Tolo Tolo, la recensione

Tolo Tolo, la recensione

Checco Zalone dichiara guerra all’intolleranza nella sua commedia più politica

Una commedia quanto mai attuale, quella firmata a quattro mani da Checco Zalone e Paolo Virzì, dal 1 gennaio in sala.

Quattro lunghissimi anni d’attesa per tornare al cinema, dopo gli epocali 65,7 milioni di euro incassati da Quo Vado? nel 2016. Quattro anni di ansie legate alle inevitabili aspettative, per Checco Zalone, per la prima volta non solo protagonista ma anche regista al posto di colui che fino ad oggi l’aveva sempre diretto e aiutato nella scrittura. Perso Gennaro Nunziante, Luca Medici, questo il nome all’anagrafe dell’ex comico di Zelig, ha attinto da un soggetto di Paolo Virzì per la sua quinta fatica cinematografica, avvolta dal mistero lungo tutta la lunghissima produzione.

Tolo Tolo è costato tanto, e si vede, ed è andato incontro a nove mesi di riprese, dal primo ciak in Kenya all’ultimo a Roma, con molte pause in mezzo, settimane nel deserto del Marocco, a Malta e in tante città italiane, con tantissime comparse. Una produzione ambiziosa, voluta e cavalcata da uno Zalone che al suo esordio dietro la macchina da presa ha visibilmente voluto cambiare passo, smarcarsi dal furbo bilanciamento comico del passato, segnato dall’irriverenza e dal cinismo bipartisan, in grado di suscitare ilarità sia tra chi ama la commedia popolare e chi apprezza maggiormente quella più d’autore. La presenza di Virzì in cabina di scrittura, da questo punto di vista, si sente ed è palese, anche se non soprattutto nel tema trattato e nel modo in cui Zalone affronta l’argomento più contemporaneo della cronaca politica italiana. Il ‘caso’ migranti.

Checco, in questo caso, indossa i panni di un incompreso in patria travolto dai debiti e dalle tasse non pagate che fugge dall’Italia, trovando accoglienza in Africa. Peccato che la guerra lo costringa a far ritorno nel Bel Paese, percorrendo la tortuosa rotta dei migranti, tra camion stracolmi di umanità, bombe, terroristi sequestratori e bagnarole pericolanti in mare.

Ero sempre smarrito, agitazione, ansia, stress, è difficilissimo girare, avere la responsabilità di tutta la macchina. Paolo Virzì mi ha chiamato, aveva questo soggetto. Abbiamo iniziato a scrivere, e mi son reso conto che glielo stavo rubando, che stava diventando mio. Quando abbiamo iniziato a girare ho capito l’immensa difficoltà di questo lavoro. Hai tutto in mano. Cast, produzione, lì ho bestemmiato. È stato faticosissimo, si è accanita anche la sfortuna. Ha piovuto nel deserto, non accadeva da 20 anni.” Dalla conferenza stampa di Checco Zalone

Meno divertente rispetto ai suoi precedenti film, Tolo Tolo ci regala uno Zalone più netto e inquadrato, che percula in modo diretto quel morbo tutto italiano che ciclicamente, nei momenti di maggiore stress, riaffiora: il fascismo, che a detta di Luca Medici tutti noi abbiamo, come la candida, pronto a tornare a galla e da combattere attraverso l’amore. Momenti di ‘mussolinite’ sulle note di Faccetta Nera, per Checco, che spazia come non mai tra scene oniriche, cantando come al suo solito brani volgarmente spiazzanti.

In uno di questi Checco ringrazia la ‘gnocca’, perché in grado di rendere più tolleranti gli italiani grazie alle sinuose forme delle bellezze di colore, mentre uno in dei sogni più rischiosi della pellicola Zalone, appena travolto da un’onda che capovolge la carretta del mare stipata di migranti, si inventa una danza acquatica in stile Esther Williams, cantando “da qualche parte nel Planisfero c’è sempre uno stronzo un po’ più nero”. Sbarcati finalmente in un porto dopo giorni d’attesa causa stallo politico, nasce una lotteria europea sui migranti segnata dalla musica di Ok il Prezzo è Giusto, con tanto di bussolotti a decidere le sorti dei poveri cristi fuggiti dalla guerra.

Ed è qui che Zalone prende posizione, evitando di rimanere nel paraculo limbo che oscilla tra cinismo e ruffianeria, mentre il finale di pellicola si fa talmente contemporaneo da far ipotizzare chissà quante riscritture, anche recentissime, pur di rimanere sull’attualità nazionale. Registicamente parlando Tolo Tolo appare poco uniforme, a tratti slegato, anche se visivamente più temerario rispetto ai precedenti lavori firmati Nunziante, mentre la sceneggiatura è sicuramente meno incalzante nel suo strapotere comico, con un inatteso cameo di Nichi Vendola, ex governatore della Puglia, da sottolineare per la piacevole autoironia.

