LETTERATURA DAL PAESE

LETTERATURA DAL PAESE

Il teorico della paesologia Franco Arminio tenta il salto: da scrittore di qualità, appartato e insolito, a scrittore di successo, col rischio di scivolare nel banale e nel luogo comune.

La nuova letteratura impegnata segue soprattutto due strade, e non di rado le percorre entrambe. Da un lato denuncia le ingiustizie della società, per stigmatizzare il male; dall’altro si propone come terapia, per identificare il bene.

Il nuovo libro di Franco Arminio ha un titolo inequivocabile, La cura dello sguardo, e un sottotitolo perfino più eloquente: Nuova farmacia poetica. (Bompiani, Milano, pagg. 202, € 16).

Franco Arminio

Nella nota introduttiva, l’autore si presenta come un malato e insieme un guaritore, armonizzando due sottogeneri narrativi oggi fra i più diffusi: opere che raccontano un’infermità, opere che propongono qualche forma di assistenza o auto-aiuto. Alla confluenza tra i due ambiti, Arminio offre «istruzioni semplici», «consigli che posso dare, piccoli precetti fatti in casa» – dove l’accento cade tanto sull’artigianato, quanto sull’efficacia della scrittura («la poesia è letteralmente un farmaco»; «la lingua è una grande cura»; «la medicina del futuro è la poesia»). Anche al di fuori dei confini del libro, Arminio insiste molto sul sollievo che la letteratura non può più esimersi dal procurare; in suo recente intervento sulle pagine del «Corriere della sera» afferma che «scrivere è sollevare la trave che ogni giorno ci cade sulla pancia», e che «oggi nessuno ha tempo da perdere con la letteratura che non sa consolare, che non sa orientare».

Il cenno al tempo da risparmiare (per chi legge ma direi anche per chi scrive, visto che Arminio ormai pubblica un libro all’anno) collega con chiarezza la questione dell’effetto a quella delle forme. Per funzionare, cioè per agire sul numero più alto possibile di lettori, un testo deve essere veloce: «un mondo che si è fatto velocissimo richiede una letteratura semplice e breve, diretta e limpida»; «molti ancora indugiano a scrivere come se le persone avessero ancora tempo per star dietro ai giochi con la lingua». Certo, Arminio rivendica per sé una parola non solo semplice, ma anche «densa» (non c’è scrittore disposto a riconoscere di scriver male). E certo in teoria non c’è incompatibilità tra linearità del dettato, apertura al pubblico e ricchezza culturale e psicologica. Ma in pratica è davvero questo il caso della Cura dello sguardo? Quanta densità contiene questa parola diretta e superveloce?

Aprendo il libro di Arminio troviamo innanzitutto una grande quantità di “poesia”, intesa come emotività decomplessata; ma una poesia che si dispiega quasi sempre nella prosa – cioè senza la fatica, la scommessa e il rischio dell’andare a capo (i testi versificati sono sei in duecento pagine). Il lirismo in questione è apertamente sentimentalistico: si esprime attraverso analogie canoniche («l’anima non è nient’altro/che una rosa»), o similitudini acrobatiche («ora ho il cuore come un pulcino e la punta si solleva, si apre, come se potessi nutrirlo di qualcosa») – le une e le altre potranno essere considerate, a seconda dei punti di vista, di energico impatto emotivo, e quindi di comprovata efficacia, oppure di raggelante cattivo gusto. Vengono somministrate – è il caso di dirlo, trattandosi di una farmacia poetica – forti dosi di oltranza metaforica («uscivano frasi piene di vento»), alternate però a fraseologia corriva («Il Molise è un luogo appartato e schivo»): una miscela di pathos e luoghi comuni sempre più frequente nelle scritture contemporanee che non hanno o non vogliono più avere il tempo di rileggersi. Simmetricamente, sovversioni ben temperate («Nessun giorno senza un rischio», «Sia benedetto ogni vizio») fanno macchia ogni tanto tra molte considerazioni di generosa ovvietà, dalle quali dissentire è impossibile («siamo troppi e troppo invadenti rispetto alle altre creature del pianeta»; «dobbiamo trovare il modo di tenere vivo l’amore»; «dobbiamo frenare l’isteria di questo mondo»).

Prevale un clima diffuso di fiducia e speranza («Esulta per la cena, per il sonno, per l’abbraccio, canta ogni letizia, ogni terrore»), che non rinuncia però a qualche escursione drammatica («ogni attimo è un testamento»), e a qualche generica, innocua, perfino tenera insubordinazione a un potere non meglio identificato («a un metro nemmeno il suo odore puoi sentire. Chi comanda è contento di questa spartizione»; «non ci vuole la normalità, ci vuole la rivoluzione»). Le strizzate d’occhio ai grandi eventi della cronaca (dal coronavirus al crollo del ponte Morandi) convivono con rinvii magniloquenti a grandezze assolute («Ci vuole un testimone per i nostri incontri, un garante dell’infinito»).

