LA SCHIAVITU’ DEL TERZO MILLENNIO

LA SCHIAVITU’ DEL TERZO MILLENNIO

Il capolarato è una piaga che per stereotipo avvolge solo il sud Italia, in realtà va dal nord al sud della nostra penisola. Uomini e donne, italiane e non, che vengono sfruttate per due euro all’ora sotto i campi cocenti del sole estivo o sotto l’umidità e il freddo invernale. Un sistema difficile da scardinare che Yvan Sagnet, ingegnere camerunense 35enne ora attivista, prova a combattere al fianco di aziende virtuose che hanno sposato e sposano il suo progetto Nocap.

Yvan Sagnet

“Nel 2011 a Nardò, ho iniziato uno sciopero per i diritti dei lavoratori stranieri per denunciare lo sfruttamento nei campi che ha portato al primo processo su scala europea. Il caporalato, fino ad allora poco conosciuto dall’opinione pubblica, ma ampiamente praticato,
è oggi diventato in Italia reato grazie alla legge 199/2016 che modifica l’art 603 bis del Codice Penale.

Ci sono voluti anni di protesta e di attività costante per mostrare che il fenomeno non è circoscritto ad un solo paese ma è europeo e coinvolge braccianti – italiani, rumeni, bulgari, polacchi – ed extra UE.

Abbiamo pensato di intervistare Yvan Sagnet, per capire bene cosa lo ha spinto a muoversi in tale direzione e come ci si sente a portare avanti una battaglia che gli è valsa l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al merito della nostra Repubblica il 10 Novembre 2016.” Tratto dal sito http://associazionenocap.it

Un progetto volto ad eliminare questo fenomeno, ad offrire vitto e alloggio a tutti quei braccianti e quelle braccianti sfruttate e soprattutto a dare piena dignità a chi, non solo ha sofferto fisicamente, ma ha l’anima a pezzi per aver offerto il proprio lavoro a prezzi irriconoscenti e per la maggior parte delle volte sotto violenze fisiche e psichiche.

Come è nato tutto?

NoCap nasce nel 2017 dalle battaglie contro il fenomeno criminogeno del caporalato da parte mia e di altri attivisti. La prima fase è stata caratterizzata dalla sensibilizzazione e denuncia del fenomeno, di cui purtroppo ancora se ne sapeva troppo poco. Dal 2019 abbiamo deciso di passare dalla protesta alla proposta ed avviare un nuovo modo di condurre questa battaglia di diritto e giustizia sociale, inaugurando la prima filiera etica certificata d’Italia. Abbiamo riunito gli attori della filiera agroalimentare, da sempre in conflitto, e li abbiamo guidati nello stabilire “il giusto prezzo” che permetta il rispetto dei contratti e diritti dei lavoratori, nonché la sostenibilità economica, ambientale e sociale.

Perché proprio tu?

A Nardò nel 2011 ho scoperto sulla mia pelle la violenta pratica dello sfruttamento, della ghettizzazione e del caporalato. Sono le terribili ed inevitabili conseguenze di un sistema economico di diseguaglianza ed ingiustizia. Ho guidato i braccianti alla rivolta e da essa è nato il primo processo per riduzione in schiavitù d’Europa. Da quel momento la mia vita non poteva più essere la stessa, dovevo proseguire la lotta per i diritti dei lavoratori. Sono stato sindacalista per anni, ho scritto libri per denunciare l’abominio dei ghetti e infine ho creato NoCap come avanguardia del contrasto al caporalato, come modello alternativo e parallelo a quello capitalista e verticistico che ruota tutto attorno allo strapotere della GDO (grande distribuzione organizzata, ndr).

Qual è la situazione attuale?

