I MORTI DI SICILIA

I MORTI DI SICILIA

“Da i morti non stanno muti. E’ questo che ci hanno insegnato in Sicilia”, scrive Renato Battiato nell’introduzione a un’antologia di cinque racconti di altrettanti autori siciliani (Giovanni Verga, Luigi Capuana, Vincenzo Linares, Giuseppina Radice, Danilo De Luca) dedicata al culto dei defunti e pubblicata da una casa editrice nuova, giovane e decisamente interessante, Rossomalpelo, che ha scelto di esaltare l’aspetto fantastico, favolistico e misterioso dell’isola attraverso pubblicazioni che ne attraversano la storia e ne indagano, alla lettera, l’ossatura.

“I morti bisbigliano, origliano, biascicano oscure sentenze, ballonzolano, minacciano, giocano a nascondino, mangiano, rubano, scherzano, sghignazzano, uccidono”, continua Battiato, e io sono già tornata bambina, sono la bambina che va a letto eccitata perché quella notte, fra il primo e il due novembre, i morti di casa entreranno dalla finestra (arrivati da dove? Si saranno arrampicati dai tubi sul muro del cortile interno? Scesi con una corda dalla terrazza?

Festa dei morti, i pupi di zucchero

Le domande della mia infanzia erano queste, non mi chiedevo altro, non avrei mai messo in discussione la veridicità di quanto accadeva, di quanto aspettavo tutto l’anno che accadesse) e lasceranno sul tavolo regali e dolcetti di mandorla a forma di ossa e teschi, frutta martorana che riproduce alla perfezione fichi d’india, limoni, pere e ciliegie.

Per ingraziarmeli, lascerò sul tavolo un bicchiere di latte e del pane, che al risveglio troverò mezzo bevuto e mezzo mangiato, sbocconcellato, perché i morti hanno fame ma non troppa, hanno soprattutto sfizio, lo sfizio di sentirsi vivi per un giorno. I morti, in Sicilia, sono i custodi dei vivi, mezzi angeli e mezzi satiri; le storie dei morti sono storie della storia dell’isola, abitata in ugual misura da chi respira e da chi non respira più ma continua a camminare, spiare, ridere, urlare, infestare case. Tutto questo io l’ho sempre saputo, lo sapevo ogni due novembre, i bambini lo sanno senza bisogno di ragionamenti, con la naturalezza onirica di un racconto di Capuana. si chiama appunto quello contenuto in quest’antologia, e il titolo fa riferimento a quando Don Ciccio Lanuzza (la perfezione di certi nomi), nel corso di una notte tormentata, si vede comparire davanti al letto l’amico Don Natale Mirone, seppellito dalla moglie qualche giorno prima, e fatica a credere che non sia proprio lui in carne e ossa. “– Tu? E mi hanno detto che sei morto! (…) – Non si muore; sono più vivo di prima. (…) – Dunque sei morto! – Non si muore, ti ripeto. Si sparisce, perché gli occhi nostri non riescono a vedere.”

Luigi Capuana

Leggendo Capuana so perché, quando confessavo a mia nonna, e solo a lei, vergognandomi moltissimo, di aver avuto le traveggole, lei non mi diceva mai: hai avuto le traveggole, ma sempre: i bambini vedono cose che i grandi non vedono. Non confesserò mai cosa avevo visto, non qui almeno: certe cose così radicalmente vere da non essere sopportabili le puoi mettere solo nei romanzi. Così, nel racconto di Capuana, Don Ciccio fatica a credere ai suoi occhi perché non può cedere alla debolezza di credere a sé stesso bambino; serve all’autore un finale che faccia esclamare: “Anche i morti sbagliano! Sbagliano tutti!”. Ovvero: non penserete davvero che i morti siano poi così diversi dai vivi? In Sicilia, poi! Vivi e morti sono così uguali che nel racconto di Vincenzo Linares, il protagonista finisce per sposare un fantasma.

Libro di storie popolari da Vincenzo Linares

E’ la storia di due ragazzi che si amano, Gianna e Roberto, ma lei è promessa sposa a un altro, a un brutto e cattivo usuraio. Purtroppo, un attimo prima di dire sì, la ragazza cade in terra, e sia il polso sia il respiro non lasciano dubbi: è morta. Chi è allora quell’eterea figura vestita di bianco che nottetempo si desta dalla tomba, esce dalla chiesa, vaga per le strade allucinata e piena di amore e paura? “E’ forse un vampiro?”, si chiede Linares, “E’ forse una sonnambula? E’ uno di quei spiriti gentili, che il popolo crede e teme, un fantasma, una silfide notturna?”. Quando bussa alla porta, l’usuraio non la riconosce, ma il bravo e innamorato Roberto sì, e quindi sarà lui a sposarla, a meritarla: Gianna non era morta, solo colpita da una momentanea e ingannevole asfissia. Una finta morte utile a defenestrare un bolso e fifone pretendente in favore di uno che non teme gli spettri. Romeo e Giulietta, in Sicilia, sarebbero morti entrambi, ma almeno con ironia.