In uno dei tanti momenti musicali del film, in cui si omaggia Mino Reitano, Zalone si immagina un’Italia ben oltre il multirazziale, con una nazionale composta da undici calciatori di colore e un Papa nero, accerchiato da vescovi che appaiono scioccati dall’elezione appena avvenuta. Tra animazione finale, fantasiose svolte e politicamente corretto in chiave virziniana, Tolo Tolo cavalca il quotidiano nazionale e i suoi tanto chiacchierati problemi, reali o fittizi che siano, che coinvolgono la burocrazia e le immancabili tasse, le scalate politiche di incapaci e ignoranti venuti dal nulla e per questo quasi legittimizzati a farsi portavoce di un Paese intero, la spettacolarizzazione giornalistica, l’universo influencer e l’ipocrisia di una classe dirigente che fa campagna elettorale sulla scura pelle di semplici essere umani, in fuga dalla guerra e nient’altro che in cerca di un futuro.

Meno cattivo rispetto ad un Sordi d’annata, sua dichiarata ispirazione, Tolo Tolo di Zalone finirà per dividere come mai accaduto prima, nella sua decennale carriera cinematografica. Comunque la si voglia vedere, e al di là dell’aspetto puramente tecnico del film, un cambio di passo netto, imperfetto, rischioso, voluto, che guarda all’accoglienza come possibile soluzione per un Paese migliore, banalmente più umano di quello che stiamo vivendo.

Recensione apparsa sul sito cineblog.it a cura di Federico_40  

IN IRAN IL DADO E’ TRATTO?

IN IRAN IL DADO E’ TRATTO?

Il presidente Tramp che per mesi si era opposto ai “falchi” che volevano la guerra all’Iran, uccidendo il generale Soleimani di fatta l’ha dichiarata: decisione solo sua?

CIRCOSTANZIATA E PREOCCUPATA ANALISI DA NEW YORK DI STEFANO VACCARI, DIRETTORE DELLA VOCE DI N.Y. GIORNALE IN LINGUA ITALIANA.

Il 3 gen 2020 Donald Trump dice agli americani di non voler la guerra e di non cercare il “regime change” a Theran, ma l’ha praticamente dichiarata la guerra con il suo ordine di “terminare” il generale Qasem Soleimani. A questo punto è fondamentale capire quanto abbiano pesato sulla decisione della Casa Bianca i fattori interni (impeachment e elezioni) esterni (Israele, Arabia Saudita….), se sia stato calcolato l’atteggiamento della Russia (Putin ci guadagnerebbe ancora una volta?), e se alla fine Trump sia veramente convinto che possa ancora evitare in tempo una guerra tanto imprevedibile e fallimentare quanto una puntata d’azzardo sulle roulette dei suoi casinò.

“Megghiu lu tintu conusciutu, calu bonu a conusciri ”.

(Proverbio siciliano: Meglio il cattivo che si conosce che il buono che si deve ancora conoscere).

Il generale iraniano Qasem Soleimani, ucciso giovedì notte a Baghdad da un attacco di droni ordinato dal presidente Donald Trump (Foto Mahmoud Hosseini/Tasnim News Agency)

Peccato che Donald Trump non conosca il siciliano, lingua imperniata di pessimismo ma che avvolte serve. Forse lo avrebbe aiutato nel ponderare meglio la decisione di quando ha dato l’ordine di polverizzare con un drone il Generale iraniano Qasem Soleimani.

Non era un buono Soleimani, anzi probabilmente un “tintu,” però sicuramente molto conosciuto e, quindi, più prevedibile. E’ vero, in tanti anni aveva reso un inferno la permanenza di truppe americane in Iraq. Tant’è che Trump, in campagna elettorale, aveva capito e promesso che le avrebbe riportate a casa… Ma di colpo il presidente USA, invece, decide di far fuori quel “cattivo” al quale era stato permesso per anni di entrare e uscire dall’Iraq a piacimento: perché oggi un missile lo incenerisce e non due anni fa? Forse per lo stesso motivo per cui George W. Bush, quando glielo avevano messo nel mirino già nel 2006, decise di tenersi “lu tintu conusciutu”

Trump doveva saper bene, prima di prendere la decisione, che Soleimani, anche se a capo di una forza militare messa dal Dipartimento di Stato nella lista “terroristica”, non era uno di quei capi di organizzazioni “extra-nazionali” tipo Al Qaeda o Daesh, quelle da nessuno riconosciute come entità statali. Soleimani era la figura più importante e carismatica delle forze militari dell’Iran,  uno stato sovrano, membro dell’ONU e che oltre essere tra le più antiche nazioni della terra, resta tra le più armate del mondo. Uccidere quindi il suo top general in Iraq, insieme ad un altro leader militare iracheno, non è certo come colpire con un drone il capo dell’ISIS  nascosto in Siria o di Al Qaeda in Pakistan.

Ma Trump, nella scottante roulette mediorientale, ha lanciato una puntata da giocatore d’azzardo: uccidere il generale Soleimani equivale praticamente ad una dichiarazione di guerra.

