano esibiti Lucia Poli, Donato Sannini, il Patagruppo e dove io arrivavo con il mio prete di campagna, terrorizzato dall’accoglienza che avrei ricevuto. La gente mi guardava con aria truce, l’eskimo addosso e i volti ostili. Ero nervoso, andai a pisciare e accanto al cesso trovai una siringa: “Ma dove sono capitato?”, mi dissi. Andò bene, ma non era scontato. Niente è stato scontato».

Orgogli?

«Grande Grosso e Verdone. Di solito sono molto critico con me stesso e non faccio altro che dirmi: “Questa la dovevi di’ meglio, quest’altra avresti potuto girarla in modo diverso, questa scena è inutile e sarebbe stata da tagliare”. Ma sapevo che quello era il mio ultimo film da mattatore e mi permisi dei virtuosismi. Ci misi dentro personaggi cupi e raffinatissimi come il professor Cotti Borroni. Quando sei sicuro di te stesso puoi anche osare».

Che segno credi di aver lasciato?

«Non tanto il successo che è effimero, né il rapporto con il pubblico che è profondo, solido e non cambierà. Sono stato felice perché mi hanno capito. I miei film erano pieni di dettagli poetici e mi chiedevo sempre: “Ma la gente li apprezzerà?”. Mi ricordo una sera di tanti anni fa, era l’82, Borotalco era in sala da una settimana e tornavo a casa. A un certo punto mi accorgo che alcuni  ragazzi mi inseguono in motorino. Mi fermo. “Ci faresti un autografo?”.

È notte, con me non ho niente. “Come si fa?”, dico. “Aspetti un attimo”, fa uno “io abito qui vicino, porto dei pezzi di carta con una penna”. Aspettiamo al freddo il suo ritorno e un ventenne mi dice:  “Ma lei si rende conto di quello che ha fatto per noi?”, “Vuoi la verità? No”, “Ci ha regalato la leggerezza e una felicità interiore che neanche se la immagina”. Mi colpì tantissimo. “Ma guarda te”, mi dissi, “io che non lo volevo fare questo lavoro. Io che avevo paura di tutto”».

Quali erano le sue paure da bambino?

«Perdermi. Stare negli spazi grandi e smarrirmi. Non sapere come tornare dalle persone che mi volevano bene. Essere con mio padre in un posto, circondati dalla folla e improvvisamente non trovarlo più. Una volta mi accadde allo stadio e fu una cosa disperante. A un tratto, come in Un sacco bello, si sentì dall’altoparlante la voce di una poliziotta: “Il bambino Carlo Verdone è pregato di portarsi vicino all’ingresso della tribuna Montemario”. Quando rividi papà lo abbracciai fortissimo e gli disse: “Non mi lasciare mai più”. Non era la prima volta che mi perdevo».

Davvero?

«Andai per la prima volta a Siena, una città labirintica che mi colpiva per la sua severità, la sua bellezza austera e il suo mistero, che ero piccolissimo. Giocavo in via Di Vallepiatta e la mia palla cominciò a rotolare in discesa. Più la seguivo più non sapevo dove mi trovassi fino a quando non persi il senso dell’orientamento. Mi ritrovai a piangere ai bordi della strada e arrivò una signora: “Cittino? Che ti è successo? Dove sono i tuoi genitori?”. Mi riportò a casa e li vidi, come in una fotografia, tutti ad aspettarmi sull’uscio. Preoccupati. Stravolti. Sogno di perdermi ancora oggi. Incubi che ciclicamente tornano a farmi visita. Non so più dove sono e non riesco a trovare la via di uscita. Cerco mamma o papà, ma non ci sono. In un Luna Park, in un labirinto di vetro, non entrerei mai».

È una prefigurazione quasi psicanalitica del futuro. A un certo punto si cammina da soli e si rischia di perdersi.

«È vero. Ed è difficile da accettare. Non è un caso che tante paure le abbia cancellate, ma mi resta quella del giorno in cui me ne andrò. Non temo il dolore fisico, ma la disperazione dei miei figli. So che per loro sarà una catastrofe, mi atterrisce e così, ingenuamente, li preparo».

E loro?