Briganti siciliani

Nel racconto di Giuseppina Radice, che è scritto in dialetto ed è un esplicito omaggio alle storie di Pitrè, il cunto è affidato alle donne (la cosa più bella era che le donne raccontavano tanti racconti: di fantasmi senza testa, di morti che erano morti ammazzati e che non avevano pace e se ne andavano casa per casa). Nel racconto di Danilo De Luca, che chiude l’antologia, la nonna saggia ricorda al nipote che bisogna avere più paura dei vivi che dei morti; ma l’autore, dopo una brutta avventura, chiude sì dandole ragione, ma ricordando che i morti bisogna comunque lasciarli in pace, oppure si fa la fine dell’uomo della Panda, che per seguire un suono di campane inesistenti si è ritrovato a una messa di strani individui tutti vestiti di nero e non è più potuto tornare fra i vivi, allora ha dovuto lasciare la sua macchina in uno spiazzo, sta lì dagli anni Ottanta, o forse no… La festa dei morti, ricordata da Verga nell’omonimo racconto che apre l’antologia, è in realtà nient’altro che un giorno in cui è lecito festeggiare con clamore ciò che di nascosto accade tutto l’anno: l’amorosa corrispondenza fra i morti e i vivi, un dialogo ininterrotto, ironico, terribile, spaventoso e attraente, lunare e ombroso quanto denso di guizzi, di pulsioni. In Sicilia, i morti sono uguali a come sono dappertutto, solo che non hanno paura del sole, anzi lo sfidano, anzi ancora: da lui nascono. “Dove c’è più luce, là c’è più mistero”, ha scritto Bufalino in uno dei suoi libri più belli, per spiegare come mai l’isola sia sempre stata terra di pratiche magiche, e in quello stesso capitolo, che si intitola “L’orma del diavolo”, fa un elenco di certi scongiuri: “Furcu, Rifurcu, Turcu, Cataturcu (…) ma anche Muscu, Luscu, Fuscu. Anche Bau, Babbalutu, Babbau, in assonanza, probabilmente, con ch’è, nel nostro dialetto, l’inoffensiva, e però bavosa e cornuta, lumaca”. In Sicilia, l’esorcismo parla la lingua familiare, pungente degli avi, con cascami di fobie e paura da morire dentro tutto un sottofondo di quieta normalità, di pacifica e ilare conversazione.

Sponda carretto siciliano

In quest’isola piena di arsure e bizzarrie, dove tutto rischia di essere memorabile e pretende di essere solenne, dove il cattolicesimo è più pagano che puritano e i diavoli come Aleister Crowley hanno trovato buon terreno per scorrazzare, la magia non ha mai avuto bisogno di travestirsi, non ha mai avuto bisogno di trucchi: semplicemente, cresce selvatica da sempre, e poi chissà che fine fa (a volte viene cucinata, sotto forma di certe erbe che nessuno ha mai avvistato altrove, e che le nonne chiamano con sbrigativa consapevolezza “minestra selvatica”). “Vero è che qui dalla magia è facile trapassare, a scelta, nella farsa rusticana o nel mito”, scrive ancora Bufalino. E se leggiamo tutti di fila i cinque racconti sui morti di Sicilia di questa bella antologia, storie d’amore, di ridicolaggini e di stranezze, certo di farsa ce n’è in abbondanza, e si mescola con il mito nella maniera indicata da Bufalino: l’esorcismo parla la lingua familiare degli avi, con cascami di fobie e paura da morire dentro tutto un sottofondo di quieta normalità nei racconti di fantasmi, come in quello di De Luca, c’è una componente leggendaria che si attacca, si avvita a un’esigenza connaturata al luogo, come i miti greci che non sai più se sono nati per spiegare un fenomeno naturale o se invece quel fenomeno è nato per far contenti loro, per far contenta quella storia che qualcuno doveva per forza raccontare.

