FOFI

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CINEMA. UN’ARTE CHE NON HA PIÙ CENTRALITÀ NELLA VITA E NEL CONSUMO DELLA POSTMODERNITA’. NONOSTANTE LA PLETORA DI ARTISTI, O PRESUNTI TALI, PRODUCE -SECONDO GOFFREDO FOFI – REGISTI MALINCONICI E CRITICI SUICIDI PER FRIVOLEZZA. LA COLPA? DELLA SCUOLA E UNIVERSITÀ.

Nel pieno degli anni del fascismo, Luchino Visconti osò scrivere sulla rivista fondata e diretta da Vittorio Mussolini, «Cinema», un violento articolo sullo stato del cinema italiano di quegli anni, e in primis della sua statalissima burocrazia, intitolandolo Cadaveri. Qualche tempo dopo riuscì a girare Ossessione, memore degli insegnamenti di Jean Renoir, e a dare il via con Rossellini alla vera storia del cinema italiano, che è quella di due stagioni rotte da un breve intervallo di Guerra Fredda: l’immediato Dopoguerra del Neorealismo e gli anni Sessanta del boom, poi seppelliti dall’ultima esplosione di vitalità, ora malsana, della nostra società dello spettacolo, quella che molti giovani critici di allora chiamarono con becero entusiasmo del trash (western, horror, poliziottesco, porno-erotico).

C’è qualcuno tra i giovani registi e nella pletora degli aspiranti tali che oserebbe scrivere dei “cadaveri” di oggi? Non è ipotizzabile, perché non è ipotizzabile una generazione di giovani registi all’altezza delle tensioni profonde della nostra epoca, delle sue angosce pre-finali e della sua assenza di speranze e di rivolte.

Goffredo Fofi

Non ci sono mai stati nel corso dei secoli così tanti scrittori e aspiranti scrittori, registi e aspiranti registi, artisti e aspiranti artisti, perché non ci sono mai stati altrettanti alfabetizzati e laureati, e perché l’evoluzione dei mezzi detti di espressione e di comunicazione è diventata uno strumento fondamentale del dominio, e la storia di das Kapital e delle sue prezzolate novità scientifiche e tecnologiche ha da sempre due molle centrali, il Denaro e il Dominio.

Ho visto con interesse e con qualche apprezzamento molti dei film recenti realizzati dai giovani registi italiani, per esempio quelli dell’ultimo festival veneziano – come tante altre manifestazioni, quasi tutte, votato a far circolare merci e immagini e chiacchiere rassicuranti e non a proporre e difendere l’arte e il pensiero. Li ho visti bensì, salvo quelli con mero intento documentario, come qualcosa di inerte e, se non di morto, di catatonico e lontano, ripetizione di ripetizioni e lontanissimo quasi sempre dai bisogni profondi del nostro tempo. Quel che dobbiamo lamentare non è l’assenza di artisti – in tutti i campi, ché anzi ne abbiamo troppi, sono masse e altre masse sono in costante arrivo sfornate da un sistema scolastico che diffonde illusioni e conformità. È finito il cinema for the millions, come lo teorizzavano le majors degli Usa ma anche il compagno Stalin e il camerata Hitler. Si trattava comunque di un cinema che assolveva anche, insieme al compito di distrarre, quello di alfabetizzare, e che fu anche un mezzo di espressione (e spesso un’arte) in grado, perlomeno negli anni del muto, di parlare al signore e al cafone, al “civile” e al “selvaggio”; un cinema che permise un’arte di massa rispondente al gradimento del pubblico ma che poteva diventare vera arte sia in registi che si volevano artisti sia in autori più “collettivi” (e anche questa della creazione collettiva sembrò una cosa nuova e importante che aveva a che fare con la tecnica, con la macchina, anche nel momento dell’ideazione).

Goffredo Fofi (Gubbio 1937) è saggista di cinema e di teatro. Autore prolifico che si è occupato, oltre che di cinema, anche della storia e del costume contemporanei. E’ stato giovanissimo a fianco di Danilo Dolci in Sicilia, si è occupato di migrazione dal sud al nord dell’ Italia negli anni ’60 e delle minoranze. Sensibile al linguaggio delle avanguardie, ha sostenuto l’opera di giovani registi della scuola napoletana come Ciprì e Maresco, di autori “irregolari” come Amelio e Citti.

Furono molti i registi che riuscirono, nel corso del Novecento, a essere grandi Artisti alla pari dei grandi scrittori, poeti, pittori, musicisti contemporanei. E anche, non poi così di rado, dei grandi filosofi, sociologi, antropologi. E dei grandi nomi delle “avanguardie storiche”. Qualche nome? Chaplin, Stroheim, Dreyer, Ejzenštejn, Lang, Murnau, Bunuel, Ford, Rossellini, Bresson, Kurosawa, Ozu, Mizoguchi, Satyajit, Ray, Bergman, Fellini, Antonioni, De Seta, Kazan, Wajda eccetera… e l’ultima grande stagione fu quella delle nouvelles vagues, con autori che furono spesso all’avanguardia di ogni avanguardia, i Godard, Resnais, Tarkovskij, Pasolini, Rocha, Oshima, Cassavetes, Polanski… Eccetera, eccetera… Quanti nomi di registi potremmo aggiungere oggi, di peso e qualità comparabili? Forse, salvo i pochi sopravvissuti, nessuno. Tanti sono i buoni registi di buona volontà, ma quest’epoca affollatissima in generale di artisti, ne ha di altrettanto forti e rappresentativi, e soprattutto all’altezza dei bisogni del tempo, di interpretarne e cantare le scarse speranze e le tante paure? Ma questo discorso non riguarda soltanto il cinema, riguarda tutte le arti e riguarda anche la sociologia e la filosofia, la pedagogia e perfino la teologia, eccetera.

Il cinema non ha più oggi il peso che ha avuto in passato, la centralità nell’esperienza e nel consumo di tutti che stata di ieri. Ma indietro non si torna, il mondo è cambiato, e il consumo di film in sala non è più da tempo un rito collettivo, anche perché tutti – grazie a internet – possono, oltre che scrivere (e anche stampare) quel che gli pare, far film anche con gli smartphone grazie all’evoluzione e democratizzazione della tecnica. E il cinema langue e affanna come arte autonoma, ma nel mentre che anche le altre arti languono nonostante la pletora degli artisti, nonostante le illusioni diffuse dall’“età del narcisismo”. La democratizzazione della “creazione artistica” ha portato non alla morte dell’arte – ché qualcosa da qualche parte continua pure a sbocciare – ma alla sua secondarietà proprio nel momento in cui più ne avremmo bisogno. Del cinema, dell’arte e perfino del pensiero. Tutti possono sentirsi oggi artisti e pensatori, e in quanto al cinema (ma non solo) esso si è fatto di una insignificanza e di una secondarietà imbarazzanti… E immalinconenti. Tante le colpe e di tanti: la scuola, che non fa nulla per tenere in vita la conoscenza del passato e l’intelligenza delle cose presenti, e anzitutto l’Università di ogni ordine e grado, perché il pesce puzza sempre dalla testa; i funzionari e i burocrati; gli investitori, i produttori, le banche; i direttori e i giurati dei festival grandi e piccoli e delle manifestazioni che li imitano; i critici, suicidi per frivolezza, e non solo quelli cinematografici; e tutto o quasi tutto quel che passa su Internet, il luogo che illude tutti di pensare e di sapere, di essere in grado di parlare di tutto e di avere il diritto di parlare di tutto.

Articolo di Goffredo Fofi

IL FUTURO DELL’ECONOMIA SOSTENIBILE

IL FUTURO DELL’ECONOMIA SOSTENIBILE

SECONDO APPUNTAMENTO AD ASSISI VOLUTO DAL PAPA -Il summit era slittato per il Covid dallo scorso marzo. Arrivati nella città umbra duemila giovani economisti e imprenditori da 120 paesi. Relazioni anche di premi Nobel ed economisti di fama mondiale. Video messaggio del Papa.