Trump e la guerra con l’Iran nell’illustrazione di Antonella Martino

La giustificazione di Trump, con l’eco del Pentagono e del Segretario di Stato Mike Pompeo, che sarebbe stata una mossa “preventiva di difesa” perché Soleimani stava pianificando attacchi contro gli americani, non cambia la sostanza:  sarebbe quindi stato un attacco di guerra “preventivo”, di quelli “a sorpresa”, come Israele fece ad esempio nel 1967 contro l’Egitto di Nasser… 

Ma quando Trump poi dichiara che “non vuole la guerra”, che a lui piace la pace, che spetta all’Iran decidere, e lo ripete davanti ai giornalisti? A noi appare un controsenso, o fumo sulla verità,  o meglio fake news: la guerra è stata già scelta dagli USA di Trump, ora agli iraniani restano solo due scelte: la resa senza condizioni (impossibile), o ufficializzarla la guerra con una ritorsione ormai inevitabile.

Chi ha “consigliato” Trump prima di prendere la decisione, ha spiegato al presidente che autorizzando l’attacco contro Soleimani, stava dichiarando guerra all’Iran? Facendo forse al claudicante regime iraniano, in questo momento, anche un favore?

A quanto pare, almeno intuiamo dalle dichiarazioni del Pentagono, non sarebbe provenuto dai militari il “consiglio”, ma sarebbe stato direttamente un “ordine” del Presidente di colpire, ordine efficacemente eseguito. Almeno questo ci sembra capire dalla dichiarazione che il Pentagono ha agito “under the direction” del presidente.

Per quanto riguarda il favore… Il regime iraniano era da tempo sotto pressione per via di proteste sparse sia in Iran che in Iraq: ora, nel “clima di guerra”,  potrà soffocarle come meglio vuole, tacciando chiunque scenda per strada a protestare il regime di convivenza col nemico.

Ma chi ha consigliato Trump, una volta che il falco Bolton se ne era andato proprio perché il presidente, mesi fa, aveva resistito di dare l’assenso ad una escalation militare per reagire agli iraniani che avevano abbattuto un drone e colpito una petroliera?

Mentre tutti gli alleati europei compresi, e fate molta attenzione, gli inglesi di Boris Johnson, fanno dichiarazione allibite per non essere stati informati dalla Casa Bianca e dichiarano che una guerra va contro i loro interessi, ecco che gli unici governi che applaudono a Trump, sono l’Israele ancora manovrata da Netanyhau e l’Arabia Saudita killer di giornalisti… Può essere stata la “strana coppia” israelo-saudita ad aver spinto Trump? O invece pesa più il nervosismo presidenziale per l’impeachment del Congresso? Quanto può aver giocato nella frenesia trumpiana di premere il grilletto per sentire “il calore patriottico” del suo elettorato, in un momento in cui è sotto accusa di essere “un traditore” degli interessi nazionali dell’America?

Ma andiamo al nocciolo della questione in cui Trump ci porta tutti all’inizio del 2020: cosa succederà ora con la guerra?

Dopo tre giorni di lutto nazionale dichiarato dal supremo leader iraniano Ali Khamenei,  arriverà la risposta di Teheran. Gli obiettivi possibili della furia iraniana sono tanti, ma quello che sembra il più probabile e pericoloso, si trova davanti casa loro, nel Golfo Persico. Lì i missili iraniani potrebbero colpire obiettivi americani e occidentali  (leggi petroliere) e far schizzare ancora di più in alto il prezzo del petrolio. Tutto questo negli stessi giorni in cui la Turchia di Erdogan (che con l’Iran ha buoni rapporti) ha deciso di inviare truppe in Libia… Avete inteso quindi? Ecco che dal Golfo Persico al Golfo della Sirte, il mondo rischia tra poche settimane l’inferno, soprattutto per quanto riguarda l’industria petrolifera. E indovinate chi è il vaso di coccio che pagherà subito le conseguenze dei prezzi energetici alle stelle?

Il presidente USA Donald Trump nell’illustrazione di Antonella Martino

Già il petrolio. Ecco che una crisi tra USA e Iran, converrà a chi fa soldi col petrolio mentre si rischia di incendiare i pozzi. Quindi a perderci sicuramente sarà l’Italia e tutti quei paesi “dipendenti”, a guadagnarci subito invece ci sarebbe… Ma guarda un po’, una di sicuro sarà la Russia di Putin. Proprio quel petrolio russo così difficile da estrarre e quindi troppo caro per fare affari in tempi normali, ecco che quando il prezzo schizza in alto diventa una fonte di guadagno fondamentale per le casse bisognose di Mosca.