Giuseppe Pitrè

E’ una gioia che una casa editrice oggi si lanci nelle storie di fantasmi con tale coscienza dell’origine e tanta dimestichezza con le stratificate fantasticherie isolane; i tipi di Rossomalpelo curano anche una rivista, Cariddi, che misura il grado di mostruosità (e quindi di accettabilità) delle storie pubblicate. Il pulp, in Sicilia, esiste in natura: Cariddi, l’orribile e famelica Cariddi, era una ninfa bellissima, punita per aver mangiato i sacri buoi di Gerione. Non è farsa rusticana anche questa, una ragazza che non sa resistere alla merenda, ignara e spavalda mentre si sfizia con una delle fatiche di Eracle? E’ mito, in Sicilia, anche la festa del due novembre, imparentata, molto più che con Halloween, con il “Dia dos Mortos” messicano, che perpetua una festa indigena attraverso le sembianze della “calavera” Catrina, una donna-scheletro, vestita elegante e pronta a tornare sulla terra per ballare, scherzare, ridere. I morti, al Sud, quando si affacciano lo fanno per divertirsi: bere, mangiare, baciare è il loro obiettivo e non bisogna mettersi di traverso. Guai a non assecondarli, significherebbe ricordare loro la peggiore delle offese, la più impronunciabile delle sentenze: che non sono più vivi. Mentre invece, ricorda Renato Battiato, “in Sicilia di morte non si muore mai.”

Articolo di Nadia Terranova, Il Foglio quotidiano

TRE IMMAGINI

TRE IMMAGINI

Tre sono le immagini destinate ad entrare nella storia della pandemia Covid-19: il Papa che gira per Roma in solitaria per andare a pregare; la lunga fila dei camion militari che nella notte di Bergamo trasportano le bare verso i crematoi; il video drammatico di Roberta Zanironi che lamenta la morte del padre avvenuta senza conforto alcuno, nel completo isolamento di una terapia intensiva. Tre momenti emblematici che possono essere inscritti in altrettante dimensioni della tragica storia di questi giorni: la fede, la morte, il dolore.

La fede del Papa, che è insieme accettazione e speranza. Che esige atti fuori da ogni protocollo, che muove i nostri passi da sola, quasi ci spinge, strattonati come siamo da un’esigenza interiore in cui smania e timore si confondono, come un’insonnia dell’anima che scruta il lontano orizzonte affinché schiarisca. San Francesco guarda il lebbroso, si avvicina e lo abbraccia. Laddove altri hanno schifo e ribrezzo, lui prova amore, un amore inaudito, come tutte le cose che ci denudano, eppure pretendono da noi non atti di eroismo, ma semplicemente essere quello che siamo: deboli, incerti, malati fra malati. Uomini.

La fede del Papa, speranza che è sì attesa fiduciosa, ma soprattutto un impulso istintivo, lo stesso che spinge il neonato verso il seno, quasi un archetipo che dal profondo dell’animo dirige i nostri passi, che ci rende dispensatori sereni di profezie che al solo pensarle si sono già attuate. La vita riprende sempre, sempre è intorno a noi, anche se mascherata da morte.

La lunga fila di camion, la tecnologia è sempre sguaiata, insensibile e maldestra. Non ha animo, né estetica, né fini se non essere efficiente. Anche quando si defila, quasi a passare inosservata. Entra nelle statistiche, ha la volgarità del numero e della anonimia, sballotta da un luogo all’altro esseri tutti senza nome, o pacchi che siano. Ma i morti non ammettono numeri, perché anche uno è troppo; oltre la singolarità sono solo statistica priva di significato.

L’ultimo sguardo esitante, quasi il palpito di un lapillo sotto la cenere, il tremolio, ultimo, dell’anima prima del grande volo, quello deve essere colto. Roberta non l’ha potuto fare. Ha avuto la meglio ciò che non vediamo, ciò che non conosciamo. Rimane oltre il vetro un’ombra, un alito che sembra non volere sperdersi col suo sottile e insolito profumo, perché è più una apparizione che un addio, un esserci che un perdersi. Ma sappi, Roberta, che la coscienza allora si dilata, una estrema ricapitolazione la inonda di emozioni, una luce che è un raggio che guida, quasi fosse la nostra orma che ci precede. Non si soffre allora, il congedo è dolce e leggero, siamo noi che ci scopriamo vuoti, impietriti da un dolore che non consola, smarriti, sordi a ogni voce.

L’immagine della copertina è tratta dal Libro Rosso di C. Gustav Jung

FRA REALISMO E ASTUZIE: LA POLITICA DI HENRY

FRA REALISMO E ASTUZIE: LA POLITICA DI HENRY

Heinz (Henry) Kissinger aveva nove anni nel 1933, quando Hitler venne nominato Cancelliere. Era il figlio di un ebreo tedesco assimilato, un uomo pio, insegnante a Fürth, cittadina manifatturiera di 70 mila abitanti in Baviera, che l’ aveva cresciuto nel culto di Goethe, Lessing e Felix Mendellsohn, votandolo all’ideale della Bildung (la tradizione tedesca di auto-formazione). Da un giorno all’altro, si trovò braccato da bande di ragazzetti in camicia bruna, costretto a cambiare strada, a disertare la piscina, a fingersi cattolico per giocare a pallone.