(AFP)
(AFP)

Assisi è immersa nel silenzio mentre arriva l’invasione pacifica degli oltre duemila giovani economisti e imprenditori di tutto il mondo, mischiati a premi Nobel e accademici celebri. Convocati dal Papa per ridisegnare un futuro possibile dell’economia a misura di uomo e d’ambiente. Una sfida che sapora di utopia, ma che nel mezzo della tragedia della pandemia può essere un trampolino di idee possibili. Si è aperta il 19 novembre la prima della tre giorni di The Economy of Francesco, evento internazionale con al centro il Sacro Convento della città umbra, che avrebbe dovuto svolgersi in presenza e che si apre ora anche in streaming. Un summit che già da tempo è stato ribattezzato la “Davos francescana”, pensando sia al Santo che al Pontefice, e in particolare alle sue encicliche Laudato Si’ (2015) e Fratelli Tutti (2020).

Duemila giovani da 120 paesi, quasi la metà donne

Una chiamata alla quale hanno risposto da tutto il mondo. Dalla Guyana, dove c’è chi difende i diritti delle culture indigene sapendo che da lì passa il progresso, dai giovani del Sud Africa che guardano ai bisogni dei poveri perché è nella lotta alle disuguaglianze che si costruisce la fraternità, dall’Uganda dove, investendo nel microcredito, si conquista il diritto di far sentire la propria voce e di far crescere così una società più inclusiva e attenta alle donne.

C’è l’Argentina di Papa Francesco con una fabbrica di cioccolatini che guarda al bene degli operai più che al profitto. Tremila candidature sono arrivate da 120 Paesi: studenti, dottorandi, ricercatori, imprenditori di start-up, i cosiddetti “changemakers”, coloro che sono capaci di creare cambiamenti con un forte impatto sociale e quindi, in questo caso, promotori di attività economiche che mirano al bene comune. Un tessuto sociale attivo, entusiasta e ricco di proposte in ambiti diversi dalle nuove tecnologie, all’intelligenza artificiale, dal consumo responsabile alla tutela dell’ambiente. Duemila i giovani – : il 56% sono uomini e il 44% donne all’evento – ricorda Vatican News – organizzato con il contributo del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, della diocesi di Assisi, dell’Istituto Serafico, del comune di Assisi e con il supporto di Economia di Comunione.

Tra i relatori Jeffrey Sachs e il premio Nobel Yunus

Gli incontri online hanno visto la partecipazione di importanti relatori internazionali. Ad aprire le conferenze è stato l’economista Jeffrey Sachs, con “Perfecting Joy: three proposals to let life flourish”. Nel corso dell’evento è stata presentata la proposta di un Child Flourish Index, un indice per valutare il benessere dei bambini. Lo stesso prof. Sachs si è detto disponibile a collaborare al progetto: «Il Network per lo Sviluppo Sostenibile che dirigo ha elaborato diversi indici che riguardano la felicità, sulla base di dati e indicatori che riguardano anche il benessere infantile. Abbiamo bisogno di modalità pionieristiche e alcune di queste possono essere molto utili. Ci sono modalità nel mondo interconnesso che ci consentono di ottenere oggi queste informazioni da elaborare per poi proporre soluzioni agli operatori politici». La conclusione sabato con il messaggio di Papa Francesco. Previste conferenze con relatori tra cui il premio Nobel Muhammad Yunus e ancora, tra gli altri, economisti ed esperti quali Kate Raworth, Vandana Shiva, Stefano Zamagni, Mauro Magatti, Juan Camilo Cardenas, Jennifer Nedelsky, Sr. Cécile Renouard

Luigino Bruni: “Fino ad oggi siamo cresciuti distruggendo il pianeta”

Alla vigilia dell’incontro Luigino Bruni, professore alla Lumsa e responsabile scientifico dell’evento, ha rilasciato un’intervista a Vatican News. «La crescita è una delle parole chiave di quest’incontro, ma è anche una parola ambivalente, perché non tutte le crescite sono buone, come sappiamo. Anche i tumori possono crescere: ma non sono certo un fenomeno positivo» ha detto. Quindi «ci può essere una crescita che va bene: la crescita del benessere, dei beni relazionali, dei beni comuni… Ma non tutte le crescite sono buone in assoluto. Noi, ad esempio, siamo “cresciuti”, negli ultimi quarant’anni, distruggendo il pianeta, perché non mettevamo in conto gli effetti della crescita.

Eravamo tutti contenti di un PIL che cresceva del 3 o 4% l’anno. Peccato che mentre cresceva stavamo distruggendo l’ambiente naturale attorno a noi. Quindi certamente bisogna crescere, ma bisogna anche pensare allo sviluppo, a tante altre parole che non sono soltanto di tipo quantitativo. Perché quando si parla di crescita c’è sempre l’enorme problema che la si misura solo in numeri, in quantità, mentre tante dimensioni della vita umana si misurano in “qualità”. Un concetto che non rientra nelle contabilità nazionali ma che è essenziale».

Articolo di di Carlo Marroni per Il Sole 24 Ore

IL VIDEO MESSAGGIO DI PAPA FRANCESCO A CONCLUSIONI DEI LAVORI

L’economia di Francesco si è concluso ad Assisi con il video messaggio di papa Francesco al termine dei lavori dei gruppi dei giovani con le sessioni ‘Vocation and Profit Tool Box’, ‘Young enough to change the world’ e ‘We are all developing countries’, a cui hanno partecipato gli economisti Kate Raworth e John Perkins. Nel video messaggio il papa ha ringraziato i giovani per il lavoro svolto: “Non vi siete scoraggiati, anzi, ho conosciuto il livello di riflessione, la qualità, la serietà e la responsabilità con cui avete lavorato: non avete tralasciato nulla di ciò che vi dà gioia, vi preoccupa, vi indigna e vi spinge a cambiare”.

Poi ha spiegato l’idea originaria dell’incontro: “L’idea originaria era di incontrarci ad Assisi per ispirarci sulle orme di San Francesco. Dal Crocifisso di san Damiano e da tanti altri volti, come quello del lebbroso, il Signore gli è andato incontro, lo ha chiamato e gli ha affidato una missione; lo ha spogliato degli idoli che lo isolavano, delle perplessità che lo paralizzavano e lo chiudevano nella solita debolezza del ‘si è sempre fatto così’ (questa è una debolezza!) o della tristezza dolciastra e insoddisfatta di quelli che vivono solo per sé stessi e gli ha regalato la capacità di intonare un canto di lode, espressione di gioia, libertà e dono di sé. Perciò, questo incontro virtuale ad Assisi per me non è un punto di arrivo ma la spinta iniziale di un processo che siamo invitati a vivere come vocazione, come cultura e come patto”.

La vocazione del santo assisate è nata proprio da una sollecitudine a riparare: “Quando vi sentite chiamati, coinvolti e protagonisti della ‘normalità’ da costruire, voi sapete dire ‘sì’, e questo dà speranza. So che avete accettato immediatamente questa convocazione, perché siete in grado di vedere, analizzare e sperimentare che non possiamo andare avanti in questo modo: lo ha mostrato chiaramente il livello di adesione, di iscrizione e di partecipazione a questo patto, che è andato oltre le capacità”.