Ma la Russia non era una alleata dell’Iran? Alleata, che parola grossa. Diciamo che negli ultimi anni i due paesi sono guidati da regimi con “interessi” quasi coincidenti. Anche nel caso di una guerra tra Iran e Usa, Putin farebbe un sacco di affari non solo col petrolio che schizza su, ma nel vendere ancora altre armi necessarie agli iraniani per colpire le navi nel golfo e le basi americane in Iraq… Ma la guerra non sarebbe troppo destabilizzante anche per gli interessi russi in Medio Oriente? Dipende. Una grande guerra sicuro. Ma una contenuta, che non si allarghi ai suoi immediati interessi (Siria) e soprattutto una guerra dove poi la Russia possa giocare il ruolo del mediatore pacificatore indispensabile… Certo, anche la Russia rischia, tutti rischiano con le guerre. Però in questo momento è proprio Putin. potenzialmente, quello che almeno agli inizi si potrebbe avvantaggiare di più.

Ecco che quindi Trump non fa altro che aver messo nel vassoio mediorientale dello zar Putin un’altra sua decisione che rafforza lo status della Russia. Questa volta, non ci resta che sperarlo come minore dei mali, forse senza capirlo…

PS 1: Ma a Trump nessuno ha ricordato cosa accadde agli americani in Libano nel 1983?

PS 2: Il Congresso sta verificando che sia nei poteri presidenziali ordinare di uccidere un generale di un paese membro dell’ONU che sta visitando un altro paese membro dell’ONU senza che ci sia una dichiarazione di guerra?

PS 3: E il Consiglio di Sicurezza dell’ONU? Come mai, almeno la Russia non lo ha subito convocato d’urgenza ieri? Lo farà… già certo che lo farà, ma con calma…

PS 4: Intanto venerdì l’ambasciatore dell’Iran alle Nazioni Unite Majid Takht Ravanchi ha comunicato formalmente, con una lettera al Consiglio di Sicurezza e al Segretario Generale Antonio Guterres, che il suo paese si riserva del diritto “to self-defense under international law”, di difesa secondo i dettami della legge internazionale, dopo che gli USA hanno ucciso il generale Qassem Soleimani, top commander della forza  Quds della Revolutionary Guards dell’Iran.

Visti da New York di Stefano Vaccara

MA CHE MODI ?

MA CHE MODI ?

UN EROE MALEDETTO, ANARCHICO, FOLLE E VIOLENTO? LO RICORDANO ALCOOLIZZATO, DROGATO, IRASCIBILE, VIOLENTO E DISSIPATORE. LA GLORIA SOLO DA MORTO, MA SUBITO FALSIFICATO UN MODO SPUDORATO, TANTO CHE OGGI E’ DIFFICILE DISTINGUERE LE OPERE ORIGINALI DALLE COPIE. CI CADONO ANCHE I MUSEI.

Chi è stato davvero Modì? Un grande isolato del XX secolo, distante da gruppi e da movimenti, abile nel captare suggestioni spesso dissonanti, dedito a una personale e ossessiva ricerca poetica: «La sua storia inizia e finisce con lui», ha scritto Giuliano Briganti. Inventore di un codice inconfondibile, ha saputo essere, insieme, antico e contemporaneo.

Barbarico e sofisticato. Il suo obiettivo: elaborare un arcaismo moderno, denso di rimandi alla statuaria primitiva e di echi classici, medievali, rinascimentali. Con controllata lentezza, Modigliani si fa aedo di una figurazione primaria. In bilico tra realismo e visionarietà, ricorrendo a una sintassi minimale, lascia affiorare dal nulla divinità di un mondo lontano. Apparizioni ieratiche. Nasi simili a frecce, occhi privi di pupille, palpebre serrate, colli allungati. Corporeità statiche, imperturbabili.

Monumentalità mistiche, indifferenti a ogni sperimentalismo. Una purezza metafisica, libera da ogni riferimento alla cronaca, ricca di rinvii alle semplificazioni di Brâncusi.

Come Picasso e Apollinaire, Modigliani sa che la bellezza, nella modernità, non si offre più come armonia solenne, ma come necessità ferita, equilibrio infranto. Peccatore che consumava tutto rapidamente, Modigliani ha condotto un’ esistenza bohémienne in quel meraviglioso laboratorio di intelligenze che è stata la Parigi primonovecentesca, in costante dialogo con Apollinaire e Cocteau.

Un eroe maledetto: anarchico, folle, violento, alcolizzato, drogato, attaccabrighe, irascibile, irresponsabile, dissipatore, egocentrico, frequentatore di prostitute, appartenente alla genia dei «suicidati della società» di cui ha parlato Artaud.

A 35 anni, in Francia, affetto da tubercolosi, Modigliani muore. È il 24 gennaio 1920. Il giorno del funerale, racconterà la sorella Margherita, intorno a lui inizierà a svilupparsi una pericolosa speculazione ordita da una cinica macchina del malaffare. Di questi scenari inquietanti ora si fanno attenti cronisti una giornalista e un poliziotto, membri della Fondazione Antonino Caponnetto: Dania Mondini, giornalista della Rai (che nel 2018 ha curato una puntata di TV7 intitolata «Giallo Modigliani»), e Claudio Loiodice, ex ispettore di Polizia, impegnato in operazioni contro il crimine organizzato, specializzato in riciclaggio e frodi internazionali.