Barry Gewen, giornalista e scrittore

Nel 1938, alla viglia della Kristallnacht, la madre Paula Stern, figlia di un mercante di bestiame e perciò dotata di senso pratico, riuscì a ottenere un visto per l’America. Così la famigliola riparò a Washington Heights, Upper Manhattan, fra la comunità di ebrei tedeschi detta per scherzo The Fourth Reich, dove il vecchio padre, ormai vinto dalla vita, cercò di riciclarsi come contabile.

Divenuto adulto, laureato a Harvard con tesi su Metternich e Castlereagh, scrittore di successo con un saggio del 1957 sulle armi nucleari, professore a Harvard, consulente del governo, diplomatico di prestigio, consigliere per la sicurezza nazionale e Segretario di Stato dal 1969 al 1977, durante le presidenze di Richard Nixon e di Gerald Ford, e Premio Nobel per la Pace nel 1973, Henry Kissinger, che era diventato americano dopo essersi arruolato nell’ esercito ed essere tornato in Germania per insegnare a dare la caccia ai nazisti, avrebbe minimizzato il peso della persecuzione subita nell’ infanzia.

Eppure, solo un biografo dal cuore duro potrebbe negare l’impatto che la parabola del padre ebbe sulla visione del figlio e resistere alla tentazione di considerare l’attenzione al realismo e l’assenza di illusioni una sorta di compensazione all’ impotenza del padre.

Kissinger con Ronald Trump

È l’assunto sul quale si fonda Barry Gewen, redattore di lungo corso alla New York Times Book Review. Il suo libro oscilla tra il ritratto intellettuale e il compendio politico. Dalla storia del Cile moderno, dove il colpo di Stato del 1973 contro il presidente Salvator Allende, primo comunista regolarmente eletto, un putsch gradito a Washington ma indipendente dall’amministrazione americana, è riportato alla sola matrice militare, sebbene Kissinger ammonisse Non vedo perché dovremmo stare a guardare un Paese che diventa comunista per l’ irresponsabilità del suo stesso popolo?..

“L’atmosfera surreale offerta dalla pandemia di Covid-19 mi ricorda come mi sentivo quando ero giovane nell’84a divisione di fanteria durante la Battaglia del Bulge.  C’è un senso di pericolo imminente che colpisce in modo casuale e devastante”. E’ il drammatico inizio dell’articolo che  Henry Kissinger,  segretario di stato degli Stati Uniti durante le presidenze di Richard Nixon, ha scritto nella sua rubrica pubblicata il 3 aprile sul Wall Street Journal. Tuttavia, ha avvertito Kissinger, c’è una differenza importante tra quel tempo lontano e il nostro: “La resistenza americana è stata poi fortificata da uno scopo nazionale. “Ora, in un paese diviso, è necessario un governo efficiente e lungimirante per superare gli ostacoli senza precedenti in termini di portata e portata globale. Il mantenimento della fiducia dei cittadini è fondamentale per la solidarietà sociale, per la pace e la stabilità internazionali”.

 Dalla seconda guerra mondiale alla Guerra fredda, dalla guerra nel Vietnam all’ invasione della Cambogia e all umiliazione da parte di Ronald Reagan che considerava superata la realpolitik, e non volle Kissinger alla Segreteria di Stato. Seguendo un periplo movimentato, Gewen finisce per assolvere da ogni accusa di cinismo, opportunismo, machiavellismo e diabolica spregiudicatezza il maestro della realpolitik, che perseguì l’interesse nazionale e l’equilibrio di poteri per garantire la stabilità dell’ordine mondiale.

Lo choc subito da bambino, l’aver visto tramontare da un giorno all altro gli ideali del padre, l’aver visto inghiottire zii e cugini nelle camere a gas, l’ aver assistito inerme alla distruzione della democrazia, in nome della democrazia e attraverso le procedure della democrazia, costituiscono il nucleo tragico del pensiero politico di Kissinger che affonda le radici nel pessimismo europeo del Novecento, e nella diffidenza verso la democrazia moderna condivisa da altri emigrati eccellenti, come Leo Strauss, Hannah Arendt e Hans Morgenthau, accomunati nella riflessione sulla morte della civiltà e dall avvento inaspettato della barbarie, prodotto e nemesi dell’ idea di progresso.

Alla fine di tante digressioni, resta da capire se, e fino a che punto, il realismo politico, e per esempio la teoria dell’effetto domino in Asia, sia stato obiettivamente efficace nell’ azione diplomatica di un pensatore di spicco.