Come si vede la sintassi è piana, liscia, elencatoria – al riparo da complicazioni inutili come subordinate o incisi, semmai disposta alle pause e allo stile nominale. Anche perché raramente le prose superano la misura della singola pagina; il metro più comune è quello del foglio di diario, o dello status da social, solcati entrambi da formule predicatorie («Se decidete qualcosa, che sia una decisione chiara»), o slogan veri e propri («Carezze e intimità per tutti»). Lessico basic, in sintonia morale col «dovere di essere limpidi»; ogni tanto qualche neologismo per segnare col minimo sforzo uno scarto “artistico” dalla lingua comune («questi attimi di bene che si scastrano dal muro della mestizia»). Colpisce non solo nella lingua ma nella struttura stessa del libro il tasso scarsissimo di allusività; così decontestualizzati e soli, i pochi contatti con la tradizione letteraria hanno il sapore del plagio più che del dialogo («Ho scoperto che si può fare l’amore con un’ombra, ombre noi stessi» è per esempio un calco montaliano: «ma è possibile,/ lo sai, amare un’ombra, ombre noi stessi»). Anche questo significa andare veloci: risparmiare al lettore il confronto con forze remote e sempre meno decifrabili come il passato culturale, limitarsi a prelevare di peso un frammento memorabile e usarlo a scopo suggestivo.

Può sembrare bizzarro che un autore come Arminio, da sempre identificatosi con la poesia della civiltà contadina – che è logico associare alla lentezza, se non proprio all’immobilità – si presenti adesso come un campione della fretta, che accosteremmo piuttosto alla tecnologia, al digitale, ai mass media. Ma in realtà non c’è contraddizione: l’apologia della marginalità e del tempo lungo («mi piacciono i luoghi scartati», «la purezza dei contadini di ottant’anni»), come il rifiuto della tecnologia («lasciare il telefonino per un paio di ore al giorno»), si esprimono nella Cura dello sguardo attraverso uno stile sbrigativo, frammentario e senza spigoli che è tutt’altro che “periferico”, ma al contrario dominante, imperialistico e social. Il tutto lubrificato da un pensiero a sua volta veloce, perché consensuale: perfettamente sincronizzato al senso comune di quelli che Arminio riconosce come i suoi lettori. L’adesione alla periferia è quindi un mero contenuto (alla moda, tra l’altro); la gamma delle scelte di stile è di fatto la più globale che esista, la più vicina alle regole della comunicazione di massa. E come la comunicazione stessa, Arminio si fa veloce e facile per essere alla portata di tutti.

Nella Cura dello sguardo c’è un passo, rivelatore, in cui chi scrive esprime il proprio umanissimo bisogno di conferme: «Ho sempre cercato vanamente l’approvazione del paese, come quella del padre. Ma forse per un poeta questa è la cosa più difficile». Infatti. Per molto tempo Arminio ha cercato l’approvazione della critica, che lo ha consacrato scrittore “di qualità”; adesso cerca l’approvazione di un pubblico vasto, che lo consacri scrittore “di successo”. E tuttavia non si può dire che il suo impianto retorico sia sostanzialmente cambiato (come non è cambiato il suo ansioso bisogno di padri); si è solo adeguato a un posizionamento differente, attenuando i marcatori stilistici associati alla qualità “per pochi” (per esempio il registro lugubre e autoptico, l’ipocondria nera, l’ironia fantastica, la fissità elencatoria) ed enfatizzando quelli che si associano alla letteratura “per tutti” (per esempio l’enfasi sentimentale, lo slancio terapeutico, i picchi patetici, i dispositivi oratori). Ma gli uni e gli altri erano già presenti nella sua scrittura; lo provano veri e propri remix, per cui brani della Cura – «sono stato bene solo nel 1979, tra novembre e dicembre» – si rivelano minime interpolazioni di testi che Arminio ha pubblicato dieci anni fa, in libri celebrati dalla critica più esigente («Ugo Fusco si è sentito bene nel 1976, tra maggio e giugno»).

Il percorso di questo autore, al di là di ogni liquidazione o idolatria, è interessante per almeno due ragioni: mostra dove va la letteratura che vuole farsi leggere da molti, e quale prezzo può pagare per realizzare questo scopo; fa riflettere sulle contraddizioni della critica – su come la qualità, al pari dell’impegno, possa rivelarsi niente più che un’etichetta.

Articolo di Gianluigi Simonetti per il Sole 24 Ore

Su Franco Arminio puoi trovare qui www-ninconanco.it/paeseologia/ e  www.ninconanco.it/da-trevico-irpino-la-riscossa-delle-comunita/

INCENDI IN CALIFORNIA: I FUMI ARRIVANO IN EUROPA

INCENDI IN CALIFORNIA: I FUMI ARRIVANO IN EUROPA

La drammatica sequenza di incendi che hanno flagellato la costa ovest degli Stati Uniti ha, per la prima volta, evidenziato conseguenze anche in Europa: lo rivelano i dati del servizio Copernicus Gli Stati Uniti bruciano, dall’Oregon alla California – dove sono attivi 37 roghi – la situazione è drammatica e mobilita l’intervento di oltre 17mila pompieri che, da giorni, stanno lavorando senza sosta.

Con danni ingenti – 34 vittime già accertate, oltre 60mila persone evacuate e un’area grande quanto lo stato del Connecticut andata in fumo dall’inizio dell’anno. E ora, attraverso i dati del Copernicus Atmosphere Monitoring Service (Cams), implementato dal Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio raggio da parte della Commissione Europea, viene alla luce che questi incendi sono significativamente più intensi rispetto alla media 2003-2019 per l’intero Paese e per gli Stati colpiti.