Mondini e Loiodice hanno scritto un libro appassionante, in uscita da Chiarelettere, L’ affare Modigliani (postfazione di Pietro Grasso, ex magistrato, ex presidente del Senato). Un volume che – ne siamo certi – sarebbe piaciuto a Federico Zeri, detective sapiente nel distinguere le opere d’ arte vere da quelle false, straordinario conoscitore, con un occhio prodigioso: di lui si potrebbe dire quello che esclamò Cézanne a proposito di Monet, «non è che un occhio, Dio mio, ma che occhio!».

Denuncia «senza timori o remore», che non inciampa mai nella calunnia o nella diffamazione; inchiesta criminologica, nella quale si fanno nomi e cognomi e si riportano informazioni, notizie e dati sempre documentati; spy story ricca di misteri, di errori, di omissioni, di sviste, di alibi, di collusioni; infine, giallo scandito in otto «scene del crimine»: Parigi, place Denfert-Rochereau; Chiasso, porto franco; ancora Parigi, 55 Boulevard Saint-Michel; Livorno, quartiere Venezia Nuova; Genova, Palazzo Ducale; Londra, Piccadilly; di nuovo Parigi, 205 Boulevard Vincent Auriol; infine Worldwide Interbank Financial.

Rispetto a queste scene del crimine, un momento laterale ma significativo del libro è rappresentato dal viaggio nel «più segreto dei musei del mondo»: il porto franco di Ginevra, nel quale sono conservati «miliardi di euro di dipinti, sculture e reperti archeologici». Una fonte rivela agli autori del volume che lì è custodito anche il Salvator Mundi , il dipinto – attribuito a Leonardo – acquistato nel 2017 per 450 milioni di dollari dal principe saudita Mohammad bin Salman.

Ecco L’ affare Modigliani . Battendo piste inattese, i nostri investigatori ricostruiscono il caso-Modì. Siamo invitati a entrare in una drammaturgia abitata da tante voci. Un involontario romanzo di spionaggio basato su dati accuratamente raccolti e verificati, segnato da tanti colpi di teatro. Un «pasticciaccio», i cui protagonisti sono – tra gli altri – Jeanne, figlia di Modigliani, e Christian Parisot, archivista. Ecco come viene presentato Parisot dai due autori: «Esperto di storia dell’ arte.

Sul suo conto pesano inchieste per falso, ricettazione, truffa e reati specifici relativi alle violazioni delle norme del codice dei beni culturali. Condannato nel 2008 in Francia per falso e truffa. Arrestato in Italia nel 2012 per falso e ricettazione, poi assolto nel 2019 per la ricettazione mentre il reato di falso è caduto in prescrizione». Intorno a loro, si muovono comparse e burattinai: magistrati, avvocati, uomini d’ affari, collezionisti, criminali, storici dell’ arte. Attori di un teatro della disonestà.

Modigliani: Il mendicante, di Livorno, 1909

Figlio di Adrien, pittore cresciuto negli ambienti milanesi del MAC (Movimento Arte Concreta), studente di storia dell’ arte, nel 1974 Christian Parisot lascia il Piemonte per trasferirsi a Parigi. Si iscrive alla Sorbona. Lì incontra Jeanne Modigliani, all’ epoca docente di Lingua e letteratura italiana. I due cominciano a frequentarsi con assiduità. Christian diventa l’ ombra di Jeanne. La corteggia, quasi la venera. Ne diventa l’ uomo di fiducia, il factotum.

Sin dalla prematura scomparsa di suo padre, Jeanne – che morirà nel 1984 in circostanze misteriose – si dedica a raccogliere con amore materiali di ogni tipo, strumenti di lavoro, lettere, appunti e fotografie, dando vita agli Archivi Legali Modigliani. Un modo per difendere la memoria di un artista con un temperamento incostante, portato a distruggere disegni e quadri, morto giovane, senza lasciare firme depositate, né un elenco con la descrizione delle opere dipinte e scolpite.

«Gli Archivi – ricordano Mondini e Loiodice – rappresentano il tentativo di cristallizzare tutto ciò che può dare un’ identità certa al patrimonio artistico di Modì. Chi li possiede ha in mano gli strumenti per fare expertise e quindi decretare se un’ opera è vera o falsa, o quantomeno se un determinato quadro si porta in dote una storicità. Spesso, invece, sarebbero stati utilizzati per costruire cronologie o matrici fasulle, dando il via a fabbriche di falsi».

È quel che accade al «povero» Modigliani, la cui eredità artistica, negli anni, è stata tradita e violata da tanti loschi figuri, disinvolti nell’«abusare» degli archivi per legittimare opere di dubbia qualità.

Cominciano a circolare disegni non fatti da lui, autenticati e poi rivenduti; fotocopie ad alta definizione di schizzi falsi, in seguito ritoccati con il colore, per renderli più verosimili al tatto; quadri realizzati da esperti falsari; infine, nuove opere, «magari ingrandimenti di figure che da mezzobusto passano a primi piani».