Articolo di Marina Valensise per ”Il Messaggero”

VILYA E IL SUO ANELLO D’ARIA E DI VERSI

VILYA E IL SUO ANELLO D’ARIA E DI VERSI

IL SAPORE DI UN RIFIUTO, LA TENEREZZA SENZA NOME, LA PAURA DELL’ABBANDONO, IN CUI CI SCOPRIAMO DEBOLI E INDIFESI- L’ALTALENA DELLA VITA NELLE POESIE DI VILYA

stracci, ancora stracci

dolore, paura

guerra, ancora guerra

ma fra i riccioli mori di un bimbo abbandonato,

in quei suoi grandi occhioni scuri

brilla ancora

il sogno di un bimbo senza nome.

cos’è questa forza incontestabile che muove le labbra,

che spoglia e lascia nudi.

ho sentito che la chiamano sorriso.

avevo una maschera,

era un viso di cartapesta,

sorrideva, sembrava vera.

così andavo in giro.

la maschera è caduta,

è rimasto soltanto

un viso consumato dal pianto.

discorsi rifatti di belle parole

promesse che incantano

“ma quanto sei disposto a rischiare?

sei disposto a giocare tutto te stesso?”

avvolge tutto,

nasconde la verità,

incontrastabile a mani nude,

il buio

la patria dei sognatori.

perché in questa società

se tutti fossero su delle macchine

e tutti iniziassero a schiantarsi contro dei muri

ci vorrebbe coraggio anche

a tirare il freno.

come una falce di luna

così sola

così imperfetta

in un cielo senza stelle di dicembre.

alcune persone sono come il sole,

bisognose di farsi notare, creano momenti speciali

e allora sono ammirate per quei minuti,

poi tornano “normali”e vengono dimenticate.

altre sono come la luna, silenziose,

agiscono quanto le persone che hanno altro da fare

eppure sono ammirate costantemente nella loro semplicità.

mi perdo

in questo cielo di fiori di pesco

quanti meravigliosi attimi

ci regala la vita

come un treno notturno

come un’ombra

vivi silenziosa

celata dal buio

incontaminata

al crepuscolo

le anime si perdono

incatenate

in quel frammento

che non è giorno

e non è notte

la solitudine

abbraccia la mente

accompagnandola forzatamente

in un abisso nero di pazzia

la mancanza di amore

di un’altalena

ferma da anni

vorremmo essere liberi

di guardare il mondo

come da una

ruota panoramica

la pace sarà sempre

seguita dalla guerra

per superarla basterà

ricordare la pace passata

e aspirare a quella futura

la mente umana

è inizialmente forte come

i tiranti del ponte di Brooklyn

ma può diventar debole come

una foglia nella bora di Trieste

se la solitudine l’abbraccia

accompagnandola forzatamente

in un abisso nero di pazzia

le chiome cantano

i tronchi si tramutano in fontane

milioni di folletti danzano sulle foglie

l’energia vaga libera tra i fusti

quel fragile equilibrio

appoggiato su un mignolo

che fa la differenza

nella personale esistenza

sto ballando

su una linea di gesso

chissà se cadrò

dalla parte che più desidero

oggi Firenze

sa di lacrime e rose

sarà il sapore di un rifiuto

al Piazzale Michelangiolo

la realtà è come

la facciata di un lago

basta una sola goccia

per distorgerla

momenti frenetici

come dopo aver saltato

nella nebbia

consapevoli di non poter tornare indietro

inconsapevoli di cosa si sta per incontrare

esisti

diversa

fuori dal normale

come una rosa bianca

in inverno

L’amore si prova

per inerzia l’amore si prova

per paura di non essere amati

L’amore si prova

per paura di amare

oggi San Marco è bella

risplende di calma

e tu

ragazza con la testa incasinata

non l’hai nemmeno notato

c’è una luna

perfettamente stupenda

che si appresta a morire

felice

dopo il suo momento di gloria

chissà se smetterò mai di stupirmi

oh luna

nel vederti perfetta

in un roseo cielo

di prima mattina

queste nuvole rosee

questa luna così (precisa di confine)

questo rumore assente

questo paesaggio è un dipinto

senza cornice

si libra leggera

 nell’aria

quante volte

le lacrime

hanno dovuto lavare

quei suoi occhi

per essere così puri

Biografia: Vilya è una poetessa, poco più che adolescente. La sua poesia nasce,come lei stessa scrive, perché “La fantasia è sempre stato il mio posto sicuro, l’unico posto in cui potevo fare ciò che volevo senza preoccuparmi di niente; ci sono i bambini che prima di addormentarsi pensano al loro cartone animato preferito, alla strabiliante vittoria dei buoni contro quel SuperCattivo sempre pentito, mentre io passavo le ore a immaginarmi in tutte le possibile vesti che la mia mente poteva creare. Poi ho iniziato a scrivere, a mettere su carta ciò che immaginavo. I miei genitori, la mia maestra delle elementari, i miei parenti e tutte le persone che avevo intorno mi hanno sempre incoraggiato e supportato nel mio percorso di scrittura, e mi rendo conto di aver percorso una strada dolce e agevole. Così, quando da bambina iniziai a voler capire e definire l’emozioni che provavo, mi venne naturale di scrivere sotto forma di poesie o piccoli testi tutto ciò che volevo capire, come se, scrivendolo su carta, potessi tirarlo fuori dal mio corpo e osservarlo dall’esterno.