Il servizio Cams, che tiene sotto controllo quotidianamente giornalmente gli incendi nel mondo utilizzando osservazioni satellitari basate sulla loro intensità, per stimare le emissioni di inquinanti atmosferici, ha tracciato il lungo raggio di trasporto del fumo fino a 8.000 chilometri di distanza, verso il nord Europa. Gli incendi che stanno bruciando in California da metà agosto, in Oregon e Washington dalla metà di settembre, hanno emesso una grande quantità di fumo denso che ha colpito una vasta area.

Nelle prossime settimane gli scienziati di Cams continueranno a monitorare l’intensità degli incendi e del fumo rilasciato. Spiega Mark Parrington, Senior Scientist ed esperto di incendi presso Cams, “la portata e l’entità di questi incendi sono ad un livello molto più alto di quelli registrati nei passati 18 anni secondo i nostri dati raccolti dal 2003. Un buon indicatore della densità del fumo è la profondità ottica dell’aerosol (Aerosol Optical Depth, Aod). Negli Stati Uniti occidentali, abbiamo notato che i livelli di Aod hanno raggiunto valori molto alti, di sette o più, che sono stati confermati da misurazioni indipendenti al suolo. Per mettere questi dati in prospettiva, un Aod di uno indicherebbe già molti aerosol nell’atmosfera. Il monitoraggio delle condizioni atmosferiche di Cams è vitale in situazioni come queste e fornisce ai responsabili delle decisioni e ad altri individui le informazioni necessarie per fare scelte consapevoli riguardo alla propria salute e alla salute degli altri“.

Temperature estive sopra la media Lo stress termico è stato molto elevato, come rilevato dal servizio europeo Copernicus che ha registrato lo scorso agosto come il quarto più caldo di sempre, con temperature particolarmente sopra la media nel sud-ovest degli Stati Uniti d’America, nel nord del Messico, nel nord-ovest della Siberia e sulla maggior parte dell’oceano Artico. Le temperature dell’aria sopra l’oceano sono state per lo più sopra la media, sebbene nell’emisfero Australe numerose regioni abbiamo registrato temperature al di sotto della media. In Europa l’estate ha registrato temperature di 0,9 gradi centigradi al di sopra della media, ben al di sotto della media dei periodi estivi più caldi registrati nel 2003, 2010, 2018 e 2019. Diverse ondate di caldo hanno causato temperature molto più alte della media in Europa centrale e occidentale, mentre il numero di giorni con stress termico categorizzato come molto forte è stato simile a quello dell’estate 2019 e minore di quello dell’estate del 2003. Entrambi gli anni hanno registrato intense ondate di caldo nella stessa regione.

Articolo apparso a cura della redazione su Green Planner – Fonte: Servizio di monitoraggio dell’atmosfera di Copernicus,

SORDI MEMORIAL

SORDI MEMORIAL

Passeggiata nella dimora-museo di piazzale Numa Pompilio in Roma. Le reliquie, gli amori e i misteri che riempirono la vita di un mito, l’Albertone nazionale.

Passavo e vedevo questa casa”, dice Albertone a Mike Bongiorno, in uno dei tanti video d’epoca esposti. Mike, con l’entusiasmo americano: “E’ una villa molto antica! Esisteva da quando lei era già bambino!”. Sordi, sordianamente: “Lo credevo un convento di frati”. Perché le tapparelle erano sempre chiuse. E sempre rimarranno, nella casa un po’ Chateau Marmont un po’ Vittoriale degli italiani che finalmente ha aperto al pubblico a Roma, in una grande mostra già visitatissima che casca a fagiolo con le celebrazioni per Roma Capitale (che sarebbero l’anno prossimo ma la Raggi si è portata avanti).


La villa di piazzale Numa Pompilio, dove Alberto Sordi visse dal 1958 fino alla sua morte, nel 2003 (@ Reporters Associati & Archivi Srl )

Le tapparelle leggendarie chiuse, anzi socchiuse, solo a fare entrare un filo di luce erano da sempre, con l’attore in vita, attrazione che a Roma ti mostravano una volta giunto in città, monumento ufficioso all’Albertone nazionale e comunale. Dalla strada vedevi questo casone abbastanza assurdo a partire dalla collocazione, tra le terme di Caracalla e il Colosseo e la Fao, non dunque in centro ma neanche fuori – e pensare che l’Appia Antica con le sue signorilità (Valentino, Lollo, Zeffirelli, Loren-Ponti) è lì dietro l’angolo. Albertone visita diverse proprietà ma nessuna lo soddisfa, e non gli piace forse quella atmosfera da Sunset Boulevard, lui vuole una casa in mezzo ai monumenti, una domus per quel ruolo da “Last emperor” che i romani volentieri gli attribuiscono.