Rivolgendosi ai giovani ha chiesto loro l’impegno: “Voi manifestate una sensibilità e una preoccupazione speciali per identificare le questioni cruciali che ci interpellano. L’avete fatto da una prospettiva particolare: l’economia, che è il vostro ambito di ricerca, di studio e di lavoro. Sapete che urge una diversa narrazione economica, urge prendere atto responsabilmente del fatto che ‘l’attuale sistema mondiale è insostenibile da diversi punti di vista’ e colpisce nostra sorella terra, tanto gravemente maltrattata e spogliata, e insieme i più poveri e gli esclusi. Vanno insieme: tu spogli la terra e ci sono tanti poveri esclusi. Essi sono i primi danneggiati… e anche i primi dimenticati”.

L’impegno produce una cultura nuova, capace di cambiamento: “Abbiamo bisogno di un cambiamento, vogliamo un cambiamento, cerchiamo un cambiamento. Il problema nasce quando ci accorgiamo che, per molte delle difficoltà che ci assillano, non possediamo risposte adeguate e inclusive; anzi, risentiamo di una frammentazione nelle analisi e nelle diagnosi che finisce per bloccare ogni possibile soluzione”.

La cultura stimola nuove visioni: “In fondo, ci manca la cultura necessaria per consentire e stimolare l’apertura di visioni diverse, improntate a un tipo di pensiero, di politica, di programmi educativi, e anche di spiritualità che non si lasci rinchiudere da un’unica logica dominante. Se è urgente trovare risposte, è indispensabile far crescere e sostenere gruppi dirigenti capaci di elaborare cultura, avviare processi – non dimenticatevi questa parola: avviare processi – tracciare percorsi, allargare orizzonti, creare appartenenze”.

L’incontro sconfigge l’indifferenza: “Questo esercizio di incontrarsi al di là di tutte le legittime differenze è il passo fondamentale per qualsiasi trasformazione che aiuti a dar vita a una nuova mentalità culturale e, quindi, economica, politica e sociale; perché non sarà possibile impegnarsi in grandi cose solo secondo una prospettiva teorica o individuale senza uno spirito che vi animi, senza alcune motivazioni interiori che diano senso, senza un’appartenenza e un radicamento che diano respiro all’azione personale e comunitaria”.

Il futuro quindi può essere un tempo ‘speciale’: “No, non siamo costretti a continuare ad ammettere e tollerare in silenzio nei nostri comportamenti ‘che alcuni si sentano più umani di altri, come se fossero nati con maggiori diritti’ o privilegi per il godimento garantito di determinati beni o servizi essenziali.

Non basta neppure puntare sulla ricerca di palliativi nel terzo settore o in modelli filantropici. Benché la loro opera sia cruciale, non sempre sono capaci di affrontare strutturalmente gli attuali squilibri che colpiscono i più esclusi e, senza volerlo, perpetuano le ingiustizie che intendono contrastare. Infatti, non si tratta solo o esclusivamente di sovvenire alle necessità più essenziali dei nostri fratelli.

Occorre accettare strutturalmente che i poveri hanno la dignità sufficiente per sedersi ai nostri incontri, partecipare alle nostre discussioni e portare il pane alle loro case. E questo è molto più che assistenzialismo: stiamo parlando di una conversione e trasformazione delle nostre priorità e del posto dell’altro nelle nostre politiche e nell’ordine sociale”.

Per il papa il futuro è in ‘gestazione’: “Un futuro imprevedibile è già in gestazione; ciascuno di voi, a partire dal posto in cui opera e decide, può fare molto; non scegliete le scorciatoie, che seducono e vi impediscono di mescolarvi per essere lievito lì dove vi trovate.

Niente scorciatoie, lievito, sporcarsi le mani. Passata la crisi sanitaria che stiamo attraversando, la peggiore reazione sarebbe di cadere ancora di più in un febbrile consumismo e in nuove forme di autoprotezione egoistica. Non dimenticatevi, da una crisi mai si esce uguali: usciamo meglio o peggio”.

Il messaggio conclusivo è l’invito a dar vita ad una economia capace di visione: “Facciamo crescere ciò che è buono, cogliamo l’opportunità e mettiamoci tutti al servizio del bene comune. Voglia il Cielo che alla fine non ci siano più ‘gli altri’, ma che impariamo a maturare uno stile di vita in cui sappiamo dire ‘noi’…

Non temete di coinvolgervi e di toccare l’anima delle città con lo sguardo di Gesù; non temete di abitare coraggiosamente i conflitti e i crocevia della storia per ungerli con l’aroma delle Beatitudini. Non temete, perché nessuno si salva da solo. Nessuno si salva da solo.

A voi giovani, provenienti da 115 Paesi, rivolgo l’invito a riconoscere che abbiamo bisogno gli uni degli altri per dar vita a questa cultura economica, capace di far germogliare sogni, suscitare profezie e visioni, far fiorire speranze, stimolare fiducia, fasciare ferite, intrecciare relazioni, risuscitare un’alba di speranza, imparare l’uno dall’altro, e creare un immaginario positivo che illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani, e ispiri ai giovani – a tutti i giovani, nessuno escluso – la visione di un futuro ricolmo della gioia del Vangelo”.

Francesco

Articolo di Simone Baroncia su Korazyn.org

MARADONA E’ ESISTITO DAVVERO

MARADONA E’ ESISTITO DAVVERO

QUESTO ARTICOLO E’ STATO SCRITTO PRIMA DI APPRENDERE LA NOTIZIA DI OGGI DELLA MORTE DI DIEGO ARMANDO MARADONA PER ARRESTO CARDIACO-SI TROVAVA NELLA SUA CASA DI TIGRE IN ARGENTINA, IN CONVALESCENZA DOPO UN INTERVENTO CHIRURGICO AL CERVELLO- LETTA ORA LA RIEVOCAZIONE DELLA SUA FIGURA APPARE ANCORA PIU’DOLOROSA- HA SCRITTO MAURIZIO CROSETTI SUL CORRIERE: “QUANTE VITE DENTRO UNA VITA CHE NON C’ERA PIU”, MA RESTA PER I PIU’ IMMORTALE.

UN RICORDO PERSONALE, ASSAI INDULGENTE, DEL “PIBE DE ORO”- MITO ESEMPLARE CHE VA OLTRE IL FOOBALL- INDISCUSSO IN CAMPO, PERDONATO SEMPRE.

Maradona ci ha insegnato a sognare, ci ha uniti nel segno di qualcosa, quel qualcosa era lui che poteva arrivare fino in porta palla al piede, in qualsiasi momento. Quella ragazza che ci piaceva tanto ci avrebbe baciato, l’interrogazione del giorno dopo sarebbe andata bene, per non dire del compito di matematica. Avremmo avuto vite migliori perché Maradona stava dalla nostra parte, era nostro. Non del Napoli o della città, era di ciascuno di noi.

Maradona, il dio del pallone, si allenava a Soccavo, un posto in cui potevamo arrivare in motorino, addirittura in biciletta. Maradona per noi era diventato un’unità di misura. A chiunque facesse bene una cosa – qualsiasi cosa – i complimenti sarebbero stati “A livello di Maradona”. Se, invece, qualcuno avesse provato a fare qualcosa di difficile, di troppo complicato, di impossibile gli sarebbe stato detto: “Ma chi ti credi di essere? Maradona?”. Eravamo ragazzi, eravamo ingenui, era un ragazzo anche lui e giocava con noi, per noi. Era solo pallone o no? Mi pare chiaro, pescando nei ricordi, che la presenza di Maradona (e in seconda battuta le vittorie del Napoli di quegli anni) ci autorizzasse ad alzare l’asticella dell’aspettativa verso il futuro. L’argentino ci faceva vedere, domenica dopo domenica, che dal mondo immaginario a quello reale c’era un minimo scarto, una soglia piccola da attraversare; bisognava avere fiducia e fantasticare meglio, di più. Maradona ci avvicinò al possibile. Era un fuoriclasse, ma era anche uno di noi. Nel tempo, oltre ai grandi gol straordinari, agli assist, ai miracoli pallonari, ha fatto altre cose per le quali la gente non lo dimentica e gli perdona, anche adesso, tutto.