La situazione oggi è sempre più drammatica. L’ultimo rapporto dell’Osservatorio Placido Rizzotto ci dice che 450.000 lavoratori sono a rischio caporalato e sfruttamento nel nostro Paese. Il 60% dei produttori agricoli sfrutta la propria manodopera. Il salario pagato arriva a livelli miserevoli di 2 euro all’ora mentre è ancora molto diffuso il pagamento a cottimo, che ricordiamo essere illegale. Ma come ormai noto è una situazione di schiacciamento che parte dall’alto, e nello specifico sono ben 14 le pratiche commerciali sleali a cui la GDO sottopone le imprese agricole che la forniscono. Tra queste l’asta a doppio ribasso che si spera presto possa essere dichiarata illegale dal Parlamento.

Come ha risposto il tessuto sociale soprattutto al riguardo di schierarsi contro un fenomeno molto diffuso in agricoltura?

Gli studi dimostrano univocamente che il consumatore di oggi è molto più consapevole e critico nei suoi acquisti. La trasparenza è una pretesa nonché un diritto non più derogabile. L’etica ambientale è diventata tematica politica che condiziona sempre più le scelte ed i comportamenti di tutti. Noi puntiamo che anche la sostenibilità sociale e l’etica del lavoro raggiunga lo stesso grado di sensibilizzazione.

I prodotti devono indicare tutto il percorso della filiera e le certificazioni devono essere garanzia di rispetto di norme e diritti. Oltre ai cittadini fruitori, una grande risposta la stiamo riscontrando nell’interesse dei media e delle associazioni che si occupano di tematiche affini. Il modello NoCap è percepito come un qualcosa di rivoluzionario che può concretamente cambiare la vita delle persone e trasformare le dinamiche di sistema. NoCap intorno al tema lavoro vuole costruire le condizioni di una vita dignitosa, ed in questo la collaborazione con altre realtà sociali per poter garantire alloggi, trasporto, assistenza legale e servizi alla persona.

La rete che hai creato si sta espandendo?

Ad oggi contiamo una ventina di aziende e cosa ancor più importante abbiamo fatto stipulare contratti regolari ad oltre 400 persone. Tutti sottratti alle grinfie dei caporali, e tutti entusiasti del periodo di lavoro svolto con NoCap. La rete si sta espandendo sia dal punto di vista dei lavoratori coinvolti che delle aziende e della distribuzione. La bella notizia è che ora sono le aziende a contattarci per chiederci come poter ottenere il marchio NoCap ed avviare progetti con noi. Questa rappresenta una vera svolta, ed il prossimo periodo, lockdown permettendo, si prospetta interessante.

Il progetto oltre al sociale prevede buone prassi economiche, ce ne parli?

NoCap fondamentalmente è un’alleanza. Laddove c’è imposizione e strapotere noi sostituiamo accordi solidali e sostenibili; laddove c’è sfruttamento ed intermediazione illegale noi implementiamo diritti e servizi regolari. Le buone prassi economiche si tramutano in sostenibilità e sviluppo commerciale per l’azienda, nonché in un suo riposizionamento a livello di immagine aziendale da cui trarne i giusti benefici in quanto modello dai sani valori. Se fossero operazioni in perdita avrebbe vita breve l’intero progetto. L’obiettivo è crescere insieme alle nostre aziende.

Riguardo invece le associazioni e gli enti?

Come detto in precedenza la sinergia con altre associazioni e realtà sociali sensibili si rende fondamentale per esplicare tutte le attività di cui NoCap vuole rendersi protagonista. La tematica è complessa e coinvolge tanti aspetti della vita; il lavoro è l’elemento centrale su cui innescare tutto il resto.

Rispetto agli enti della P.A., da tempo partecipiamo ai tavoli ministeriali sulle tematiche di nostra competenza e da quest’anno stiamo anche partecipando a bandi per realizzare specifici progetti a noi funzionali, quali ad esempio il trasporto nella Provincia di Foggia di lavoratori stagionali in agricoltura.

Con l’espansione della nostra struttura si renderà necessario una collaborazione sempre maggiore con il settore pubblico. Insomma un progetto verticale che parte dalla gdo, coinvolge le aziende partner e crea possibilità lavorative e il pieno rispetto dei diritti di tutte quelle lavoratrici e quei lavoratori sfruttati per anni.