«Si incazzano. L’altro giorno dico a Giulia: “Guarda, ho trovato queste 7 foto e questi 7 video, sono bellissimi. Un domani, quando non ci sarò più”. Non mi ha fatto neanche finire la frase: “ahhh, mo’ ricominci?”, “No Giulia, ascoltami, un domani, quando non ci sarò più, devi prendere questi video e queste foto e farci un documentario. Ci siamo io te, Paolo. È bellissimo”. “Papà”, ha alzato la voce, “adesso hai rotto veramente le palle”. Esorcizzano, però so che si preoccupano esattamente come capitava a me quando ero bambino, mia madre non tornava e io diventavo pazzo. Alla fine un po’ della mia ansia l’ho trasmessa anche a loro, soprattutto a Paolo. Se non rispondo al telefono, va subito in fibrillazione».

I suoi figli hanno poco più di 30 anni. L’età che aveva quando Lietta Tornabuoni la incontrò a casa di Sergio Leone. Disse che lei sembrava un burocrate cinquantenne: insicuro, bislacco, spaventato, oppresso dall’idea dell’affermazione. 

«Ricordo bene quell’incontro, ma Lietta non comprese che per Leone io avevo una specie di devozione. Ero intimidito dalla sua presenza, ma non ne ero schiacciato. Dentro di me avevo le idee chiarissime. È stata la mia grande fortuna».

Che rapporto ha con la noia?

«Un rapporto meraviglioso. La noia è una carezza, una bella coperta che mi avvolge e mi fa ricaricare le batterie. Detesto quelle persone che affollano le estati di programmi assurdi saltando da Mykonos a Ibiza, perché “ti devi” divertire, “non puoi” annoiarti e se non ti diverti ti incazzi. Ma chi l’ha detto? A me d’estate piace non avere nessuno tra i piedi. Voglio stare da solo. È il periodo che mi aiuta a creare, a inventare, a riflettere. Se poi vogliamo parla’ di chi s’annoia perché non ha un cazzo da fa’ parliamo di tutt’altro». (Sorride)

L’ha visto il film di Zalone? Le è piaciuto? Si è annoiato?

«Ha fatto un tentativo: alcune cose funzionano, altre meno. Ma anche se da spettatore posso criticare, apprezzo lo sforzo, il coraggio e l’intenzione di fare qualcosa di lontano dai suoi precedenti. In fin dei conti pur essendo due persone completamente diverse e pur essendo la sua comicità molto lontana dalla mia, capisco le mille tensioni che ha avuto. Lo rispetto. Non è certo uno sciocco. Ha rischiato sapendo di rischiare».

E lei, con Si vive una volta sola ha rischiato?

«Temevo che l’interazione tra i personaggi si rivelasse un gioco sterile e senza spessore. Dal secondo giorno però è accaduto un miracolo e ho irrobustito un film che un regista meno esperto avrebbe potuto facilmente sbagliare e che invece ha una sua filosofia. Quindi, no, io e il film rischiamo poco. E lo dico per la prima volta. Faccio sempre mille “corna” e sono scaramantico perché so che l’esito di un film dipende dal pubblico e da quanti biglietti staccheremo, ma su quello che abbiamo fatto non ho mezzo rimpianto. È stata un’opera di concentrazione straordinaria tra 4 amici che sono felici di ritrovarsi anche fuori dal set. Non accade quasi mai: di solito, a film finito, ognuno va per la sua strada e chi si è visto si è visto».

Mi ha detto che il film parla di amicizia.

«Sono 4 medici. Una équipe chirurgica di prim’ordine che tra i propri pazienti ha addirittura il Papa. Tanto sono imperatori tra i ferri, tanto miserabili nel privato. Hanno una vita di una solitudine spaventosa e si fanno forza stando sempre insieme anche fuori dal lavoro. Ma tutta questa vicinanza, porta all’insofferenza e a una cattiveria feroce, da liceali. A un certo punto la dinamica subisce uno scossone e accadono cose sorprendenti: ahò, non è che stamo a parla’ di un film de Bergman, però sono fiducioso e contento del risultato».

C’è un’evoluzione. Prima dell’uscita di Un sacco bello, per la tensione, non riusciva neanche a dormire. 

«Ero tesissimo. Non ci capii niente. Lo andai a vedere alla sesta settimana di programmazione, da clandestino. Mi vergognavo di vedermi sullo schermo. Oggi sono più equilibrato, più paziente, anche meno egoista. Vedo le cose in maniera più distaccata, cerco di non drammatizzare e sono sicuramente più sensibile ai problemi del prossimo, degli amici come dei giovani artisti, a differenza di tanti miei colleghi che fanno i liberali ma se la tirano un po’ troppo e che se poi gli chiedi una cosa è come se gli chiedessi chissà che. Poi rido e cerco di far ridere gli altri».

Perché?

«Perché ridere è fondamentale. Uscire la mattina e avere sempre il grugno, non fa bene».