Una scena

Diego Maradona è arrivato al Napoli da poco, siamo in inverno, stagione 1984/1985, in una giornata di pioggia e fango gli azzurri vanno ad Acerra, periferia nord del capoluogo, per un’amichevole. Un’amichevole organizzata dal calciatore Pietro Puzone che da quelle parti è nato, la richiesta è di raccogliere fondi per un bambino malato. Su quella partita si sono sentite molte storie, quello che è certo è che Ferlaino non volesse disputarla affinché i calciatori  – e Maradona in particolare – non si infortunassero. L’altra certezza è che Maradona quella partita volle giocarla, pagando (pare) una penale ai Lloyds di Londra. La partita si giocò, l’incasso ci fu, arrivò molta gente dalla provincia per vedere Maradona da vicino, tanti bambini, anche chi non poteva permettersi il biglietto del San Paolo.

Non c’è posto dove si possa fare riscaldamento, non si capisce nemmeno se ci siano gli spogliatoi. Nei vecchi video si vedono un parcheggio e uno sterrato coperto di fango, delle case in lontananza, qualcuno sui balconi (forse). Il Napoli si riscalda, lì in mezzo alle auto parcheggiate, la divisa sociale è quella di tessuto grosso, lo sponsor è Cirio. Maradona fa piegamenti davanti a una vecchia auto, i compagni si muovono intorno. L’argentino a un certo punto comincia a muoversi come un pugile, saltella fingendo di tirare ganci all’aria, si avvicinano dei bambini per una foto, piccoli e timidi nei loro cappottini, poi comincia la partita.

Per capire chi è stato Maradona bisogna guardare il filmato di quell’incontro. I soldi erano stati raccolti, non c’era alcun bisogno di rischiare, bastava giochicchiare, gli spettatori sarebbero stati contenti comunque, si sarebbero accontentati di aver visto il campione da vicino. Non c’era, però, alcuna differenza tra una partita di campionato, una finale dei mondiali, un’amichevole nel fango, non per Maradona. Lui si ricordava da dove fosse arrivato, quando aveva la palla tra i piedi voleva vincere e non deludere chi era venuto a guardarlo. O almeno così sembrava, e tanto mi basta. 

Fu così anche quella volta ad Acerra. Diego incantò, giocò, impegnandosi più di tutti, buttandosi nel fango, dribblando, inventando, segnando. Quel giorno Maradona realizzò un gol stupendo, uno dei suoi. Partì dalla tre quarti destra (una tre quarti immaginaria, dato che con quel fango non si vedevano righe bianche) dopo aver rubato palla a un calciatore avversario, puntò verso l’area di rigore – o quella che era stata un tempo area di rigore – fintando col corpo, il pallone sull’esterno sinistro, si liberò di altri due calciatori, tagliò l’area in diagonale, altra finta per mettere a sedere il portiere, e gol a porta vuota, con ruzzolone nel fango. Alcuni ragazzi che conoscevo andarono a quella partita, li ho sempre invidiati. Prima e insieme alle altre cose che conosciamo, Maradona era questa cosa.

Un’altra scena

Semifinale di Coppa Uefa, Bayern Monaco – Napoli, stagione 1988/89, riscaldamento. Tutti hanno visto Maradona ballare, Youtube è piena di video di quella sera, ma quei momenti valgono qualche tentativo di spiegazione in più. Io non direi che Maradona fosse un’esibizionista – quando giocava ogni gesto suo gesto mi sembrava funzionale al gol, mai un dribbling che non servisse. Allo stesso modo, non si mise a ballare, palleggiando sulle note di Life is Life degli Opus, per farsi guardare dai tifosi che gremivano gli spalti (o forse sì, ma non penso che sia la cosa più importante). A distanza di anni mi sono convinto che lo fece per i compagni di squadra, era un modo per stemperare la tensione di una partita così importante, era un modo per ricondurre tutto alla dimensione del gioco, esattamente come i saltelli da boxeur fatti qualche anno prima ad Acerra. Maradona balla, sorride ai compagni e palleggia, di tacco, di ginocchio, passa un pallone a De Napoli quasi senza guardarlo, fa ballare Careca, palleggia di testa, poi ferma il pallone e ricomincia. Quei minuti commoventi e divertenti sono anche un messaggio ai giocatori del Bayern: «È la semifinale, voi siete forti, ma io sono più forte e stasera perderete». Pareggiarono ma furono eliminati.

https://youtube.com/watch?v=s7ZjU-6iSwk

Perciò quel balletto è solo un prologo perché poi quella sera, durante la partita, Maradona continuò a ballare e costrinse gli altri 21 giocatori a una scelta: ballare con lui o guardarlo ballare. Fu uno spettacolo, la partita finì 2 a 2 – doppietta di Careca per il Napoli – gli azzurri andarono in finale, forti del 2 a 0 dell’andata al San Paolo. Nel primo tempo non ci furono gol ma ci fu soprattutto Maradona, nella sua versione migliore, tipo quella dei Mondiali del 1986, nessuno poteva fermarlo. Nei primi 45 minuti giocò da solo con Careca, i centrocampisti e i difensori del Napoli rimasero molto bassi per respingere gli assalti del Bayern, che per la verità non furono nemmeno così tanti. Giuliani dovette compiere solo un paio di parate importanti.

Ogni volta che il pallone arrivava a centrocampo diventava preda di Maradona. Accelerazioni, dribbling, scatti, e poi pressing sui difensori avversari, resistenza ai falli. Lo ricordiamo tutti il Maradona che subisce fallo, sembra che stia per cadere, e invece quando è quasi per terra si rialza e arriva per primo sul pallone. Incredibile. Nel primo tempo calcia una punizione stupenda che solo un miracolo del portiere Ausmann evita che diventi gol. Dopo un meraviglioso duetto con Careca, Maradona segna un bel gol di testa, con uno stacco degno dei migliori centravanti ma il gol viene annullato per fuorigioco.

Anche a noi a casa ci pareva di ballare, non avevamo dubbi, il Napoli sarebbe passato.

Nel secondo tempo, Maradona giocò ancora meglio. Al quindicesimo rubò il pallone al difensore Nachtweih, dentro l’area di rigore, aiutandosi con una leggera spinta e la passò rasoterra in mezzo dove Careca segnò a porta vuota. Nella ripresa furono tantissime le volte in cui partì in velocità dalla trequarti del Napoli, facendo ammattire tutti quelli del Bayern. Ballò tutto il tempo. Dopo il primo pareggio del Bayern, arrivò il secondo gol del Napoli, a velocità impressionante. Palla dalla difesa a Maradona prima della linea del centrocampo, l’argentino è uno contro uno con l’ultimo uomo del Bayern, non toccò nemmeno il pallone per stopparlo, perché vide (e prima di vederlo, lo seppe), dall’altra parte del campo, Careca che arrivava a tutta velocità. Il tocco da fare era uno solo, niente di sprecato. Palla rasoterra in campo aperto, l’attaccante brasiliano potè andare da solo verso la porta e segnare con un diagonale perfetto. Maradona proseguì la corsa, ma lentamente, come se sapesse, lo accompagnò con gli occhi, lo raggiunse dopo solo per abbracciarlo.

Una terza scena

Una partita a cui sono molto legato è un’Inter – Napoli, la prima trasferta della mia vita, era il 10 novembre del 1985. Avevo solo 14 anni, i miei mi fecero andare solo perché con me ci sarebbe stato un mio cugino più grande. Prendemmo un treno di notte, dormimmo in corridoio, seduti per terra. Il giorno dopo pagammo cinque o diecimila lire i biglietti da un bagarino davanti a San Siro. Qualche minuto dopo eravamo nella bolgia, quel giorno a Milano c’erano tantissimi tifosi del Napoli.