Sordi con le sorelle

Oggi si sale da piazzale Numa Pompilio tra il traffico bestiale tornato ai livelli pre Covid, si salgono stradette ed ecco il cancello ed ecco il casone, che Sordi compra cash nel 1954. Il rogito, esposto qui in foglio protocollo originale, è redatto il 20 maggio dal notaio dott. Eugenio Gelpi di Milano. La proprietà viene ceduta con una procura generale della signora Vittoria Consonni fu Ambrogio in rappresentanza del marito, “Sua Eccellenza Cav. di Gran Croc. Dott. Alessandro Chiavolini”, che era stato un ministro fascistissimo, già aiutante di Mussolini, processato e amnistiato (ecco perché Sordi pensava che fosse un convento. La casa era chiusa, Chiavolini esiliato a Milano). Il notaio certifica la vendita di un “villino con annessa autorimessa e adiacente area a giardino situato in via Druso numero 45”. Figlioccio di Augusto e fratello di Tiberio, Druso, nato nel 38 a. C., sposa la figlia di Marco Antonio, è un personaggio con una vita privata piattissima, fedelissimo lui, fedelissima pure la moglie (sarà sembrato un viatico, un presagio?).

Più che villino è un po’ domus romana e un po’ San Michele a Capri, però color ocra da castello mediceo: costruito con le migliori tecniche d’epoca, con vasto uso di cemento armato, dall’archistar romana Clemente Busiri Vici. L’acquisto è molto sordiano: la vede e la compra subito, in contanti, dieci milioni di lire, per scoprire poco dopo che Vittorio De Sica l’aveva vista pure, e ci aveva fatto un pensiero. “Ma scusa, tu ce li avevi i soldi in contanti?”, gli chiede diretto Sordi. “No, non ce li avevo”, risponde De Sica, e sembra una scena del conte Max, con Sordi che tiene il malloppo per andare in vacanza a Capracotta, e il conte Max Orsini-Varaldo che ormai vive di ricordi e offerte libere. “Io invece sì”, risponde Sordi, che ha definitivamente ingranato: nel ’54 ha trent’anni e 13 suoi film in sala, addirittura: tra cui “Un giorno in pretura”, “Un americano a Roma”, “Il seduttore”, “Accadde al commissariato”. Ha l’energia di un ragazzo ma l’esperienza di un uomo (come dirà il Dentone). Pronto per farsi la villa e convolarvi non con qualche star o starlette, bensì con le due sorelle amate, Savina e Aurelia.

I lavori dureranno due anni, e trasformano il casone in una summa di signorilità hollywoodiano-trasteverina; rustico tirato al fino, come direbbe Franca Valeri, quell’antico moderno che è er segreto di Roma. Ecco dunque le griglie dei condizionatori d’aria d’epoca in travertino; e gli interruttori della luce istoriati tra anfore e colonne e portici. La cosa più interessante è di sicuro il gran teatro al piano terra: un vero grande cinema-teatro all’americana, con loggione per il proiezionista e divanetto per gli ospiti, in alto, e fondale dipinto da Gino Severini che sembra quello di Carosello. A parte l’odore di chiuso, pare di poter respirare una rarissima polvere di stelle italiana: a quel piano, sul palco, Piero Piccioni suonava le marcette che poi sarebbero diventate i tormentoni dei film di Sordi; e Albertone stesso si esibiva per gli ospiti. Il cinema-teatro ricorda quello di San Simeon, l’altra dimora pazzotica di William Randolph Hearst nelle alture californiane, e il cinema con le poltroncine enormi (e in ultima fila i sedili economy class per il personale); e telefoni, anche qui, ovunque. Doveva essere un gran parlatore al telefono, Sordi, perché la casa è disseminata di apparecchi; ci sono quelli dorati, ce ne sono di bachelite, di plastica, a disco, a tasti: anche nel celebre camerino-barberia accanto alla camera da letto. Due, dorati, finto-antichi, sulla scrivania dello studio, tra pulsantiere annerite, la foto dei genitori sulla scrivania (severissimi, papà con baffi e bombetta, sembrano due briganti) e quella di Soraya con dedica, una targa di macchina californiana con le palme (“Alberto”), e tante enciclopedie Treccani impolverate.

Villa Sordi

Chissà se aveva anche lui un telefono con filo lungo un chilometro come Hearst, per muoversi agevolmente nella tenuta, prima dell’invenzione di cordless e cellulari, e però l’impressione è davvero di ritrovarsi tra le reliquie dell’unico star system possibile italiano. E dunque ancora più interessanti gli arredi e il mood. Arrivando nello studio, accatastati: piatti, pendole, cucù, stemmi, cavalli rampanti. Telegatti accanto a una Madonna con bambino simil Beato Angelico, e sculture bronzee da trattoria; il ritratto a olio che gli fa Rinaldo Geleng (una specie di Annigoni che faceva le locandine per Fellini); tre de Chirico, un de Pisis con un vaso di fiori smorto, il tutto salendo lo scalone di porfido rosso che immette in un salottino Luigi XV da madame Pompadour o moglie di dentista al Fleming. “Se non fossi stato attore sarei stato antiquario”, diceva, e pare andata meglio così. C’è anche un angolo penitenziale tutto rivestito di velluti, con le foto di Albertone con due Papi (Wojtyla e Ratzinger). Due unici pezzi di design, in tutta la casa, forse casuali: una Olivetti Lettera 35 di Mario Bellini, e lo stereo RR126 di Castiglioni per Brionvega, qui in una rara versione lignea: così anche questa minima forma di contemporaneità scompare tra vedute, bronzetti, scuole napoletane, Pannini, nature morte, legno e finto legno, a foderare l’epicentro di uno star system dei migliori anni di Roma Capitale, i Cinquanta-Sessanta di Hollywood sul Tevere, e della commedia all’italiana. Secondo il catalogo della mostra curata da Alessandro Nicosia, qui affluivano Agnelli, Monicelli, Steno, Fellini, Andreotti, Gassman. Soraya, sempre lei. Tutti.