Tra i principali responsabili di questo «mercato», a lungo considerato «un’ indiscussa bocca della verità» cui si rivolgono critici e poliziotti, Parisot sarebbe riuscito anche a farsi «garantire» da autorevoli esperti d’ arte, i quali non si sono preoccupati di riconoscere con onestà critico-filologica l’ autografia di determinate opere, ma per superficialità o peggio per interessi personali sono diventati suoi complici.

Tra le persone vicine a Parisot, gli autori del libro indicano anche uno studioso colto come Claudio Strinati, che si è spinto «alla compilazione di documenti ufficiali, stilati e firmati nella sua qualità di soprintendente del Polo museale romano, con i quali certifica il valore e la rilevanza degli Archivi Legali Amedeo Modigliani su richiesta di Parisot».

Alcuni fotogrammi di questa sorta di film, che ci riserva tante sorprese. 1984, nel Foro Reale di Livorno, vengono ritrovate due teste. Grandi storici dell’ arte (come Argan e Ragghianti) sostengono che Modigliani aveva deciso di liberarsi di quei blocchi ancora incompiuti, gettandoli in un fossato. «A me paiono dei paracarri», dice invece Zeri, secondo qualcuno tra gli ispiratori di quella beffa degna di Amici miei , ordita da un piccolo gruppo di studenti universitari. Solo una bischerata? Non solo. 2010.

In una mostra allestita al Museo archeologico di Palestrina, sono esposte ventinove opere attribuite a Modì: come viene subito certificato, croste create ad hoc dal «gotha dei falsari romani». Una vicenda simile si ripeterà nel 2017, quando, in un’ esposizione al Palazzo Ducale di Genova, verranno presentati venti quadri (su 21) grossolanamente falsificati.

DA SINISTRA: MODIGLIANI CON GLI AMICI A HAUT-DE-CAGNES NEL 1919. IN BASSO NANIC OSTERLIND (SEDUTO); ALLE SUE SPALLE, DA DESTRA: AMEDEO MODIGLIANI, LÉOPOLD ZBOROWSKI, ANDERS OSTERLIND; AMEDEO MODIGLIANI, BAMBINO CON I CALZONI CORTI (NANIC OSTERLIND), 1918 CIRCA. DALLAS, MUSEUM OF ART; AMEDEO MODIGLIANI, CONTADINELLO, 1918 CIRCA. LONDRA, TATE GALLERY

Una pericolosa commedia degli equivoci, che ripropone una liturgia ampiamente diffusa. Conosciamo falsi Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Picasso, de Chirico, Dalí e, appunto, Modigliani; mentre difficilmente ci imbattiamo in falsi di Leonardo da Pistoia o di Zoran Muic. Perché? Semplice: i falsari scelgono le celebrity ; trovano terreno fertile dove c’ è carenza di originali, cercando di venire incontro alle richieste del mercato, che vive sulla quantità dell’ offerta. Il fine di queste azioni è chiaro: un quadro non vero non vale niente; nel momento in cui entra in un museo o in un luogo espositivo istituzionale, viene legittimato e acquista un valore sempre crescente. Nell’ affaire -Modigliani, questo business, gestito con la complicità della criminalità organizzata e dei riciclatori internazionali di denaro, è stimato in almeno undici miliardi di euro.

Pochi hanno cercato di combattere l’ azione di personaggi come Parisot: tra gli altri, il «cacciatore di falsi» Carlo Pepi; e Isabella Quattrocchi, tra i più accreditati periti di tribunale nei procedimenti su falsi e falsari nel mondo dell’ arte. Tenaci «eroi», che hanno cercato di difendere la grandezza di Modigliani, ormai irrimediabilmente «stravolta e disonorata».

Un’ impresa disperata. «Dell’ opera di Amedeo Modigliani oggi non è rimasto granché», scrivono Mondini e Loiodice. I falsi sono ovunque. Se ne calcolano circa mille, disseminati tra musei e collezioni private di tutto il mondo. Persino nel catalogo generale curato da Ambrogio Ceroni (nel 1972) sono riprodotti quadri ritenuti non autografi dalla figlia dell’ artista. Difficile, forse impossibile, dipanare questa matassa di omertà e di interessi malavitosi. «Attenzione, chiunque si occupa di Modigliani viene colpito da una sorta di maledizione!», amano spesso ripetere tanti storici dell’ arte con rassegnata ironia.

Articolo di Vincenzo Trione per “la Lettura – Corriere della sera”

CAVOLI, E’ L’ANNO NUOVO!

CAVOLI, E’ L’ANNO NUOVO!

Succulenti con salsicce, cotiche e costolette, i cavoli ben si sposano anche con eriche, ciclamini e viole del pensiero. No, non vi sto proponendo per il cenone di Capodanno  una rivisitazione con fiori eduli della cassoeula milanese. Ma è innegabile la fortuna del momento di questo ortaggio, povero quanto gustoso, versatile quanto vituperato, che dal piatto s’è allargato al centrotavola, dopo aver conquistato giardini e aiuole cittadine.  