Quella partita finì in pareggio, 1 a 1, la ricordo anche per un altro motivo: Maradona fece uno dei gol più belli, tanto bello che qualche anno fa ci ho scritto sopra quattro poesie. Giordano si liberò di un avversario sulla fascia destra, poco fuori dall’area di rigore, crossò di sinistro, la palla superò Beppe Baresi, alle sue spalle c’era Maradona che stoppò di petto e poi mise il pallone in diagonale alle spalle di Zenga. Tutto molto rapido, tutto lentissimo. A noi sembrò che il pallone rimanesse incollato sul petto di Maradona più del tempo consentito dalla gravità. Mentre il pallone restava sulla maglia bianca di quel giorno, Maradona guardò Zenga negli occhi per tutto il tempo, questo dichiarò il portiere dell’Inter alla fine della partita. Quel giorno, ancora ragazzino, ho capito quanto volessi bene a Maradona e non ho più smesso. Dal momento del gol in poi non ricordo più nulla, nemmeno il modo in cui tornammo a Napoli, ma il dopo non contava più, il tempo era rimasto incollato per sempre, insieme al pallone, sul petto di Diego Maradona.

Tutti conoscono decine e decine di gol di Maradona, di azioni indimenticabili. I gol da centrocampo alla Lazio e al Verona, un pallonetto meraviglioso ai tempi del Boca Juniors, la doppietta al Belgio ai mondiali del 1986, il gol di testa al Milan di Sacchi, dopo aver eluso con un lancio di Crippa il fuorigioco, un gol alla Roma dopo un controllo impossibile, la rovesciata da terra al Pescara, il colpo di testa in tuffo alla Sampdoria su cross di Renica. Erano belli perfino i calci di rigore. Il gol del secolo, il secondo segnato all’Inghilterra ai mondiali del 1986.

Se riflettiamo, se pensiamo all’istante in cui Maradona prende palla e compie la prima giravolta ci accorgiamo che la decisione con cui l’argentino comincia l’azione è la stessa con cui la cominciò nel fango della periferia napoletana e chissà quante volte ancora. Nessuno poteva fermarlo dei dilettanti dell’Acerra, nessuno poteva fermarlo tra i nazionali inglesi. Ho sempre pensato (e qualche volta devo averlo anche scritto) che Maradona quel giorno sapeva dal primo controllo che sarebbe andato dritto in porta, che li avrebbe saltati tutti fossero stati pure cento, così dovevano andare le cose, così andarono. Maradona in quella progressione è così rapido che dà l’impressione di averne saltati dieci, nella realtà furono cinque, dalla giravolta a centrocampo, compreso Shilton. Una cosa fuori dal mondo, rimasta insuperata. Gol che pesa ancora di più perché venne dopo quello di mano, in fondo al cuore, ogni inglese sa che il secondo gol di Maradona valeva da solo tutti i gol di tutti i tempi, ogni inglese può sempre raccontare che quella azione l’ha subita, che è molto meglio di non averla vissuta, un po’ come nella canzone di De Andrè “è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati”. È stato – per l’Inghilterra – meglio perdere da quel Maradona che da qualunque altro avversario.

Tutti conoscono, dicevo, i gol, le azioni, gli assist di Maradona, ma c’è un’altra cosa per cui è indimenticabile, e che lo rende ai miei occhi il più grande di tutti: il rapporto in campo con gli altri calciatori.

Non l’ho mai visto rimproverare un compagno di squadra per un passaggio sbagliato. L’ho visto incitare tutti, da Luciano Sola ad Andrea Carnevale, da Giuseppe Bruscolotti a Bruno Giordano. L’ho visto applaudire Crippa dopo aver ricevuto un assist molto bello e fare la stessa cosa con De Napoli dopo i molti cross sbagliati. L’ho visto rialzarsi dopo i falli subiti (e non erano pochi) come se niente fosse, applaudire gli avversari, sorridere in momenti di grande tensione. Non era uno che pensava per sé, era consapevole di essere il più bravo di tutti, ma era grato, grato alla sua squadra, grato al pubblico.

C’è però, prima di chiudere, un altro gol sul quale occorre fermarsi, un gol dal quale si capisce che quando Diego Armando Maradona si metteva in testa una cosa, e che quella cosa si poteva fare con il piede sinistro, la faceva.

Tutto accadde il 3/11/1985, tra poco da quel gol saranno passati 35 anni. La Juventus arrivò al San Paolo dopo aver vinto otto partite di fila, era la squadra da battere e fu battuta. Platini, prima della partita, disse a Galeazzi: “Il Maschio Angioino è Diego”. Come nelle migliori domeniche di novembre pioveva, quel giorno non ero allo stadio, mi raccontò tutto Enrico Ameri alla radio. Intorno alla mezz’ora del secondo tempo, sullo 0 a 0 venne assegnato un calcio di punizione a due in area, in favore del Napoli. L’arbitrò non ravvisò gli estremi per il calcio di rigore. La barriera non arrivò mai ai nove metri regolamentari, furono cinque metri, al massimo sei.

Le interviste e le cronache successive ci hanno poi raccontato, nelle parole ad esempio di De Napoli e di Bruscolotti, che dopo aver provato per un minuto e mezzo, quasi due, a convincere l’arbitro ad arretrare la barriera, Maradona si stufò e disse: “Tanto gli faccio gol comunque”. Quella punizione è leggendaria non solo perché fu segnata in quel modo e contro una fortissima Juventus, ma perché ancora adesso, dopo averla vista mille volte, e non soltanto io, fino in fondo, non si capisce bene come riesca Maradona a uncinare il pallone in quel modo. Forse è meglio così, le opere d’arte che ci piacciono non le capiamo fino in fondo, non sempre, ma le amiamo lo stesso perché abbiamo sentito qualcosa. Noi non dobbiamo capire, dobbiamo accontentarci di riguardare quel gol tutte le volte e pensare: ma come ha fatto?

Maradona compie sessant’anni, io ne ho undici in meno, la mia formazione è fatta di poche cose, Maradona è una di queste, conta come le poesie. Questa è una parte della storia del mio Maradona, di cui avevo in casa un poster a grandezza naturale. Diego, maglietta e pantaloncini del Boca e pantofole da mare. Il piede sinistro sopra al pallone. Maradona che una volta ho visto giocare a calcio basket e fare canestro da tre punti, calciando col piede sinistro.

Tratto dal sito l’Ultimo uomo (http://www.ultimouomo.com) di Gianni Montieri

Gianni Montieri è nato a Giugliano (Na) e vive a Venezia. Ha pubblicato: Le cose imperfette (Liberaria 2019) Avremo cura (2014) e Futuro semplice (2010). Scrive su Doppiozero, minima&moralia, Huffington Post, Rivista Undici e Il Napolista. È redattore della rivista bilingue THE FLR. È nel comitato scientifico del Festival dei matti.

NAPULE MIA

NAPULE MIA

Milioni di visualizzazioni su YouTube, ammiratori da tutto il mondo. Non serve esserci nati per scegliere la città partenopea. Basta mettere al centro la musica e vestirsi della sua lingua. Così disincanto ed enfasi hanno reso eterne certe canzoni.

Caro Jovanotti, lascia perdere Caruso e Lucio Dalla. Sì, perché le due riscritture del celeberrimo brano, presentate dal cantautore romano quest’estate, sono solo un’eco smorzata dell’originale, che fu la più compiuta parafrasi di una canzone napoletana. Riuscì per caso magico a Lucio Dalla ed è storia nota. Costretto a fermarsi una notte a Sorrento, al Grand Hotel Excelsior Vittoria ebbe la suite dove Enrico Caruso aveva trascorso gli ultimi giorni di vita nel 1921.