Giuseppe Maffia  rubrica Attualità Società e Diritti  dal sito mangiatoridicervello.com

I TRE COVID DI PAPA FRANCESCO

I TRE COVID DI PAPA FRANCESCO

Papa Francesco racconta i suoi momenti di difficoltà: nella mia vita ho avuto tre situazioni “Covid”: la malattia, la Germania e Córdoba.

Quando a ventun anni ho contratto una grave malattia, ho avuto la mia prima esperienza del limite, del dolore e della solitudine. Mi ha cambiato le coordinate. Per mesi non ho saputo chi ero, se sarei morto o vissuto. Nemmeno i medici sapevano se ce l’avrei fatta. Ricordo che un giorno chiesi a mia madre, abbracciandola, di dirmi se stavo per morire. Frequentavo il secondo anno del seminario diocesano a Buenos Aires.

La malattia, l’acqua nei polmoni

Ricordo la data: era il 13 agosto 1957. A portarmi in ospedale fu un prefetto, accortosi che non avevo il tipo di influenza che si cura con l’aspirina. Per prima cosa mi estrassero un litro e mezzo di acqua da un polmone, poi restai a lottare tra la vita e la morte. A novembre mi operarono per togliermi il lobo superiore destro del polmone. So per esperienza come si sentono i malati di coronavirus che combattono per respirare attaccati a un ventilatore.

Di quei giorni ricordo in particolare due infermiere. Una era la caposala, una suora domenicana che prima di essere inviata a Buenos Aires era stata docente ad Atene. Ho saputo in seguito come, dopo che il medico se ne andò una volta concluso il primo esame, sia stata lei a dire alle infermiere di raddoppiare la dose del trattamento che lui aveva prescritto – a base di penicillina e di streptomicina – perché la sua esperienza le diceva che stavo morendo. Suor Cornelia Caraglio mi salvò la vita. Grazie al suo contatto abituale con i malati, conosceva meglio del medico ciò di cui avevano bisogno i pazienti, ed ebbe il coraggio di usare quell’esperienza.

Un’altra infermiera, Micaela, fece la stessa cosa quando ero straziato dal dolore. Mi dava in segreto dosi extra di calmanti, fuori dell’orario previsto. Cornelia e Micaela ormai sono in cielo, ma sarò sempre in debito con loro. Si sono battute per me fino alla fine, finché non mi sono ripreso. Mi hanno insegnato che cosa significa usare la scienza e sapere andare anche oltre, per rispondere alle necessità specifiche.

Da quella esperienza ho imparato un’altra cosa: quanto sia importante evitare la consolazione a buon mercato. Le persone mi venivano a trovare e mi dicevano che sarei stato bene, che non avrei mai più provato tutto quel dolore: sciocchezze, parole vuote dette con buone intenzioni, ma che non mi sono mai arrivate al cuore. La persona che più mi ha toccato nell’intimo, con il suo silenzio, è stata una delle donne che mi hanno segnato la vita: suor María Dolores Tortolo, mia insegnante da piccolo, che mi aveva preparato per la Prima Comunione. Venne a vedermi, mi prese per mano, mi diede un bacio e se ne stette zitta per un bel po’. Poi mi disse: «Stai imitando Gesù». Non c’era bisogno che aggiungesse altro. Dopo quell’esperienza presi la decisione di parlare il meno possibile quando visito malati. Mi limito a prendergli la mano.