Cosa fa quando sta da solo?

«Ero insonne, adesso cerco di dormire presto. Prima di abbandonarmi alla mia playlist, guardo Roma dall’alto. Sconfinata e buia perché Roma è una città tremendamente buia. Mi sembra sempre bella, ma immalinconita. Depressa».

Come mai?

«Perché ci siamo ridotti così? Perché non ci sono esempi, ma solo follie. Perché manca l’educazione civica e la burocrazia ha divorato tutto. Mancano i sacerdoti del bello. Ma dove cazzo sono i sacerdoti del bello? Senza una scuola che insegni ad amministrare questo patrimonio non ne usciremo».

E le dispiace?

«Moltissimo. Prima Roma era una grande città. Ora è solo una città grande».

Intervista di Malcom Pagani per Vanity Fair

MICROPLASTICHE

MICROPLASTICHE

mangiare plastica 2

Mangiare una carta di credito non è un mirabolante trucco da fachiri, ma la normalità – inconsapevole – delle nostre vite: lo facciamo tutti una volta a settimana. Perché in sette giorni ingeriamo, in media, ben cinque grammi di plastica, l’equivalente, appunto, di una carta di credito.

Lo dice uno studio che l’Università di Newcastle (Australia) ha realizzato per il Wwf, prendendo in considerazione 50 studi provenienti da vari Paesi del mondo. «Facendo una media globale, ogni settimana assorbiamo 1.769 particelle di plastica dall’acqua, 182 dai frutti di mare, 10 dalla birra e 11 dal sale» spiega il biologo marino Silvio Greco, dirigente di ricerca alla Stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli e docente di Produzioni agroalimentari e sostenibilità ambientale all’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo, nel Cuneese.

mangiare plastica 1

Nel suo saggio La plastica nel piatto (Giunti Slow Food) Greco ci ricorda che la plastica ha ormai colonizzato ogni luogo, dai ghiacci dell’Antartide ai fondali marini, all’intestino umano. E non è strano, visto che dal 1950 la produzione è cresciuta di duecento volte, e non si ferma: ai ritmi attuali, nel 2030 si produrrà il 40 per cento in più di plastica rispetto a oggi. «Dobbiamo prestare sempre più attenzione alle nostre tavole» dice Greco. «Le microplastiche che ingeriamo hanno soprattutto la forma di ibre, e si trovano per lo più nell’acqua imbottigliata: provengono dalle stesse bottiglie».

LA RICERCA TEDESCA

Nel 2018, in Germania, è stato misurato il contenuto di microplastiche di 38 acque minerali: 26 con bottiglie in Pet (polietilene tereftalato), di cui 15 a rendere e 11 monouso, 9 in bottiglie di vetro e 3 in contenitori di cartone rivestito. Sono state trovate in media 118 particelle per litro (per l’84 per cento di Pet e per lo più con dimensioni tra 5 e 20 micrometri) nelle bottiglie in Pet multiuso e 14 per litro nelle bottiglie monouso.

Nelle bottiglie in vetro i microframmenti di plastica (provenienti dal tappo) erano invece in media 50 per litro e nei contenitori cartonati 11. «I contenitori di plastica multiuso rilasciano più particelle perché si logorano» osserva Greco. «Un altro recente studio, dell’Università di Catania, su dieci 10 marche di acqua minerale di largo consumo in bottiglie di Pet, è stato il primo a valutare – grazie a nuovi strumenti – le particelle al di sotto dei 10 micrometri.

È stata trovata plastica – con concentrazione media di 656 microgrammi per litro – in tutti i campioni considerati. E si è notato che la presenza è correlata al pH dell’acqua: maggiore è l’acidità, più plastica si stacca dalla bottiglia. Le plastiche più rigide causano il rilascio di pochi frammenti grandi, quelle più morbide di molti frammenti piccoli».

Meglio l’acqua del rubinetto: qui i microframmenti di plastica sono 22 volte di meno, ma comunque ci sono: in una ricerca del 2018 della State University di New York ne sono stati trovati nell’81 per cento dei campioni provenienti da acquedotti di 14 Paesi, tra cui l’Italia. Né è un rimedio rifugiarsi nella birra: studi tedeschi e americani su marche da supermercato hanno trovato ibre di polimeri in tutti i campioni.

Nessuna relazione tra la loro quantità e quella nelle fonti d’acqua utilizzate: quindi la plastica nella birra potrebbe essere dovuta soprattutto alla lavorazione. E le ibre non risparmiano neppure il miele: uno studio tedesco le ha rintracciate in molti campioni, dovute agli strumenti usati nella lavorazione, ma anche al trasporto di granuli di plastica nell’alveare da parte delle api.