Sorrento, grand hotel Vittoria

Fantasticando, fumando e riflettendo nelle sparute ore insonni, Dalla abbozzò le parole e la modesta cellula melodica. Da un testo che ricombina (e scombina) Dicitencello vuje e Te voglio bene assaje, con romantica imprecisione, alle vicende biografiche del grande tenore, sortì la straordinaria operazione alchemica di una canzone che avrebbe scavalcato gli oceani.

Lucio Dalla

A oggi, 40 milioni di visualizzazioni su YouTube attestano un successo che dal 1986 ha sbriciolato ogni critica e se n’è beffato, mentre lo interpretavano anche Pavarotti, Murolo, Bocelli, Al Bano. I commenti degli internauti americani, francesi, brasiliani, romeni, spagnoli attestano Caruso fra i brani d’amore più belli presumendolo nel repertorio storico napoletano. Alle creazioni destinate a diventare un classico succede così, che, appena pubblicate la loro nascita, si smarrisce in una nuvola priva di tempo in cui la data non risulta necessaria. Al di là del pregio artistico e al di qua della filologia.

Per la riuscita, Dalla adoperò tre ingredienti tutti legati alla peculiarità di Napoli: la lingua, il protagonista della storia e lo scenario – Sorrento – dove persino il cuore di cinesi e giapponesi sa che bisogna tornare (anche se i fratelli De Curtis composero il rinomatissimo Torna a Surriento con l’intento pragmatico di salutare il presidente del Consiglio, Giuseppe Zanardelli, che terminava una vacanza nel 1902, per perorare l’apertura del sospirato ufficio postale nella cittadina). E’ al panorama delle “notti là in America” immaginate oltre il Golfo che Caruso s’era rivolto, ottenendo contratto stabile e duratura fama al Metropolitan di New York; ma è il Golfo il panorama di cui ha beneficiato la canzone di Dalla e che ha accompagnato il successo globale di incanti e disincanti della fiction negli anni più recenti, come L’amica geniale di Elena Ferrante. Anche laddove il mare si vede poco o niente perché, parafrasando un titolo abusato di Anna Maria Ortese, non bagna certi lembi della città.

C’è sempre desiderio di Napoli nel mondo, sicché vestirsi della sua lingua anche se non è la propria, a patto di amarla, ha funzionato da lasciapassare artistico per Dalla come per l’ornamentale napoletanismo di Renzo Arbore con la sua Orchestra Italiana. Filologi e puristi storcono il naso ma infine se ne fanno una ragione. E’ il destino di un’ex capitale: la bigiotteria finisce in vetrina assieme alle gemme e all’oro a diciotto carati. Non potrebbe essere altrimenti per la città che ha coltivato, anche dopo il dissolvimento del Regno, il concetto immateriale di “nazione napoletana”, come la definì Antonio Ghirelli. Napoletano pertanto s’è fatto Arbore il foggiano come napoletano si fece l’altro pugliese Domenico Modugno, cantando Resta cu’ mme o Tu sì ‘na cosa grande (reinterpretata successivamente da Renato Zero) oppure, con le parole del “partenopeo in esilio” doc, Riccardo Pazzaglia, intonando Io, màmmeta e tu, Lazzarella e ’O ccafè del 1958.

Fabrizio de André

Fu un ricalco musicale di quest’ultima l’ironica Don Raffaè di Fabrizio De André, al quale nel 1990 riuscì l’operazione alchemica sulla base dei tre ingredienti ben sposati alla peculiarità di Napoli, di cui due già usati da Dalla: la lingua e il personaggio, in questo caso non il tenore incantatore ma il disincantatore boss della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo; per terza cosa, invece dello scenario iconico (Sorrento), l’artista genovese sfruttò il topos della napoletanità: il caffè, secondo solo alla pizza o terzo considerando il mandolino. La differenza, notò lo scrittore Francesco Durante, è che nel brano di Modugno la musica resta in modo minore, mentre in De André “dopo il minore dell’introduzione, il ritornello si scioglie in un rassicurante maggiore”. Non sono dettagli: il marchio del neapolitan sounding ha poggiato oltre che sulla lingua su riconoscibili stilemi armonici, di cui l’accordo di sesta napoletana resta principe per chiunque voglia imprimere a una composizione coloritura vesuviana. Questa fu arte, o mestiere, dei maggiori musicisti della canzone classica, primo fra tutti Mario Pasquale Costa, tarantino di madre e di nascita come Giovanni Paisiello, ma per l’altra metà e per formazione napoletano (come il maestro Riccardo Muti, nativo di Molfetta però napoletano di madre). Costa campeggia nel repertorio fra Otto e Novecento, epoca d’oro della canzone, fosse solo per avere messo in musica Era de maggio di Salvatore Di Giacomo e Scétate (diluvio di seste napoletane e spagnolismi) dell’altro straordinario poeta Ferdinando Russo. Quando non era ancora New York ma Parigi la capitale artistica del mondo, e la metropoli che più influiva sulla cultura e i gusti napoletani, Costa seppe fare importexport di suggestioni artistiche tra i café chantant del Vesuvio e quelli della Ville Lumière, intercettando con una canzone di cui scrisse anche il testo il fenomeno imponente delle sciantose: ’A Frangesa, la francese, sapida parodia di una di queste Sirene minori e incantatrici, improbabili ma seducenti, zoccole e dive, fini e ignoranti, che scipparono cuori e portafogli della meglio gioventù (ma anche della peggior vecchiaia) napoletana fra il Salone Margherita e il Cirque des Variétés.

Napoli: salone Margherita

Incanto e disincanto che la colonia dei “napoletani a Parigi” (pittori, letterati, giornalisti) assaporava nel pendolarismo fra le due città, a dispetto del lungo viaggio in treno passando per Torino e Modane, scendendo all’alba nella capitale francese e prendendo alloggio – se le finanze permettevano – al modernissimo Hotel Terminus (oggi Hilton Paris Opera) dotato di tutti i comfort elettrici, persino il controllo centralizzato delle luci nella stanza, dove facevano il pieno di stranianti avventure che avrebbero descritto (esagerando o sminuendo) una volta tornati al Caffè Gambrinus o di cui avrebbero scritto sulle pagine del Mattino.

Caffé Gambrinus, Napoli

Quelle avventure diventavano qualche volta canzoni e le canzoni si riversavano nella vita confondendo biografia e musica, amore e disamore: nella parodia del maestro Costa sulla sciantosa o nella tragedia del maestro Carlo Mirelli, il quale riarrangiando il pezzo La regina del contado per la divetta Yvonne De Fleuriel se ne invaghì troppo e – respinto – si uccise gettandosi dal balcone. Profetici erano i versi sciapi della canzone: “La mia bocca non si bacia, no! La mia mano non si tocca, no!”. Ma Mirelli seguiva più la melodia che il testo e notava più i brillanti che lei s’era fatta incastonare nei denti che le parole pronunciate da quella bocca inespugnabile. In realtà Yvonne, proprio come la Frangesa di Costa e molte altre colleghe, di parigino aveva solo il nome d’arte. Si chiamava veramente Adelina Croce e veniva da Teano, ma francesi o italiane che fossero queste Sirene in paillettes nel loro strascico di incanti tramutati in disincanti sarebbero inciampate per prime. Come Gabrielle Bressard, infatuata del giornalista Edoardo Scarfoglio e suicida davanti alla soglia di casa sua. Come Maria De Browne, uccisa per gelosia dallo scultore Filippo Cifariello, che l’aveva sposata, dopo una lite esacerbata all’alba dallo champagne in una pensioncina di Posillipo.