Ingresso col cavallo di Nestore, l’ultimo viaggio

Nel ’72 però muore la sorella Savina e l’incanto si rompe e tutto il glamour sordiano cessa di colpo, e la casa di via Druso diventa teatro e monumento del cupo ménage domestico, con la sorella superstite Aurelia che a tutto sovrintende; lei gli sopravvive, e in coda ci saranno le note vicende ereditarie spiacevoli, coi parenti sconosciuti, e l’eredità contesa. Ma il ménage sordiano, prima e dopo la dipartita di Savina, rimane uno dei misteri da Notte della Repubblica.

In giardino c’è un roseto e un cimiterino per i cani; a ogni morte viene piantata una rosa; e una madonnina a cui viene destinata la preghiera mattutina, racconta il curatore. E saremo forse nel novero di quegli idilli ottocenteschi alla Pascoli, con le sorelle e i fratelli a dormire legate con uno spago alle dita dei piedi, dopo le preghiere della sera: ma qui nella grande mostra una sezione della tensostruttura esterna, costruita sulla piscina, viene dedicata espressamente alle donne e alla beneficenza, insomma i misteri sordiani. Ricevute degli enti benefici riconoscenti, e soprattutto pubblicistica sul cuore dell’attore: “Fu un vero sciupafemmine”; “Salta da un fiore all’altro”; “Non prese mai moglie ma fu sempre circondato da donne” (ahia). Grandi amori infelici: Anna Magnani e Silvana Mangano. Spose future e fidanzate più o meno probabili vengono regolarmente abbandonate, sempre in base al concetto di “discrezione”; “Lui pretendeva la massima discrezione” – ma per cosa e da chi? Per non far arrabbiare le sorelle? Avranno sofferto durante i balli, vogliose di averlo solo per loro? Sul terrazzo più alto, collegato alla camera da letto, un ascensore collega direttamente al giardino, per non essere visto (di nuovo, dalle sorelle?).

Salone villa Sordi

Ci vorrebbe un Garboli a indagare su questa Castelvecchio sul Tevere: ma ecco pure una certa Anna Lucia conosciuta da giurato da miss Italia, la milf Andreina Pagnani, maggiore di lui di quattordici anni, grande amore della sua vita, si dice. Una nubenda austriaca, Uta.

Più che villino è un po’ domus romana e un po’ San Michele a Capri, però color ocra da castello mediceo.

La cosa più interessante è di sicuro il gran teatro al piano terra: un vero grande cinema-teatro all’americana.

Nel ’72 muore la sorella Savina e l’incanto si rompe e il glamour sordiano cessa e la casa diventa teatro del cupo ménage domestico.

“Non si tiene mai abbastanza conto del fatto che Sordi fosse veramente mezzo matto”, scrive Rodolfo Sonego.

Stanza da letto di Sordi

Franzmair che viene a Roma coi genitori pronta per la cerimonia e viene rimbalzata da un segretario perché “siamo molto occupati” (poi Franzmair si chiamerà l’ascensorista tedesco che deve progettare l’uxoricidio nel “Vedovo”). Rapporti platonici o immaginari o idealizzati o sublimati per la necessità di indossare la maschera dell’eterno seduttore, una delle tante di questo eccelso attore? Mistero, altro mistero. Intanto per non saper né leggere né scrivere vengono elencate e vidimate anche un sovrappiù di signore apparse in gossip forse mai verificati: “Negli anni Ottanta, Sordi vive un amore con la annunciatrice tv Roberta Giusti, corteggia Katia Ricciarelli, Iva Zanicchi, frequenta la contessa Patrizia De Blanck” (sic) .

Ah, se questo travertino potesse parlare! “E’ lo schermo che è diventato piccolo, io sono ancora grande!”, avrà detto lui, mentre la sorella Aurelia, una specie di alter-ego femmina, girava tipo Max von Sydow a rigovernare cimeli e trofei che qui sono ammassati tra uniformi di vigili e costumi da marchese del Grillo? O sarà stato invece come in “Troppo forte”, film dell’amato Verdone, in cui Sordi un giorno è un avvocato pazzoide e l’altro è un ballerino classico molto fluido, in una casa un po’ folle e queer con la mamma e la zia?

La barberia privata

Atroci sospetti: ma forse anche in quest’ambiguità del grande seduttore spregiudicato che però vuol bene solo alle sorelle starà l’enorme identificazione di Sordi con un pubblico italiano molto macho, ma poi disposto a tutto soprattutto per mammà.

Al funerale, partecipazione commossa-isterica anche di una città che non si commuove facilmente. I vigili urbani e la Roma e il Messaggero su cui talvolta scriveva, che poi farà la pagina straordinaria “Ciao”, il giorno della morte, che chiude un’epoca. Pezzo di Veltroni: “La grande anima di Roma”. Attacco: “La notizia è come un colpo di frusta…”. In chiesa, Carlo e Franca Ciampi, pallidi. Striscioni della folla: “Tu sei tu e noi nun semo un cazzo” (che popolo!). E però la Padania: “E’ morto un attore romano”, a sottolineare un’alterità.