Vuoi mettere come è più fine, nonché specialistico, dire brassica invece che cavolo! Visto poi che il termine non gode di buon uso: sia come eufemismo di un più triviale e assonante intercalare («son cavoli amari», «cavoli miei», ecc.) sia come allusione  allo scarso valore  o alla nessuna importanza («non capisci, non vali un cavolo»). Per non parlare di proverbi e modi di dire, dove per lo più compare in situazioni non lusinghiere: si dice infatti «salvare capra e cavoli» per barcamenarsi, «starci come i cavoli a merenda» per inadeguato, inopportuno, «portare il cavolo in mano e il cappone sotto» per mostrarsi diversi da quel che si è e, con un che di spregio, «andare ad ingrassar cavoli» per morire. 

Forse, solo il detto secondo cui «i bambini nascono sotto i cavoli» rivendica loro un ruolo felicitante. L’origine sembra risalire alle contadine dell’Europa centro-orientale, chiamate levatrici perché ruotando con entrambe le mani  la “testa” la staccavano dal fusto (lat. caulis, da cui cavolo), come se con quel gesto recidessero il cordone ombelicale che li teneva legati alla terra. Per altro, circa nove sono i mesi del ciclo dalla semina alla raccolta, e note sono le loro proprietà salutifere: sono ricchi di vitamina C (più degli agrumi) oltre che di potassio calcio e ferro, perciò alimento eccellente per affrontare i malanni invernali e, come si sa, sono persino efficaci nella prevenzione di alcuni tipi di tumore.    

Cattiva fama vien loro anche dallo sgradevole odore che emanano in cottura dovuto allo zolfo contenuto nelle fibre. Cibo umile, il cavolo: costa poco e sazia, come le patate ha sfamato generazioni di diseredati. Non c’è scrittore che per rendere al meglio quartieri popolari o degradati non ci metta anche un cavolo o ne evochi il sentore. E non parlo solo dei romanzi russi dove si incontrano minestre di rape e cavoli ad ogni passo. Questo è l’esordio di 1984 in cui George Orwell descrive il condominio londinese in cui, al settimo piano, abita il protagonista: 

Era una luminosa e fredda giornata d’aprile e gli orologi battevano tredici colpi. Winston Smith, tentando di evitare le terribili raffiche di vento col mento affondato nel petto, scivolò in fretta dietro le porte di vetro degli Appartamenti della Vittoria: non così in fretta, tuttavia, da impedire che una folata di polvere sabbiosa entrasse con lui. L’ingresso emanava un lezzo di cavolo bollito e di vecchi e logori stoini.

E va da sé che l’ascensore non funzioni e in cucina non ci sia altro che un pezzo di pane nero.  Dal futuro orwelliano per certi versi realizzato, veniamo alla Roma ottocentesca di Stendhal, che eterna, almeno quanto a immondizia, si direbbe per davvero:

Regna per le strade di Roma un tanfo di cavoli marci. Attraverso le belle finestre dei palazzi del Corso si scorge la povertà degli interni. Roma è in realtà un agglomerato di sublimi rovine e case moderne, sarebbe stato meglio se non fosse sopravvissuta alla fine dell’età antica. (Roma, Napoli e Firenze, 1817)

Ma ecco che i cavoli tanto bistrattati si pigliano la rivincita, e da New York a Pechino spopolano – è il caso di dire – nelle aiuole e nei parchi urbani. Rustici, non temono temperature rigide, durano a lungo, hanno colori e venature attraenti – glauchi viola crema – foglie ricce o bullate, tonde o frastagliate. Benché somiglino a fiori, sono infatti le foglie a formare la rosetta decorativa. Quelli, giallini e raccolti in racemi, sorgono poi dal centro del cuore delle foglie ormai esausto: allora potreste lasciarli andare a frutto per raccogliere dalle sottili silique i semi, da interrare a primavera, e con le nuove piantine rinnovare le aiuole o i vasi dell’anno successivo. Rispetto ai cavoli coltivati a scopi alimentari i decorativi sono varietà acefale perché non formano la “testa” tipica dei cavoli cappucci o delle verza ma, come per quelli, troverete molte varietà di forme e colori diversi. Chi non ama l’eccesso di rigore geometrico di aiuole monotematiche, si affidi a mix varietali con individui dalle foglie profondamente incise o dal ciuffo slanciato come quello del cavolo nero, oppure scelga abbinamenti con più scompigliate eriche e callune.