Per fare scudo al cuore bisognava ricorrere a un minimo sindacale di cinismo ma meglio se era di più, come quello di cui era dotato per indole e mestiere il re dei cronisti mondani, Ugo Ricci: “Tina Perla, mal fatta e mal vestita, / gesticola, sgonnella, si dimena… / Io distolgo lo sguardo dalla scena / e m’occupo a sorbir mezza granita”. O bisognava avere l’ironia di Costa e di un altro musicista baciato dai trionfi, Francesco Paolo Tosti, il quale si struggeva di nostalgia per Napoli ma s’era splendidamente sistemato a Londra…… E non sorprende che il padre del romanziere, Antonio, anch’egli giornalista, avesse vinto nel 1958 un Festival di Napoli come paroliere di Vurria, musica di Furio Rendine, dedicata alla nostalgica rievocazione della città (e di una donna) da cui si è andati via: “Vurria turnà addo te, / pe’ n’ora sola, / Napule mia, / pe’ te sentì ‘e cantà / cu mille manduline”. Il sentimento della lontananza fu epica e retorica di un mondo migrante che neppure sognava la futura globalizzazione. Ci avrebbe ricamato ancora Paolo Conte nel suo sconclusionato pseudonapoletano di Naufragio a Milano del ’75. Ma a Conte e Dalla quasi tutto si può perdonare, come suggeriva Francesco Durante, anche se le parole di Caruso “non hanno alcun significato. Come può una catena (una catena, non una passione), ‘sciogliere il sangue dentro le vene’?” si domandava. Eppure per quei milioni di appassionati che la cercano su YouTube sembra un meraviglioso omaggio d’amore……

Estratti dall’articolo di Francesco Palmieri per Il Foglio Quotidiano

In copertina un quadro di Giuseppe Zollo

E TU, STAI CON I FERRAGNEZ?

E TU, STAI CON I FERRAGNEZ?

“Fu fatto estremo schiamazzo”, dai popolani, quando portarono il quadro della Lena dentro alla chiesa. O meglio il dipinto della Madonna, quella dei Pellegrini. Soltanto che gli schiamazzanti, già turbati da quei “piedi fangosi di deretano”, non riuscivano a vedere la Madonna con il Figlio in braccio (non si chiamava Leone, tranquilli) e vedevano solo la scandalosa Lena, la Maddalena Antognetti che nel quartiere faceva quel mestiere là, e del pittore era pure l’amante. Troppo riconoscibile, anche per quelli che ancora non avevano l’Instagram. Gli schiamazzanti del Ventunesimo secolo hanno patito il medesimo scandalo, riconoscendo sotto il velo blu cobalto gli occhi ton sur ton di Chiara Ferragni, che nel quartiere globale fa quel mestiere là: l’influencer. Gli scandali nell’arte accadono sempre due volte.

La prima volta è Caravaggio, la seconda volta i somari sui social media. Dove i popolani bigotti del Codacons vanno a caccia di blasfemie sperando di lucrare qualcosa, almeno uno cencio di visibilità, dalla loro stupidissima caccia alle streghe.

Non è la prima volta, “arte contro influencer” è miscela scatenante di flatulenze. Il popolino dei bigotti, guidato dagli zampognari della Cultura, si scatenò addì 16 luglio 2020, quando al direttore Eike Schmidt che se la trovò di passaggio (non fu ingaggio né mercimonio, come pure si disse) venne l’idea di farsi un selfie, di gomito, con Chiara Ferragni. Davanti alla Primaveradi Botticelli. “Fatela spostare che mi copre la Venere”, “come siete caduti in basso Uffizi” furono i commenti meno indecenti. Poi arrivarono quelli peggio, gli zampognari: “Non ce l’ho con lei, ma con il direttore degli Uffizi che la strumentalizza. Ha notato come non ci sia neanche una foto di lei che guarda la

Primavera, ma che sia sempre ritratta mentre dà le spalle al quadro?” (Tomaso Montanari). Ispirato forse da quei greci che sdegnati rifiutarono i milioni di Gucci che voleva sfilare al Partenone: “Abbiamo il dovere di proteggere l’Acropoli, un simbolo globale di democrazia e libertà”. Poi si poté leggere, sui giornali: “Effetto Ferragnez agli Uffizi. Oltre all’inedito dato degli Uffizi trend topic su Instagram e Twitter, c’è quello dei visitatori accorsi in Galleria tra venerdì è domenica: più 24 per cento”.

Ferragnez e il figlio Leone, mentre mostrano un’ecografia del secondo figlio

Funziona sempre così, e in fondo fa parte del gioco e del fatturato, con Chiara Ferragni: lo maggior corno della fiamma antica a cui gira attorno, fiammella minore ma essenziale come i satelliti attorno al corpo celeste, Federico Leonardo Lucia in arte Fedez, rapper e socio e marito. Insomma il titolare del suffisso “ez” della premiata ditta. Come Maria e Pierre Curie, Eva Kent e Diabolik, Hillary e Bill: le coppie affiatate hanno sempre un business da realizzare insieme, altrimenti si finisce come Briatore e Gregoraci. Loro sono ricchi, giovani ancora, famosi, pieni di idee e persino con l’aria di una bella famiglia. Con dei progetti. Ma non è questo che li rende odiabili, almeno tanto quanto per altri sono invece desiderabili.

Matrimonio Ferragnez

Organizzarono un matrimonio trompe-l’oeil a Noto, se lo fecero pagare, torta compresa, dai milioni della pubblicità attratta dai milioni di invitati online alla cerimonia post barocca. Un colpo di genio. Si scatenarono gli hater. Lei organizzò una festa di compleanno per lui al supermercato. Si scatenarono i difensori della lattuga e della fame nel mondo, “un giorno vi impiccheremo”. Lui disse “mi assumo la colpa di aver lanciato qualche foglia di lattuga”, Selvaggia Lucarelli in versione psicoanalista parlò di perdita di contatto con la realtà. Furono smentiti direttamente dal Carrefour: tutto in regola, conto saldato e nessuno spreco, scaffali in ordine. Farsi smentire anche dal supermercato è una brutta cosa, per i leoni da carrello. Loro vivono così, per mestiere sovraesposti (in hashtag diventa #neverstop). Mettono una foto del bambino, mentre ancora è un’ecografia, e li accusano di sfruttamento dei minori. Arimettono la foto di Leone, che intanto è diventato bello quasi come Gesù (cit.) e tiene in mano l’ecografia del fratellino in arrivo, e li riammazzano per doppio sfruttamento dei minori. La regista Elisa Amoruso porta a Venezia il suo documentario Chiara Ferragni – Unposted e il Codacons, sentiti si presume Zdanov e don Bosco, dichiara che è immorale, “non è un modello per i giovani”. Chissà dov’erano quando uscì Il Padrino.

Tirando le somme. Quelli che passano tre quarti del loro tempo a criticare, insultare, denunciare, blastare i Ferragnez sono, in elenco: il Codacons, i critico-rosiconi culturali, gli hater da tastiera, i giornalisti che, senza nemmeno la scusa di essere âgée, fanno gli scandalizzati per quello che vedono (sentono dire) accada sull’Instagram e poi usano il sentito dire per scrivere sui giornali.

E tutti quelli, di cui fanno parte anche le categorie precedenti, che li odiano à la Piketty perché fanno i soldi, perché fanno commercio delle loro stesse vite partecipando allo sviluppo del Mercato, perché producono ricchezza avendo inventato un nuovo lavoro e un nuovo prodotto e si prendono la loro quota parte. Fatto l’elenco e tirata la somma: gli anti Ferragnez sono i nostri stessi noiosi nemici, quelli che ci vorrebbero più scemi, più brutti e più poveri. Dunque stiamo coi Ferragnez tutta la vita. Uno di noi (o due).