NE’ PER VIVERE, NE’ PER MORIRE

NE’ PER VIVERE, NE’ PER MORIRE

Aspirando alla transumanità, armeggiando con i dati bioantropologici della nascita e del sesso, avevamo felicemente dimenticato che la nostra vita poteva esistere solo sul terreno fertile della condizione umana di cui, come ha sottolineato Pascal, la malattia e la morte sono dati permanenti.

Nelle parole del filosofo Robert Redeker il cinismo della nostra epoca cede di fronte alla nostra incapacità di prepararci alla morte

La sofferenza e la morte diventate impensabili. Il cristianesimo che aveva dato loro un significato. La scristianizzazione che ci lascia sgomenti. La morte che viene esfiltrata dalla vita collettiva. L’“ascesa dell’insignificanza”, come Cornelius Castoriadis descrisse la nostra epoca, che comporta la cancellazione della fine. “E una crisi di morte che è sempre sintomo di una crisi di vita”.

Robert Redeker

Robert Redeker all’occultamento della morte in occidente ha dedicato un libro, dove denuncia lo scandalo di una civiltà ossessionata dal voler far “scomparire la morte”. “Volendo nascondere la morte – ma anche la tragedia, cioè la storia – abbiamo mutilato la vita”, dice al Foglio il saggista e filosofo francese, editorialista del Figaro, del Monde e di Marianne e nel comitato della rivista sartriana Les Temps modernes. “Da quando non abbiamo imparato a morire, non abbiamo imparato a vivere. In tempo di pace disperiamo, disumanizziamo, in tempo di guerra, di sventura o di afflizione, speriamo, umanizziamo”.

L’epidemia di Covid-19 distrugge le illusioni antropologiche, sociali e politiche su cui noi occidentali della tarda modernità viviamo da mezzo secolo. “In particolare, quelle uscite dal maggio del ’68, del consumismo edonistico, della fusione tra la cultura della protesta e il mercato. Armati della retorica libertaria, edonistica, o postmoderna, prodotta per legittimare il cinismo, pensavamo di essere al sicuro. Eravamo come ‘quelli che stanno dietro’ e che portano avanti in sicurezza i loro piccoli affari durante le guerre, lontani dal fuoco dove gli altri combattono e muoiono. Dietro la linea Maginot del consumismo e della ‘globalizzazione felice’, pensavamo di essere al sicuro. Al sicuro dalla morte. Al sicuro dalla vita, finalmente. Tanto che ci eravamo persino dimenticati che la morte e la tragedia esistevano al di fuori dei romanzi e dei film. Pensavamo fossero manufatti archeologici. La morte stessa era solo un residuo destinato a scomparire, come ci ha fatto credere l’aumento senza precedenti dell’aspettativa di vita”.

E questo ci ha spinto a manipolare l’inizio e la fine. “Aspirando alla transumanità, armeggiando con i dati bioantropologici della nascita e del sesso, avevamo felicemente dimenticato che la nostra vita poteva esistere solo sul terreno fertile della condizione umana di cui, come ha sottolineato Pascal, la malattia e la morte sono dati permanenti. Beh, avevamo dimenticato questi dati!”. E’ a questa condizione umana che questa epidemia ci riporta indietro. “In questo caso, questa malattia assomiglia all’effetto della filosofia: distruggere le illusioni, la falsa coscienza. Ci costringe a tornare alla verità della condizione umana. Rompendo con l’illusione che l’uomo possa staccarsi dal dolore e dalla morte, cioè dalla vita, questa pandemia restituisce alla vita la sua drammatica sostanza”.

I grandi momenti della storia ci trovano sempre impreparati, inutile polemizzare politicamente. “I momenti salienti della storia sono sempre inaspettati. La rivoluzione iraniana del 1979, il regime dei mullah, 1989-1991, la fine del comunismo, l’11 settembre, ne sono esempi. Questa pandemia è uno stravolgimento simile a questi eventi. Naturalmente, l’impreparazione amministrativa e politica, l’impreparazione dei sistemi sanitari pubblici, è ovvia. Ma questa impreparazione politica e amministrativa deriva da una situazione metafisica molto più ampia. L’eclissi della morte, la sua repressione, così caratteristica della postmodernità, deve essere intesa nella prospettiva della sparizione sociale, nelle famiglie, nelle istituzioni, nei singoli, della preparazione alla morte. Nessuno si prepara più alla morte, mentre nella mia infanzia, nella Francia cattolica, era ancora frequente. Prepararsi alla morte è un’attività che sembrerebbe assurda, se non una malattia mentale, alla stragrande maggioranza dei nostri contemporanei. In passato, tutti si preparavano alla morte, così come si preparavano al fidanzamento e al matrimonio”.