Comunque, gastronomici o non, i cavoli come tutte le verdure hanno pregi estetici che vanno promossi. Come non condividere l’entusiasmo di Claude Lantier, il pittore incontrato per caso da Florent, il protagonista del Ventre di Parigi (1873), terzo libro del ciclo dei Rougon-Maquart di Émile Zola. Siamo all’inizio della vicenda, l’alba si alza sui mercati generali delle Halles, il ventre di Parigi appunto, co-protagonista d’eccezione:

Claude, in un impeto d’entusiasmo, era salito sulla panchina, costringendo il compagno ad ammirare il sole che sorgeva sulle verdure. Era un mare. Un mare che si stendeva dalla pointe Saint-Eustache a rue des Halles, tra due gruppi di padiglioni. E alle estremità, oltre i due incroci, il flusso aumentava ancora, gli ortaggi sommergevano il selciato. Il sole si levava lentamente, con una luce grigia dolcissima, stemperando ogni cosa in una tinta chiara d’acquarello. Quei cumuli spumeggianti come cavalloni, un fiume verdeggiante che pareva scorrere nel fondo della strada, simile al disgelo delle piogge d’autunno, assumevano sfumature lievi e perlate, morbidi violetti, rosa tinteggiati di latte, verdi affogati nel giallo, quei pallori che trasformano il cielo, al levare del sole, in seta cangiante; e man mano che l’incendio del mattino infuriava con vampate di fuoco, in fondo a rue Rambuteau, la verdura si ravvivava sempre più, affiorando dal lividume che lambiva ancora la terra. Le insalate, le lattughe, le scarole, le cicorie, schiuse e grasse di terriccio, esibivano il loro cuore sgargiante; i fasci di spinaci, di acetosella, di carciofi, i gran mucchi di fagioli e piselli, le pile di lattughe romane legate con un filo di paglia, intonavano tutta una gamma di verdi, dallo smalto dei baccelli, al verdone delle foglie; una gamma vivace che poi andava smorzandosi fino alle screziature dei gambi di sedano e dei mazzi di porri. Ma le note più acute, quelle che si innalzavano più in alto, erano pur sempre le macchie intense delle carote o quelle diafane delle rape, disseminate in quantità strabiliante lungo il mercato, colorandolo con quel miscuglio. All’incrocio di rue des Halles, i cavoli formavano delle montagne; gli enormi cavoli bianchi, chiusi e duri come palle di metallo; le verza, le cui grandi foglie somigliavano a coppe di bronzo; i cavoli rossi, che l’alba cangiava in splendidi fiori d’un viola profondo con venature di carminio e vermiglio. All’altra estremità, all’incrocio con la pointe Saint-Eustache, l’inizio di rue Rambuteau era sbarrato da una barricata di zucche arancioni che serrate in due ranghi sporgevano le pance. E la patina bruno-dorata d’un paniere di cipolle, il rosso sanguigno di un mucchio di pomodori, il giallo sbiadito d’un sacco di cetrioli, il viola scuro di un grappolo di melanzane, s’accendevano qua e là; mentre grossi rafani neri, sistemati come losanghe luttuose, sprigionavano ancora qualche squarcio di tenebra in mezzo all’allegria vibrante del risveglio. Claude batteva le mani di fronte a quello spettacolo. Quelle «dannate verdure» gli sembravano stravaganti, folli, sublimi. E sosteneva che non fossero affatto morte, ma che, strappate alla terra il giorno prima, aspettassero il sole dell’indomani per dirgli addio sul selciato delle Halles. Le vedeva vivere, come se avessero ancora le radici ben salde e riscaldate dal concime. Diceva di udirci il rantolo di tutti gli orti della campagna circostante.

D’altronde, chi non si ferma ammirato davanti ai banchi degli ortolani? Qui la bellezza, la varietà di colori, forme e profumi non patisce confronto con le vetrine dei fiorai. Tant’è che frutta e verdura figurano con i fiori di serra nei bouquet natalizi: piccoli ananas e kumquat con orchidee; protee con carciofi e zucche mignon, non senza qualche sbuffo di erbe aromatiche. 

Complice il trend ambientalista, da tempo anche il mercato florovivaistico ha scoperto quest’ambito d’espansione; le più rinomate fiere  del settore e i garden centers propongono nuove sementi e piantine dal doppio impiego, ornamentale e gastronomico. Nulla di nuovo: si torna a un’idea di orto-giardino com’era d’uso ai tempi dei nostri nonni e bisnonni, quando vigeva un’economia integrata. Ma il fenomeno ora prevede applicazioni à la page: gli architetti del verde progettano parterres di siepi di bosso bordeggianti commestibili consociazioni di fiori e verdure, con rotazione stagionale di varietà e colori per una gioia multisensoriale. Il modello è il Castello di Villandry, nella valle della Loira, dove il potager non è meno d’effetto degli altri settori dei vasti giardini, e tra gli ortaggi coltivati con raffinato gusto estetico spiccano le geometriche file di glauche brassicacee. 

E non avete negli occhi la meraviglia primaverile dei campi giallo limone coltivati a colza? La si usa come foraggio, come combustibile e come olio alimentare. Ebbene, sempre di cavolo si tratta (Brassica napus). Così, giusto per tornare alla tavola del capodanno, anche la senape con cui accompagniamo crauti e lessi è una brassica (Brassica nigra o alba).

Insomma, i cavoli sono preziosi cotti e crudi – lo sapeva bene Catone il Censore che ne tesseva l’elogio – e riempiono i vuoti: degli stomaci e dei giardini d’inverno.

Articolo di Angela Borghesi per Doppiozero http://www.doppiozero.com

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