Alterità rimossa fin da subito, nella consacrazione in vita e postuma come “arci italiano” o “italiano medio”, identificazione totale stranissima quando poi Sordi è stato tutto tranne che questo. Considerato pigro, romano, indolente, fu invece stakanovista al lavoro e sulla pellicola. Sordi e i suoi personaggi hanno disperatamente sempre cercato di cambiare il loro status: dalla famiglia povera di Trastevere, fino al villone, come i suoi personaggi Sordi ha sempre desiderato e lavorato molto. Poteva essere un mercante d’armi (“Finché c’è guerra c’è speranza”), di mobili (“In viaggio con papà”), un medico più o meno corrotto (“Il prof. dott. Guido Tersilli”), un giudice integerrimo (“Tutti dentro”) un giornalista idealista-incapace e mitomane (“Una vita difficile”), ma tutto si può dire tranne che se ne stesse con le mani in mano. Non c’è stato nessun altro che abbia lavorato così tanto nel cinema italiano. Con Sordi anzi ci sono stati gli ultimi personaggi che hanno lavorato nel cinema italiano. Da lì in poi saranno tutti intellettuali in crisi, disoccupati in crisi, tossici in crisi.

I costumi scenici

C’è un illustre filone capeggiato da Rodolfo Sonego secondo cui l’unica chiave per capirlo è quella della pazzia (Andrea Minuz e io, piccoli fan di entrambi, siamo d’accordo). “Non si tiene mai abbastanza conto del fatto che Sordi fosse veramente mezzo matto”, scrive Sonego. E qui nella villa, cimeli e reperti della prima fase della sua carriera, quella in cui i personaggi erano incomprensibili e nevrotici – il conte Claro, Mario Pio, il compagnuccio della parrocchietta, il signor Dice: surreali e irritanti. Poi dopo Sordi diventerà mainstream, ma sempre tenendo viva una componente di follia: nel “Vedovo”, “primo film italiano che mette in scena la nevrosi”, secondo Tatti Sanguineti, Sordi progetta appunto l’uxoricidio, appena uscito da una clinica psichiatrica (ma a casa Sordi e nella mostra, incredibilmente, non c’è una sezione dedicata a questo film).

Dunque: o si accetta il fatto che l’italiano medio è mezzo matto, o non si comprende l’immedesimazione. “Fai colazione in villa o in grattacielo?”, chiedeva Sordi alla sua Elvira, sempre nel “Vedovo”. Lui di sicuro preferiva la villa. E se D’Annunzio nel suo Vittoriale teneva la nave Puglia e un cannone da cui talvolta sparava vere palle sui contadini inermi, qui nel vittoriale degli italiani matti non c’è cannone, basta quello del Gianicolo di fronte. Però guardando bene una piccola nave c’è: un modello di triremi romana, in giardino, dipinta in giallorosso, come la Roma, sotto un portico. Sordi, dicono, la riempiva di muschio e ci faceva il presepe, a ogni Santo Natale. Negli altri giorni, ci metteva i cocktail e vi serviva gli aperitivi, galleggianti, in piscina. Chissà che avranno detto le sorelle.

Articolo di Michele Masneri per Il Foglio Quotidiano (www.ilfoglio.it)

COME CI SIAMO DIVERTITE

COME CI SIAMO DIVERTITE

AVEVO VENT’ANNI– NELLA STORIA DI UN COLLETTIVO STUDENTESCO LE ASPETTATIVE E I SOGNI DELLA GENERAZIONE CHE HA VISTO LA FINE DEL COMUNISMO E COLTIVATA L’UTOPIA DEI FIORI AL POSTO DEI CANNONI.

Mi è capitato fra le mani un libretto edito nel 2007 da Feltrinelli. E’ intitolato Avevo vent’anni e raccoglie le testimonianze di un collettivo studentesco dell’università di Bologna, facoltà di giurisprudenza, cui lo stesso autore Enrico Franceschini ha fatto parte nel 1977.  

Come si legge nella copertina è “un viaggio a ritroso nel passato che va dalle Alpi alla Sicilia, per ritrovare i vecchi compagni degli anni della università, per confrontarsi sulle passioni, i sogni, le speranze della giovinezza, per scoprire cosa ne è rimasto, trent’anni dopo.”

Fra tutte le testimonianze mi ha colpito quella di Paola, figlia unica di un avvocato catanzarese, “tirata su come un uomo”, sposata due volte e due volte separata, senza figli. Ne riporto le parti salienti.

Perché Bologna?

“Scelsi Bologna perché aveva fama di buona facoltà, e di città per bene, civile, tranquilla, la sentivo più adeguata a me. E non rimasi delusa, perché Bologna è innanzitutto una città medioevale, forse bisogna venirci a stare da fuori per accorgersene, ha delle mura, delle porte, dei colori, che a Miano (dove aveva frequentato filosofia, ndr) non esistono e che nell’edilizia selvaggia della mia Calabria non si possono nemmeno lontanamente immaginare.