In questa pandemia abbiamo ammirato degli “eroi”, medici e sacerdoti che hanno perso la vita in gran numero. Redeker all’eroismo ha appena dedicato il libro

“I soldati, senza dubbio, sono, nel nostro mondo, gli ultimi uomini che si preparano ancora alla morte – al pari dei sacerdoti della Chiesa cattolica e dei monaci, gli ultimi veri uomini” ci dice Redeker. “Questi, soldati e sacerdoti, guerrieri e religiosi, sono più uomini di tutti gli altri. La morte di Socrate, descritta da Platone nel Phaedo, e raffigurata nell’eroica pittura di Davide, è un’accoglienza ben preparata. Alexander Solzhenitsyn ci ha avvertito: l’Occidente ha perso il coraggio. Questa crisi di coronavirus mostra qualcosa: il senso del coraggio esiste ancora nelle persone. L’eroismo del personale medico di fronte a questa epidemia di coronavirus trova, mutatis mutandis, un analogo nella storia: quello dei soldati francesi gettati nella fornace della Grande Guerra. In occasione di questa ‘guerra contro un nemico invisibile’, nelle parole di Emmanuel Macron, appare l’eroismo degli umili, che, abbandonati sulla linea della battaglia, corrono il rischio di lasciarci la pelle, senza guadagnare nulla, nemmeno la gloria. Questo abbandono li rende solo più ammirevoli”.

Come Arnaud Beltrame, l’ufficiale francese ucciso in un supermercato francese per sventare un attacco jihadista. “Non era un grande ufficiale dello stato maggiore! Era solo un sottufficiale in una piccola città di provincia chiamata Carcassonne! Le persone che si distinguono in questa epidemia sono quelle del piano di sotto. Tuttavia, le persone al piano di sotto sono ancora l’humus della civiltà. Le qualità sopravvivono nelle persone comuni che si elevano al di sopra dei loro cosiddetti leader. Lacordaire, in un famoso sermone pronunciato a Notre-Dame negli anni ‘30 del XIX secolo, indicava il mistero del sacrificio. Secondo lui, ‘il sacrificio non è né opera della ragione, né opera della follia, è un’opera che domina la storia e la vita del genere umano’”.

In pochi giorni siamo cambiati, frase di rito. “Il nostro sistema è imploso, come nel sistema sovietico tra il 1989 e il 1991, quando nessuno se lo aspettava.

Sognavamo il transumanesimo, la teoria del genere, l’abolizione dei confini, le delocalizzazioni, la digitalizzazione del mondo; le stesse parole confine, nazione, sovranità, popolo, identità, erano parole tabù, parolacce che non dovevano essere pronunciate. I disordini provocati da questa pandemia rendono di nuovo queste parole enunciabili. Ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi è simmetrico al crollo del sistema sovietico alla fine degli anni Ottanta. Non è un’esplosione del sistema, ma la sua implosione. Il mondo della ‘globalizzazione felice’ sta scomparendo sotto i nostri occhi, inghiottito da se stesso, crollando su se stesso. Tutti noi ritenevamo che l’Urss fosse eterna. Sistemi post-storici e, in ultima analisi, post-umani, ai quali non poteva accadere nulla di tragico. Sia il comunismo sia questa globalizzazione si basavano sull’imperativo dichiarato da Rousseau nel suo Contratto Sociale: ‘chi osa intraprendere il compito di istituire un popolo deve sentirsi in grado di cambiare, per così dire, la natura umana’. Questo imperativo roussoviano era l’anima di tutta la modernità politica. Sia il nuovo uomo comunista, sia il teorico del gender, ne sono una conseguenza”. Covid-19 è la sconfitta dell’antropologia politica di JeanJacques Rousseau. “La modernità è stata il tempo delle rivoluzioni. La postmodernità è diversa: nessun sistema ne sostituisce un altro. I cambiamenti non avvengono più attraverso le rivoluzioni, ma attraverso le implosioni”.

Si sacrifica l’economia per fermare la pandemia. “Interi settori dell’economia sono in pericolo a causa del contenimento. La recessione è il risultato di questo contenimento: fallimenti aziendali, disoccupazione di massa, impoverimento, senza che sia ancora possibile individuarne le conseguenze politiche. Non è impossibile che, in risposta a questa depressione economica, causata dal congelamento volontario delle attività economiche, dai disordini della disperazione, dalle repliche di quelle vissute in Francia con i gilet gialli, possa infiammare l’Europa il prossimo inverno.