MOLLUSCHI E SALE MARINO

«L’acqua ha un ruolo cruciale nell’assorbimento di microplastiche da parte del 55 per cento delle specie marine di importanza commerciale» spiega Greco. «Tra queste ostriche, vongole, gamberetti, scampi, acciughe, sardine, aringhe, sgombri e merluzzi. Mangiamo plastica – circa 0,5 grammi a settimana – soprattutto attraverso i molluschi, visto che li consumiamo interi, mentre i pesci vengono eviscerati».

mangiare plastica 3

E l’acqua porta la plastica anche nel sale da cucina: «Diversi studi suggeriscono che le concentrazioni maggiori (550-681 particelle/kg) si trovano nel sale marino» spiega Greco. «Meno contaminati i sali di origine lacustre (43-364 particelle/kg) e rocciosa (7-204 particelle/kg)». Per il cibo che acquistiamo al supermercato in confezioni di plastica contano anche temperatura e tipo di alimento: «Gli alimenti grassi assorbono concentrazioni superiori degli additivi con cui si rende la plastica più resistente o impermeabile» spiega Greco.

«Tra i plasticanti più usati ci sono gli ftalati che,non avendo un forte legame chimico con la plastica, migrano dalla confezione all’alimento e possono interferire con il funzionamento degli ormoni, per esempio abbassando il testosterone». Uno studio cinese del 2019 mostra che la migrazione degli ftalati dal packaging al cibo aumenta con la temperatura degli alimenti e con la durata dell’impacchettamento: i cibi più vicini alla data di scadenza mostrano il maggior accumulo. Meglio quindi orientarsi su quelli più freschi. Certo, servirebbero forse delle norme per regolamentare il settore.

«Il problema è che non c’è ancora un numero apprezzabile di studi sugli effetti di tutta questa plastica sulla salute» sottolinea Greco. «Ecco perché abbiamo presentato all’Unione Europea un progetto di ricerca che unisce il mio istituto e il Sant’Orsola di Bologna, con l’oncoematologo Pier Luigi Zinzani». Si veriicherà, tra le altre cose, la presenza di microplastiche nel fegato. «I nostri studi sui pesci ci dicono che le microplastiche riescono a superare la barriera ematica e a inire nel fegato: potrebbe accadere anche nell’uomo».

MAL DI PANCIA DA POLISTIROLO

plastica mare

«A oggi sappiamo (studio dell’Università di Napoli, 2016) che le nanoparticelle di polistirolo fanno salire la produzione di due proteine infiammatorie associate a patologie gastriche». spiega ancora Greco. «Le particelle più piccole possono essere assorbite dalle cellule e migrare nei polmoni e altri organi, e innescare risposte immunitarie localizzate. Il Pvc poi può anche depolimerizzarsi, rilasciando monomeri di cloruro di vinile, fattore di rischio per i tumori». Soluzioni? «Rinunciare alla plastica è un’utopia. Bisogna ridurla, alzare la percentuale del riciclo e bandire il monouso». Oppure sulla tavola sarà sempre più dificile distinguere un piatto di plastica da quello che ci sta sopra.

Giuliano Aluffi per “il Venerdì – la Repubblica”

MEMENTO IN MORTE DI FLAVIO BUCCI

MEMENTO IN MORTE DI FLAVIO BUCCI

MORTO DI INFARTO A 72 ANNI L’ATTORE CHE IMPERSONO’ MAGISTRALMENTE, IN UNA FAMOSA SERIE TV, IL PITTORE ANTONIO LIGABUE- LUNGHISSIMA LA LISTA DEI FILMS IN CUI RECITO’ FRA GLI ANNI ’70 E ’90- MEMORABILI DON BASTIANO NEL MARCHESE DEL GRILLO E EVANGELISTI NE IL DIVO DI SORRENTINO

RIPROPONIAMO L’ARTICOLO GIA’ APPARSO SU QUESTO SITO, A FIRMA DI FULVIO ABBATE

flavio bucci

Flavio Bucci ha solcato il presente, e dunque la memoria di questo nostro piccino paese televisivo e insieme cinematografico con la moto di Antonio Ligabue, non Luciano, non il cantante, semmai il pittore folle della Bassa emiliana, ma questo una vita, un tempo fa, quando le lampare del successo, della fama sembravano sorridergli, accompagnarlo perfino in strada, nel viale degli applausi, degli autografi.