Il senso di armonia che provavo camminando per Bologna era di per sé una sensazione meravigliosa. E dire che oggi la trovo infrequentabile, sono tornata una volta in piazza Verdi e istintivamente mi sono stretta la borsa al petto, e dire che io sono una che non ha paura del diverso, ma avverto l’impossibilità di comunicare con quella gente lì. Bologna è una città normalizzata, mi è totalmente estranea. Sarò cambiata io, o è cambiata lei? O lo siamo entrambe?”

Fra femminismo e lotta armata

“Nel mio gruppo di donne, a Bologna, a nessuna veniva in mente di passare all’Autonomia operaia, o tanto meno alla lotta armata, perché ci divertivamo troppo a fare i girotondi ai cortei o in piazza Verdi, fra un’assemblea, una riunione del collettivo femminista e una lezione. Non c’erano limiti alle nostre possibilità-ecco perché quegli anni mi piacquero così tanto. Era la fine della speranza nel futuro, perché noi vivevamo la speranza nel presente, non dovevi più dire <domani, domani, domani>, potevi finalmente dire <oggi>.

Dici che era un’illusione, che poi tutte le speranze le abbiamo perdute? Non lo so. Le donne, per dirne una, non hanno perso…. Penso che il femminismo abbia vinta la sua battaglia, perché quando incontro ex ventenni come me, donne che oggi hanno cinquant’anni, e le trovo belle, rispettose, giuste, e mi sento orgogliosa di loro.” … Ma poi non penso che solo le femministe fossero immuni dall’estremismo dell’Autonomia operaia o della Brigate rosse.

Qualcuno di noi che finì nella lotta armata ovviamente c’era, e c’era pure chi spaccava vetrine e aveva il mito della P38… ma quanti erano rispetto al tutto, alla massa di compagni e studenti?… non dico pochissimi ma pur sempre una esigua minoranza rispetto a centinaia di migliaia, forse a un milione, di giovani che in quegli anni scendevano in piazza e facevano politica.”

I rapporti col PCI

“Vuoi sapere se mi sentivo comunista o cosa? Guarda, per me il comunismo era la leggerezza del pensiero, la rappresentazione di una profonda umanità, dietro alla quale si intravvedeva forse anche la nostra matrice cattolica di bravi italiani. Nel ’68 c’era stata l’invasione sovietica della Cecoslovacchi per mettere fine alla primavera di Praga, io uscii per protesta dalla Fgci e da allora mi sentii al di fuori della merda comunista.

Quanto a Mao, degli orrori delle Cima maoista sfortunatamente ne sapevamo poco o niente, ma non eravamo i soli. Oggi? Oggi sono una che non ha il coraggio di votare a destra e dunque continuo a dare il mio voto a un’area di sinistra… la mia appartenenza politica è con il passato, non con il presente, anche se, sia ben chiaro, odio i reduci e il reducismo”

Le priorità d’oggi e i rimpianti

“Le mie priorità? Il lavoro, le relazioni corrette con il prossimo, gli slanci, la tenerezza, l’essere ancora capace di sentire i bisogni altrui e tentare di fare qualcosa per soddisfarli, il senso di appartenere a una famiglia allargata…Be’, se morissi stanotte andrebbe bene lo stesso: ho vissuto con pienezza, non voglio morire arrabbiata. Non mi hai preso in un buon momento, mi interessa ancora fare delle cose ma vorrei fosse più semplice, invece è diventato tutto troppo complicato, nelle relazioni, e nel lavoro mi pare di fare troppa fatica. Sai qual è il problema? Non mi diverto più. E invece noi, quando avevamo vent’anni, minchia come ci siano divertite”

PAVESE, IL DISERTORE?

PAVESE, IL DISERTORE?

E se Cesare Pavese fosse il nostro minuscolo Céline? Ci sono tanti modi per celebrare l’anniversario del grande scrittore. La rievocazione, l’apologia, il ritratto poetico. Oppure una rilettura della sua parabola umana e intellettuale attraverso il ricordo, a lungo rimosso, di una «bizzarria della storia culturale italiana». Il caso Pavese. Ne parlarono, per un’estate, tutti i giornali italiani, e anche francesi.

Cesare Pavese

E poi l’oblio. Era l’agosto 1990, trent’ anni fa. E si celebrava, allora come oggi, la morte di Cesare Pavese, uccisosi il 27 agosto 1950, a Torino, in una camera dell’albergo «Roma». Dieci bustine di sonnifero. La bio-bibliografia letteraria di Pavese è nota, e non è il caso di citarla. Il suo percorso politico invece si può sintetizzare in poche date: nel ’32-33 acquisì la tessera del Fascio; nel ’35 fu condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro per attività sovversiva; nel ’36 rientrò a Torino in seguito a una domanda di grazia accolta dal Duce; nel ’45 si iscrisse al Pci.

Da lì in avanti il nome di Pavese torinese, einaudiano, comunista divenne il simbolo della miglior intellighenzia antifascista. Fino a quando poche pagine di un quadernetto, fino a quel momento ignoto, cambiarono l’immagine e il giudizio sullo scrittore. Di cosa parliamo? Del Taccuino segreto di Cesare Pavese. Un bloc-notes di una trentina di pagine al quale tra l’inizio del 1942 e il dicembre 1943, quando era rifugiato sulle alture della campagna piemontese, prima a Serralunga di Crea poi al Collegio Trevisio di Casale Monferrato, il poeta affidò alcuni appunti sparsi. Il quadernetto fu trovato dal giornalista Lorenzo Mondo fra le carte dello scrittore a casa della sorella Maria, nel 1962.