Il confinamento sta mettendo in stand-by l’intera economia globale. Come risposta alla pandemia, questo contenimento è economicamente irrazionale. Segna il trionfo della follia economica. Questo può essere spiegato solo utilizzando la teoria del sacrificio. La prosperità economica viene sacrificata per scongiurare la morte. Il confinamento è quindi paragonabile a un altare offerto in sacrificio. La maggior parte delle società ha sacrificato animali, che spesso erano di grande valore per loro, la nostra sta sacrificando una parte importante della sua economia. Offriamo la nostra prosperità economica come sacrificio alle divinità che siedono nel nostro inconscio collettivo, affinché ci risparmino la morte. Temiamo la morte perché non sentiamo più l’angoscia della morte. A causa di questo deficit di ansia, la morte ci sembra qualcosa di assolutamente estraneo. L’angoscia della morte, di cui Heidegger ha fatto una struttura costitutiva, permette di addomesticarla, perché è un’angoscia che accompagna tutta l’esistenza. La paura della morte è barbarica, nichilistica, l’angoscia della morte è civile”. Ma non è naturale rifuggirla? “Negli ultimi vent’anni, la dottrina militare della ‘morte zero’ è diventata l’alfa e l’omega della vita sociale. È migrata dai campi di battaglia della guerra alla vita civile. Agli occhi dei nostri contemporanei, è visto come molto di più del senso della vita: è visto come il senso comune stesso. Fin dall’infanzia, l’educazione ci nasconde i cadaveri. Siamo cresciuti come se fossimo immortali, mantenendoci volontariamente nell’ignoranza della morte. In breve: nell’ignoranza della vita umana. Non mancano le persone che hanno cinquant’anni e non hanno mai visto un morto. La vista dei morti è riservata a determinate professioni, ben definite. Nonostante la nostra negazione, la morte è sempre lì, anche se abbiamo deciso di distogliere gli occhi e i pensieri da essa. ‘La morte’, ha detto Lacan più di sessant’anni fa, ‘è la Realtà’. Quando tutto è solo virtuale, solo una cosa non lo è, la morte. La morte è dunque il limite contro cui si scontra questa società liquida, il Reale che rivela la sua assurdità quanto l’impostura del suo discorso. Deve poi essere

“Dietro alla linea Maginot del consumismo pensavamo di essere al sicuro. Al sicuro dalla morte. Al sicuro dalla vita”

“L’eroismo del personale medico ricorda quello dei soldati francesi nella fornace della Grande guerra”

“La prosperità economica viene sacrificata per scongiurare la morte. In autunno la pagheremo molto cara”

“In Francia, l’odio anticattolico è la passione collettiva dominante. C’è un feticismo del bio, del naturale, un animismo panteistico”

espulso dalla mente. Nascondiamo la morte, perché non può essere virtualizzata. E perché rivela l’impostura. Lei è la Realtà, perché resiste a tutto. Nascondendo la morte, la società liquida induce un disarmo morale, non è adatta ad affrontare una tragedia”.

Redeker non vede alcun riavvicinamento al cristianesimo. “In Francia, l’odio anticattolico è la passione collettiva dominante. Questo episodio non cambierà molto. Si passa invece da un’idolatria – quella degli oggetti di consumo a una sorta di commistione tra paganesimo e animismo, una feticizzazione della natura, del naturale. E’ un irrazionalismo più o meno panteista, già fortemente impiantato nelle menti attraverso il feticismo del naturale, la moda virale del bio, che sta per prendere il sopravvento da tempo. Inoltre, rischiamo di passare da un’illusione all’altra: dai sogni di una globalizzazione felice passiamo a quelli, favoriti dalla nuova religiosità della natura e dal cieco fanatismo del bio, della felice vicinanza”.

Quando la tragedia ritorna, le più grandi qualità umane riaffiorano con essa. “Sono la devozione, il sacrificio, tutte virtù di cui il coraggio è la radice. La tragedia porta sempre a una riumanizzazione. Le società occidentali avevano finalmente accettato senza dirlo qualcosa di curioso: se non c’è morte, tutto è perduto. Questo può essere inteso in modo paradossale: se la morte non esiste, nessuna struttura antropologica è naturale o eterna. Possiamo quindi armeggiare con la vita a nostro piacimento. Infatti, per la nostra società, la morte non esisteva più.

È dalla riscoperta della morte, resa possibile da questa pandemia, che le grandi verità di cui parli diventeranno evidenti nella mente della gente. Che le grandi domande metafisiche faranno ritorno. Il gesto di Socrate di accettare la cicuta è una metafora di questa fecondità della morte.

Max Scheler ha scritto pagine molto forti su questo argomento. La consapevolezza della morte è la fonte dei valori, è anche la fonte della sopravvivenza della civiltà e della specie. Lo riscopriremo. Ci sarà una riumanizzazione della morte. Perché una società si perde quando la paura della morte è più forte dell’amore per la libertà”

Intervista di Giulio Meotti, Il Foglio Quotidiano 25 aprile 2020

Le opere che illustrano l’articolo sono di Jean Michel Basquiat

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