Flavio Bucci è stato un idolo televisivo, è stato appunto Ligabue, lo è stato perfino nell’ammirazione che si riserva ai volti particolari, bizzarri, caratterizzati espressionisticamente, “… guarda, guarda chi c’è, guarda lì, c’è Ligabue”, proprio così dicevano i genitori ai bambini incontrandolo nei giorni delle compere al Corso, lì per caso, o magari scorgendolo vittorioso sulla copertina della “Settimana Enigmistica”, e intanto Flavio Bucci-Ligabue, garbato, faceva cenno con la mano, salutava il bambino come fosse stato una sorta di Babbo Natale ulteriore, venuto fuori dal bestiario della bontà televisiva degli anni Settanta, Bucci, il profilo carenato, l’incarnato olivastro, sempre lì sulla moto a bruciare idealmente, ostinatamente la sua Bassa.

flavio bucci

Eppure, anni dopo, assai più prossimi a noi, pensandoci bene, scartabellando tra le fotobuste del cinema, Flavio è stato anche uno straordinario, spettrale, Franco Evangelisti, apostolo del sottogoverno democristiano capitolino, gli occhi che sedevano alla destra di Giulio Andreotti, così nel film di Sorrentino, “Il divo“, sebbene più affilato di “a Fra’ che te serve?”, sebbene privo della conventuale pinguedine democristiana da refettorio già visto in “Todo modo”, propria del braccio armato tra le scartoffie di Andreotti, anche lì Flavio era perfetto, maschera mortuaria di un potere tra clientelismo, ippodromi e Curia vaticana, perfetto anche da morto, composto lì nella bara, nella scena che annuncia il cupio dissolvi di un’era politica, perfetto davvero perfino da Evangelisti deceduto, immobile nella sua camera mortuaria, Flavio.

flavio bucci
Bucci nei panni di Ligabue

   Flavio Bucci è stato anche protagonista della più straordinaria stagione umana che Trastevere abbia mai vissuto, che non è certo quella impersonata da Adriano Celentano nei panni di “Er più” o piuttosto di Gabriella Ferri che canta “Mazzabubù… Quante corna stanno quaggiù?”, no, semmai la Trastevere dove, in vicolo del Moro, abitava Gianmaria Volontè, il comunista Volontè, nella cui casa e brillava uno splendido Schifano dove i maoisti di “Servire il Popolo” innalzano le loro bandiere lungo le piazze di Paola in Calabria, la stessa Trastevere che ha conosciuto i passi di Pierre Clémenti e di Tina Aumont, e ancora un Helmut Berger che brandisce una sedia strappata i tavolini del bar “Di Marzio” in piazza Santa Maria in Trastevere, lo stesso bar dove dimorava Marco, il molosso di Valerio Zurlini, cui Rafael Alberti dedicò una poesia, che ancora adesso figura sul muro del locale. La Trastevere nella quale, nottetempo, ancora Rafael Alberti, poeta spagnolo comunista in esilio, proprio sulle spallette del Tevere, con vernice blu tracciava “Franco assassino” e “Burgos”.

bucci e la corrente andreottiana - scena il divo
Bucci nei panni del democristiano Evangelisti, braccio destro di Giulio Andreotti

    Di queste ormai povere cose con Flavio Bucci abbiamo parlato, sarà stato all’incirca una ventina di anni fa, incontrandolo per caso al bar “della Pace”,  altro luogo paradigma di una Roma che non esiste più. Lo rivedo, Flavio Bucci, stravaccato su una sedia accanto agli stipiti dell’ingresso, gli sto seduto accanto, prendiamo a parlare di un’età dell’oro cittadina, quando ancora essere un attore mostrava un brillio umano rionale e perfino militante che andava ben oltre la miseria della fama e dei glamour odierni. Così scorrono nuovamente i nomi di Gianmaria Volontè, dei comunisti della capitale, delle feste de l’Unità, del “Folkstudio”…

     Leggere che Flavio viva adesso in una casa famiglia, chiama amarezza per lui e ancora chiama amarezza per quel tempo che dove lo abbiamo visto eroe, perfino nei ruoli di servizio come il suo straordinario Don Bastiano, prete brigante eretico ribelle, nel “Marchese del Grillo”, quelli fatti per campare, non più il Flavio-Ligabue, non più il suo profilo carenato in sella alla motocicletta che brucia i filari della Bassa, piuttosto il Flavio protagonista di un tempo eroico, di un tempo e di una città eroici, forse perfino con il suo cinema, e non si dica ipocritamente adesso che ognuno è responsabile del proprio male, del proprio abbandono, del proprio degrado, e non si faccia, pensando a Bucci, come quelli che quando consegnano una moneta all’accattone precisano, anzi, raccomandano al disgraziato un “… mi raccomando, non se li beva, eh”.

flavio bucci

    Come l’immenso George Best, Flavio racconta di avere speso tutto in donne, vodka e cocaina, come la carta dell’Appeso dei tarocchi, sembra di vederlo lì a testa in giù, l’oro e l’argento delle monete che gli cascano dalle tasche in nome della forza di gravità e del precipizio, della Caduta.