Ci sarebbe poi da chiedersi, già che ci siamo avventurati in argomento, il perché di tanto ostile rancore. Jacques Séguéla è stato uno dei grandi rivoluzionari del linguaggio della pubblicità, negli anni in cui si avviava la rivoluzione delle merci e della società e l’advertising divenne il motore di una rivoluzione culturale. Non disdegnava nessun tipo di prodotto, neppure la politica. Fu lui a ideare il claim della campagna elettorale che portò trionfalmente Mitterrand all’Eliseo, “La force tranquille”, il miglior slogan politico dai tempi del “Labour isn’t working” con cui Saatchi & Saatchi spinsero Thatcher a Downing Street. Séguéla era un uomo brillante, il contrario dell’intellettuale da salotto (“il mio mestiere non è di avere opinioni, ma di avere delle idee”). Scrisse un libro, era all’apice della carriera, con un titolo straordinario e programmatico: Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario… lei mi crede pianista in un bordello. Il mondo era cambiato e stava cambiando grazie a gente come lui o Charles e Maurice Saatchi, ma gli intellò, la classe politica e una società poco disponibile alle trasformazioni consideravano il mercato un male, e la pubblicità un lavoro disdicevole per un colletto bianco intelligente. Invece i pubblicitari furono, per lungo tempo, i più aggiornati intellettuali – occhi per vedere e orecchie per ascoltare – di un mondo che non andava necessariamente verso il peggio. Il flusso delle merci nell’èra del digitale è cambiato.

E così è cambiata la pubblicità nell’epoca del social media e dell’immediata desiderabilità di tutto. Chiara Ferragni, con il suo suffisso satellite in “ez”, è una pubblicitaria, anzi è proprio un veicolo pubblicitario, del nuovo mondo. Si è inventata, la prima in Italia e tra le più brave nel mondo, roba che la studiano all’università in America, un lavoro che non c’era per un’economia che non c’era. Ma che serviva, come negli anni della tivù commerciale servivano i pubblicitari. Per qualche anno si è detto che è una influencer, prossimamente chissà. Ha fatto quel che voleva e lo ha fatto bene. Chi ce l’ha con il suo lavoro? Gli stessi a cui Séguéla dedicava il titolo del suo libro: i malmostosi, gli incapaci di intendere la modernità, per i quali la ricchezza era la grande meretrice e la pubblicità l’anticamera del bordello. L’accusa è sempre quella, per il vecchio Jacques e per i giovani Ferragnez, essere dei cattivi maestri. Diceva il vecchio: “La pubblicità non sceglie per nessuno. Permette di scegliere meglio. E basta”. Quelli che odiano per isteria da tastiera, per invidia, per pauperismo, perché hanno trent’anni ma hanno nostalgia degli anni Cinquanta che non hanno mai visto (ne è pieno il web, strana pandemia dei figli della vecchia piccola borghesia) lo fanno, in fondo, perché non hanno mai capito niente della pubblicità. E dei desideri.

Ho fatto una rapida ricerca nella mia bolla professionale, settore donne moderne e brave: nessuna si fa particolarmente influenzare da come si veste Ferragni. Ho alcune stupendissime nipoti liceali, stanno benissimo anche senza comprare le ciabatte di plastica messe in bella mostra nelle foto. Insomma si può vivere tranquillamente anche senza i Ferragnez, ma sarebbe un mondo meno divertente. O almeno colorato.

Poi gli anni passano, le mamme anche dei Ferragnez invecchiano, il piccolo Leone cresce bene nonostante le macumbe degli hater. E si cambia. Per non morire. Per esempio, arriva il coronavirus. Tappati in casa, Instagram non è più il mondo fatato dove vivono e fanno la grana i ricchi e stronzi, diventa un posto assembrato da tutte le pizze e le torte cucinate nei bilocali senza boschi verticali, da tutte le canzoni stonate dal balcone, da tutte le librerie allestite dietro al tavolo sparecchiato per lavorare. Non ci sono nemmeno più le sfilate, gli eventi, gli aperitivi in terrazza da seguire per vedere chissà come si sono vestiti i Ferragnez. Non ci vuole molto a capire che non c’è più neanche il lavoro degli influencer. E allora loro (o allora lei) che sono intelligenti, magari più istruiti dei loro follower o imitatori professionali, o semplicemente hanno visto più mondo, lo hanno capito per primi. Mentre su tutti i giornali e i talk tutti i pensosi del pianeta si chiedevano “come sarà il domani?”, loro hanno deciso che era ora di fare una cosa diversa. Persino adulta. Si sono messi a ristrutturare l’azienda e il concept.

A marzo, mentre nella loro Milano si moriva a grappoli e tutto sembrava perduto, hanno lanciano un fundraising per donare soldi al San Raffaele (orrore, i privati!) per costruire un reparto di terapia intensiva. In qualche giorno sono arrivati oltre quattro milioni. Fatto. “Questo è il potere dei social network quando sono usati nel modo giusto”, hanno detto. Ma c’è anche chi li ha coperti di sospetti: lo faranno per guadagnarci qualcosa? Poi si sono messi la pettorina e la mascherina e, mentre i loro hater se ne stavano sul divano sfondato a maledire le donne il virus e il governo, sono andati in giro coi volontari a distribuire la spesa e le medicine ai vecchietti che non potevano uscire. Li hanno coperti di contumelie perché lo facevano, ovvio, soltanto per farsi la pubblicità. Invece hanno creato una cosa nuova. O magari hanno capito che nel mestiere dell’apparire, e dunque dell’essere, bisogna dare anche un esempio. Hanno trasformato l’attività di agenti di commercio ispirazionale in quella di economisti circolari delle idee utili. La documentarista Amoruso ha detto: “Penso che la gente sia molto sola, che abbia bisogno di partecipare anche virtualmente a vite altrui per sentirle amiche. Per sognare, per imparare. In questo senso credo che la vita e il lavoro di Chiara diano anche una immagine di educazione, gentilezza, serenità, impegno. Dove non esistono rabbia, insulti, razzismi, crudeltà, maledizioni, che quotidianamente ci sommergono”.

Poi la gente è tornata per strada, compresi i fascistoidi palestrati in vena di massacrare la gente. Lei fa un post da qualche parte per denunciare il fascismo eterno (no, ovvio che non ha usato la citazione cult del ceto medio riflessivo), ma insomma quella roba lì. Apriti cielo. Lui ha replicato che sembrava un libro stampato, seppure di sociologia anni Settanta: “Il problema di questa società saremmo noi? Dicono che i criminali si ispirerebbero a noi perché porteremmo avanti un modello vuoto e narcisista. Diamo per assodato che Chiara Ferragni e Fedez siano il problema di questa società”. Il punto non è se è abbiano ragione, è che ora che sono diventati parte attiva della scena pubblica, al pari dei politici dei calciatori e dei virologi, hanno il diritto dovere di posizionarsi persino nel dibattito delle idee. (Magari senza esagerare, eh). Finora lo hanno fatto dalla parte giusta: due di noi.

L’intuizione genialoide di Francesco Vezzoli che ha dipinto Chiara Ferragni come una Madonna del Sassoferrato parla di tutto questo. Da essere soggetto e corpo della pubblicità, e oggetto del “dibattito” sulla pubblicità – in fondo lo fu anche Calimero, il pulcino nero: che era solo un cartone animato ma divenne un simbolo dei dibattiti sul razzismo – è salita in un cielo più alto, quello delle icone. Delle immagini-concetto che racchiudono un pezzetto di senso di un’epoca. A 33 anni (63 in due) non è male come risultato. Due di noi, o almeno i nostri nuovi modelli ispirazionali.

Congedo con dedica d’autore: “La ragazza dietro al banco mescolava / birra chiara e Seven Up / E il sorriso da fossette e denti / era da pubblicità”.

Articolo di Maurizio Crippa per il Foglio Quotidiano

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