All’estero: la solitudine che ti fa estraneo

Potrei dire che il periodo tedesco, nel 1986, è stato il “Covid dell’esilio”. Fu un esilio volontario, perché ci andai per studiare la lingua e a cercare il materiale per concludere la mia tesi, ma mi sentivo come un pesce fuor d’acqua. Scappavo a fare qualche passeggiatina verso il cimitero di Francoforte e da lì si vedevano decollare e atterrare gli aeroplani; avevo nostalgia della mia patria, di tornare. Ricordo il giorno in cui l’Argentina vinse i Mondiali. Non avevo voluto vedere la partita e seppi che avevamo vinto solo l’indomani, leggendolo sul giornale. Nella mia classe di tedesco nessuno ne fece parola, ma quando una ragazza giapponese scrisse «Viva l’Argentina» sulla lavagna, gli altri si misero a ridere. Entrò la professoressa, disse di cancellarla e chiuse l’argomento.

Era la solitudine di una vittoria da solo, perché non c’era nessuno a condividerla; la solitudine di non appartenere, che ti fa estraneo.

Senza uscire: una specie di quarantena

A volte lo sradicamento può essere una guarigione o una trasformazione radicale. Così è stato il mio terzo “Covid”, quando mi mandarono a Córdoba dal 1990 al 1992. La radice di questo periodo risaliva al mio modo di comandare, prima da provinciale e poi da rettore. Qualcosa di buono senz’altro lo avevo fatto, ma a volte ero stato molto duro. A Córdoba mi hanno reso il favore e avevano ragione.

In quella residenza gesuita trascorsi un anno, dieci mesi e tredici giorni. Celebravo la Messa, confessavo e offrivo direzione spirituale, ma non uscivo mai, se non quando dovevo andare all’ufficio postale. Fu una specie di quarantena, di isolamento, come nei mesi scorsi è successo a tanti di noi, e mi fece bene. Mi portò a maturare idee: scrissi e pregai molto.

Fino a quel momento nella Compagnia avevo avuto una vita ordinata, impostata sulla mia esperienza dapprima da maestro dei novizi e poi di governo dal 1973, quando ero stato nominato provinciale, al 1986, quando conclusi il mio mandato di rettore. Mi ero accomodato in quel modo di vivere. Uno sradicamento di quel tipo, con cui ti spediscono in un angolo sperduto e ti mettono a fare il supplente, sconvolge tutto. Le tue abitudini, i riflessi comportamentali, le linee di riferimento anchilosate nel tempo, tutto questo è andato all’aria e devi imparare a vivere da capo, a rimettere insieme l’esistenza. Il “Covid” di Córdoba è stato una vera purificazione. Mi ha dato più tolleranza, comprensione, capacità di perdonare. Mi ha lasciato anche un’empatia nuova con i deboli e gli indifesi. Questi sono stati i miei principali “Covid” personali. Ne ho imparato che soffri molto, ma se lasci che ti cambi ne esci migliore. Se invece alzi le barricate, ne esci peggiore.

A cura della Redazione di Avvenire.it

QUEL TRAVESTITO DI BAGLIONI

QUEL TRAVESTITO DI BAGLIONI

“Cantai travestito da barbone, però nessuno si fermò” Claudio Baglioni Il cantautore ha pubblicato un nuovo album: “In questa storia… che è la mia”

“Sono Claudio, ho appena scritto un album e ho smesso di fumare. Da 27 anni ”. Da seduto offre un certo richiamo. “( Ride) Sì, sembra una riunione dei cantantisti anonimi”. E come nei cerchi della fiducia dove ognuno derubrica a se stesso per cercare una storia collettiva, così Baglioni ha un piglio di chi ha “sparato all’alba degli inganni” (parole sue), e a 69 anni, forte di In questa storia… che è la mia, un nuovo album intenso, cesellato, suonato come ai tempi in cui la musica non si improvvisava, può permettersi di scherzare, prendersi in giro, ammettere che è stato faticoso completare il lavoro (“con il lockdown mi sono impallato”). E magari ricordare un karaoke.

Chi scrive l’ha vista assistere mentre altri intonavano “Strada facendo”…

( Ride) Sono sempre molto perplesso nei confronti del karaoke: da un lato mi entusiasma, dall’altro ho il ricordo di due disavventure.

La prima.