    Merita rispetto il destino che Flavio ha donato a se stesso, nonostante abbia scelto di precipitare, di affrontare rovinosamente la propria sconfitta, fosse anche per fragilità, o magari per semplice debolezza, o piuttosto perché questa vita, questa Roma, questo mondo della televisione, del cinema e del teatro, per come si è infine travisato nella sua infingardaggine, può perfino far schifo, se non ribrezzo. Ecco, forse in Flavio che dona il rigor mortis di Evangelisti al film di Sorrentino, nel suo volto terreo, nel circonflesso dei suoi occhi segnati dalle rughe, le cornee immerse martirio  dell’alcol, e della cirrosi sempre in agguato, c’è la più straordinaria metafora di un tempo finito per consegnarci all’ordinaria miseria del dopo.

Articolo apparso su ildubbio.news/ildubbio/ a firma di Fulvio Abbate

PAESEOLOGIA

PAESEOLOGIA

I pensieri impensati di Franco Erminio, poeta dei paesi spopolati, che non sono piccole città, ma ricchezza felicemente inoperosa, destinata a salvare le città, ridotte dalla modernità a terre desolate.

Fatemi un favore, dice Franco Arminio, alla fine di ogni suo incontro con il pubblico, andate a visitare un paese più piccolo del vostro, se il vostro paese conta seimila abitanti visitatene uno che ne ha quattromila, se ne ha quattromila andate in uno più piccolo, e così via, senza motivo, senza che ci sia una sagra, una festa, un evento, andateci e basta. Poi cercate una persona anziana, sedetevi vicino a lui o a lei, e ascoltate quello che ha da dire. “I paesi per prima cosa bisogna guardarli, andare a trovarli con un moto di passione. Attraversarli e guardarli”. Salvarli con gli occhi, come scrive in una delle sue poesie più belle. Chissà se in Italia i paesi in via di spopolamento si salvano in questo modo, chissà se davvero vanno salvati o se interessa a qualcuno farlo. Sono più di vent’anni che il poeta e paesologo Arminio scrive e si occupa di questi temi: il suo oggi può suonare come appello ingenuo, poco realistico, tuttavia non lo è affatto.

Nel 2019 appare più chiaro che la via dell’attenzione sia l’unica possibile. Mescolare geografia e commozione, poesia e etnologia, politica e canti. “Non ho mai creduto alla morte dei paesi. I paesi si trasformano. Soprattutto, non bisogna pensare al paese come città mancata”. L’hanno capito l’economista e politico Fabrizio Barca, il ministro per il sud Peppe Provenzano ascoltano questo signore dell’Alta Irpinia che predica la poesia come forma di conoscenza. Lo aveva capito per primo Gianni Celati che nel lontano 1992 pubblicò Arminio nella raccolta Narratori delle riserve (Feltrinelli), e scrisse che il suo “era un modo del tutto inedito di guardare le cose al sud”.

Bisaccia, provincia di Avellino

La paesologia non è altro che una forma di attenzione. E forse non sono le città che salveranno i paesi, ma viceversa. Quelle città che in tutta l’Europa vanno a una velocità diversa dal resto delle province che le circondano. Dovremmo cominciare a pensare che i paesi “felicemente inoperosi” dell’Italia interna, quelli abbandonati dalla politica, quelli di cui si occupa il forum Diseguaglianze diversità presieduto da Barca, sono la ricchezza di una nazione fatta da una miriadi di piccoli comuni e attraversata in verticale da una lunga catena montuosa oggi sempre più disabitata e divisiva.