Ne fece delle fotocopie e poi lo consegnò a Italo Calvino negli uffici torinesi dell’Einaudi. Passò del tempo, del taccuino non se ne seppe più niente, Calvino non prese in considerazione la possibilità di pubblicarlo, e poi sparì (ma rimasero, per fortuna, le fotocopie). Finché l’8 agosto 1990 Lorenzo Mondo decise di rendere pubblici gli appunti di Pavese su La Stampa.

E qui inizia un vero dramma esistenziale per l’intellighenzia italica. Le annotazioni di Pavese sono una bomba. Lui, antifascista e poi iscritto al Pci, in quei foglietti si lancia in invettive contro gli antifascisti e la loro stupidità, riflette sul fascismo come disciplina di vita utile agli italiani (il fascismo che ha il grande merito di dare al popolo italiano una vera visione dello Stato), parla con tono indulgente di Mussolini e della Repubblica di Salò (e spera che possa emergere vincitrice dalla guerra poiché questo nuovo fascismo rappresenterebbe un ritorno al progetto iniziale del primo manifesto di Mussolini), arriva persino quasi a giustificare gli eccidi nazisti (anche i rivoluzionari francesi facevano cose simili).

Capite che non si tratta di vezzi di un intellettuale irregolare, di pose di un irriducibile enfant terrible Qui siamo di fronte a posizioni radicali. All’epoca l’estate 1990 si scatenò una polemica feroce. La pubblicazione del taccuino infiammò la stampa, scatenando una campagna diffamatoria senza precedenti (si accusò persino lo scopritore del quadernetto: meglio avrebbe fatto a starsene zitto).

In una sorta di isteria collettiva i vecchi amici di Pavese, ex partigiani e critici letterari fecero di tutto per smentire, smussare, contestualizzare e addirittura confutare l’autenticità del documento (qualcuno arrivò a dire che magari si trattava di prove narrative: gli appunti come pensieri da mettere nella testa del protagonista di un romanzo).

Fernanda Pivano

Giancarlo Pajetta definì Pavese «vigliacco e disertore». Fernanda Pivano confessò: «Io l’ho sempre idealizzato come un antifascista puro. Leggere questo taccuino mi fa sentire come se mi avessero pugnalato alla schiena». Mentre Luisa Sturani definì Pavese «un eterno adolescente, un uomo tormentato, nevrotico». Soprattutto né la Einaudi né altri editori se la sentirono di pubblicare lo scomodo taccuino. Che rimase confinato in ritagli di giornale e fotocopie pirata. Fino a oggi.

Un altro editore torinese, meno ideologizzato e più elegante di Einaudi, ha portato a termine un’operazione filologicamente inappuntabile pubblicando in volume la trascrizione degli appunti con l’anastatica delle 29 pagine del bloc-notes, un intervento di Angelo d’Orsi che fa da introduzione, la testimonianza di Lorenzo Mondo, una lunga nota della curatrice, Francesca Belviso, e un’appendice con gli articoli di stampa che nel 1990 diedero corpo al caso Pavese (fra gli altri, di Mario Baudino, Pierluigi Battista, Franco Ferrarotti, che parla dei letterati italiani come «i campioni del pettegolezzo e delle grandi cene intellettuali in terrazza», Gianni Vattimo, Natalia Ginzburg, forse la più indulgente con il vecchio amico). Ed eccolo qui l’ultimo inedito pavesiano a non aver mai visto la luce in un libro Einaudi: Cesare Pavese, Il taccuino segreto (Aragno, pagg. CXXVI+174, euro 25).

Da notare che il testo del Taccuino è stato raramente oggetto di analisi da parte di critici e specialisti, che hanno preferito dimenticare le contraddizioni – altri direbbero le fragilità – di uno dei nomi più alti del nostro 900 letterario.

Italo Calvino

Il quale, grandissimo poeta e romanziere, fu incapace come nota Francesca Belviso nel suo imperdibile ritratto in chiaroscuro dello scrittore di sciogliere il suo vero dilemma: «esser nato nella culla dell’antifascismo italiano, crescendo accanto a uomini della tempra di Leone in uno dei bastioni della lotta partigiana e della cultura engagé e costituendo in tal modo una sorta di eccezione». La realtà, leggendo il taccuino e ripensando alla biografia dello scrittore, è molto più sfumata di quanto gli opposti furori ideologici vogliano insinuare. «È dei nostri, no è dei nostri…».

Come l’iscrizione al Partito fascista per Pavese era stata priva di un vero significato ideale o ideologico, così l’iscrizione dopo la guerra al PCI fu un’adesione senza militanza. «Pavese è persuaso che tutto sia concesso, tutto si possa perdonare al poeta: egli compie ognuno di quei gesti con una sorta di purezza; ovvero, inconsapevolmente, cioè senza una coscienza politica» scrive Angelo d’Orsi. Un Pavese impolitico, dunque, del tutto lontano da ogni forma di impegno politico autentico. Che, forse, è la cosa peggiore che si possa dire di un intellettuale di quell’epoca. E cioè che Pavese non fu fascista fino in fondo. Ma neppure un vero antifascista.

Luigi Mascheroni per “Il Giornale”

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