Bisaccia. Per ripopolare il paese il sindaco ha proposto la vendita delle case a 1 euro

Un processo
Dal vivo Franco Arminio non ha i toni del predicatore laico, quelli che ti aspetteresti dopo aver letto le sue poesie, poesie che a volte sono scritte in forma di preghiera e fanno pensare talvolta a un nuovo francescanesimo. È un uomo simpatico, insonne, coltissimo, una “creatura dell’urgenza”, come lui stesso si definisce, un’anima svelta, secondo un mio personale distinguo che applico alle persone che incontro. La lentezza non è prevista nei movimenti di quest’uomo vicino ai sessanta, la sua vitalità è quella del ragazzo. Racconta che da bambino non riusciva a stare fermo, né a scuola né in chiesa né in pizzeria: non è cambiato di molto.

A Gubbio arriva in una giornata di diluvio per il festival “Umbria in voce”, quinta edizione di una piccola ma preziosa festa della voce diretta e ideata da Claudia Fofi. In Geografia commossa dell’Italia interna scrisse che l’Umbria è “una terra inchiodata, incastrata al centro d’Italia, terra che non luccica, non freme”.

Bisaccia

“Non conosco bene queste terre, ma non sento un grosso fremito, no. L’esito delle elezioni regionali non mi ha stupito per nulla. Per ricostruire le zone terremotate, bisogna che ci siano delle energie telluriche, mentre qui in Umbria non ci sono. Certo, ci vogliono i finanziamenti, le burocrazie, ma se un paese sta morendo è difficile che riesca a ricostruirsi. La ricostruzione è il completamento di un processo che era già cominciato prima del terremoto. Adesso c’è un grande lavoro da fare, non bisogna ricostruire i paesi, ma le cose”.


Arminio ha cominciato a scrivere proprio raccontando la ferita più grande, quella del terremoto dell’Irpinia. “Andare nei paesi è stata una scoperta, un processo che adesso è diventato consapevole. Un tempo andavo nei posti per vedere, non per essere visto. Adesso sono un famoso sconosciuto, ma rimango abituato al vento contrario che di solito mi accoglie nei paesi. Scrivo per riparare il vaso rotto, trasformare le ferite in opportunità”. I viaggi per lui sono uno scarto tra un posto e l’altro. Un modo di sentirsi al confine tra un luogo e l’altro. “Il paese da cui vengo e dove vivo, Bisaccia, è tra Campania e Puglia, e la mia scrittura è tra prosa e poesia”.

Grazie a questa scrittura, Arminio ha conquistato un seguito notevole. Basta andare a sentire uno dei suoi incontri, quasi mai nelle città, raramente nelle librerie – “Le librerie no, non mi piacciono, non c’è mai l’atmosfera giusta” – per rendersene conto. Arminio spiega che lui vende direttamente i suoi libri, che a sua volta compra dalla casa editrice, o alle presentazioni o tramite il baratto: “Mi mandano olio, salumi, regali di ogni tipo, e io spedisco il libro”.

L’impatto che ha sulla gente, anche sui non lettori, è di certo anche frutto di un lavorio continuo e molto pionieristico sulla rete, quella rete che come dice lui “ha unito le città e i paesi”. Autore di una ventina di libri, le sue raccolte di poesie hanno avuto un’accoglienza non comune: Cedi la strada agli alberi ha superato le ventimila copie; L’infinito senza farci caso, uscito da poco per Bompiani, ha già venduto novemila copie. Se si escludono i libri di Guido Catalano o altri “poeti” nati per così dire su internet, nessuno in Italia ha raggiunto un pubblico di lettori così ampio scrivendo in versi.

Strade i Bisaccia

Canto, poesia, stile
Al festival di Gubbio è arrivato per un reading-concerto assieme ai figli Livio e Manfredi. Lui insiste sempre sull’importanza del canto. Il canto e la poesia sono forme di conoscenza, ripete, la letteratura è una forma di conoscenza. Di più, sono forme di politica: spazi che possono riconnettere le persone per un tempo più o meno breve e attraverso una comunanza di intenti. Momenti in cui si costruiscono quelle che lui chiama “intimità provvisorie”.

Arminio lavora moltissimo sulla lingua e non lascia mai la presa della frase: “Sono molto legato alla lingua, alle sue sfumature. La lingua è la mia stella polare. La letteratura è come si dicono le cose. Il mio ultimo libro è una raccolta di poesie d’amore scritte in un linguaggio semplice, ma a me non interessa l’amore in sé, m’importa della lingua. Anche in prosa, non faccio reportage, ma introduco sempre un elemento incongruo, immaturo, arbitrario”.

A differenza di uno scrittore come Roberto Saviano – che lo ha definito “uno dei poeti più importanti di questo paese, il migliore che abbia mai raccontato il terremoto e ciò che ha generato” –, Arminio interpreta l’impegno in un modo diverso, non gli interessa denunciare . “Non penso che i paesi moriranno o comunque non mi interessa. Il punto non è un paese morto in più o in meno. Il punto è che la nostra cultura politica, i nostri intellettuali non s’interessano dell’Italia interna o lo fanno in maniera terroristica. Non serve denunciare, ma fare le politiche giuste. Invece le politiche liberiste sono miopi perché hanno puntato sul risparmio, sui tagli. Mentre bisogna valorizzare il capitale umano virtuoso, bisogna premiare chi fa cose belle. Ci vuole più politica, non meno politica, perché per premiare devi essere forte. Per questo mi sono candidato”.

Una strategia
Franco Arminio si è candidato ben tre volte senza mai essere eletto: una con il Partito democratico al tempo di Walter Veltroni, cinque anni fa con la lista Tsipras e una nel maggio scorso come sindaco di Bisaccia, il paese dove vive, in Irpinia, con una lista civica.

Zungoli Avellino, case a 1 euro

“Alla sinistra manca completamente una narrazione sui paesi e sulle zone montuose. Non sa letteralmente che dire, il Pd pensa che il distacco sia una qualità, non lo è. La Lega invece ha una radice popolare, poco salottesca. Lo dico sempre a Peppe Provenzano: potete fare tutti i dispositivi legislativi che volete, ma se il vostro partito non ha una narrazione sui luoghi e non considera giovani e vecchi, non serve a nulla”.

Che cosa bisogna fare dunque? “L’importante è coinvolgere tante persone nella strategia contro lo spopolamento: penso ad artisti e intellettuali che vadano nei piccoli luoghi e motivino le persone a restarci. Non credo sia solo una questione di opportunità economiche. Bisogna che ci siano giovani agenti di sviluppo locale che vadano fuori a fare esperienze e poi siano chiamati a risiedere per lunghi periodi nei paesi. In un piccolo centro spesso il capitale umano va alla malora. Provenzano deve avere il coraggio di individuare dei meccanismi per premiare i virtuosi. E gli intellettuali non possono stare alla finestra, devono assumere la questione delle aree disagiate dell’Italia come una questione cruciale. Poesia e impegno civile a servizio dei piccoli paesi. I paesi li salvano persone che vanno e vengono, che portano intimità e distanza”

Per i paesi ci vogliono pensieri impensati, dice Arminio. Di fronte alle notizie delle sardine che hanno invaso le piazze, viene da dire che a volte i pensieri impensati sono quelli giusti. Tuttavia, il nuovo movimento si esprime di più nelle piazze della città, mentre la Lega – per fare l’esempio di una regione dove si andrà al voto a gennaio 2020 – in Emilia-Romagna prevale nei piccoli paesi, in vaste aree dell’Appennino, in varie zone della Bassa e nel delta del Po. Il fatto è che in Italia le aree interne rappresentano il 52 per cento dei comuni; il 22 per cento della popolazione e circa il 60 per cento della superficie. Il territorio montano rappresenta il 35,2 per cento della superficie nazionale, ma ci abita solo il 12,2 per cento della popolazione.

Il problema della mobilità è enorme. Nell’entroterra le strade e le linee ferroviarie non funzionano o scarseggiano; mentre in senso verticale, quelle che collegano il sud con Torino o Milano, funzionano. “È l’Italia voluta da Agnelli. L’Italia interna era più collegata ai tempi dei romani”. In questa Italia, lo spopolamento è molto forte anche nel nord. “Nel settentrione l’effetto dei paesi vuoti è ancora più grande perché le persone stanno meno in giro, anche per via del freddo. Eppure, le città di quelle regioni sono più attrattive rispetto a quelle del sud. A Bisaccia restano quasi quattromila persone, perché intorno a noi le città vicine sono Foggia, Avellino, Benevento, Potenza: città dove non trova lavoro neppure chi ci abita”.

Alcuni paesi stanno scomparendo. Altri sono stati snaturati da una modernità che porta solo desolazione, ma qualcosa c’è ancora. Un tessuto da cucire c’è. Proviamo per questi anni futuri ad ascoltare l’insegnamento di Franco Arminio, non resta che pensare un po’ meno alla storia e un po’ più alla geografia: “Amare è un impegno da geografi, /esploratori che mentre vengono accolti / si fanno terra da esplorare”.

Articolo di Valentina Pigmei apparso su www.internazionale.it

Su questo sito: https://www.ninconanco.it/da-trevico-irpino-la-riscossa-delle-comunita/

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