Mentre stavo finendo, con Duccio Forzano, la post produzione di un dvd, finimmo in una specie di bar con musica e microfoni a disposizione. Dopo un paio di bicchieri di vino, ho cantato un mio pezzo: non si è girato nessuno. ( ci pensa) È stato un atto temerario.

La seconda.

Vivevo all’argentario, passano Elio e le Storie Tese: avevano un concerto in un teatro di Grosseto. Elio durante lo spettacolo si travestiva da Fiorello e organizzava il karaoke. Mi chiede di salire sul palco, accetto, coperto da cappotto e occhiali e intono proprio Strada facendo. ( Silenzio) Ho perso all’applausometro contro due ragazzette che hanno cantato i Pooh… Anche a Napoli si travestì da hippy-barbone e nessuno la riconobbe… Guadagnai 12.500 lire; ero nel giro dei concerti del ’98 e, prima di arrivare agli stadi, pensammo di creare l’effetto sorpresa. Uscii dall’albergo, e a quel tempo era normale trovare i fan ad aspettarti, ma ero truccato, con i capelli biondi, le lenti a contatto blu, una camicia militare, un andamento Claudi-cante . Mi incamminai nella galleria, presi la chitarra e cominciai a cantare in un canadese maccheronico. Non mi riconobbe nessuno. Giusto una foto con una coppia di sposi e un’altra con gruppo di signore americane dai capelli turchini. Sarò appeso in qualche salotto dell’America centrale…

Nella prefazione al libro su Endrigo, scrive: ‘ Oggi la musica non è più centrale. Ci sono i social’.

Il primo social è stato parlare e trovarsi insieme per l’ascolto di un disco. Con la mia compagnia aspettavamo i nuovi album, spesso li acquistavamo ai mezzi e c’era il rito della scoperta collettiva, una cerimonia solenne, celebrata a occhi chiusi, con uno addetto ad adagiare il disco sul piatto, l’altro, con la mano più ferma, piazzava la puntina sul primo solco. Era un modo per socializzare molto differente. Quelli di oggi hanno creato una cultura diversa in termini di ascolto.

Nel titolo di quest’ultimo lavoro, come nei sottotitoli di molti precedenti, cita ‘storia’.

Non è una mania, ma una naturale confluenza. Il mio secondo album, dopo il primo che con molta fantasia venne titolato Claudio Baglioni, si chiamava Un cantastorie dei giorni nostri. Sono le storie quelle che interpretiamo. Il mio mestiere non è molto diverso rispetto a chi, nelle piazze, cantava le gesta o le piccole vicende quotidiane.

Prima ha accennato a una crisi nella scrittura.

Anche oggi che il disco è uscito mi sembra strano: l’ho pensato talmente tante volte da temere di non terminarlo; il Covid, invece di darmi la voglia di riuscire e andare avanti, mi ha fermato.

Soluzione?

Un po’ é l’amor proprio, un po’ il rispetto per le persone con cui si è stipulato un patto. ( Ci pensa) Ho una lunga carriera e una certa età, quindi non c’è tutto questo tempo per aspettare. ( Cambia tono) Mi ha aiutato l’idea che sono le ultime cose che possono capitare in questo straordinario viaggio personale e artistico.

Baglioni con Lucio Dalla

Sta pensando al pensionamento?

No, sarebbe un controsenso. Quest’anno un po’ di paralisi è arrivata per non aver potuto fare niente dal vivo. È linfa vitale. Sul palco s’impara tantissimo: durante le tournée si recupera il repertorio e si provano nuovi musicisti. Molti arrangiamenti successivi sono influenzati dai concerti precedenti.

Sostiene Finardi: ‘Baglioni è fondamentale quando finisce un rapporto’.

Fondamentale come notaio? ( ride). È una frase che mi sorprende e che si deve al genio di Eugenio , però altri sostengono che sono stato fondamentale alle unioni e non solo nel momento dell ’addio; ( ci pensa) qualche volta, incontro persone che mi indicano i figli con la frase ‘questa è nata quando tu hai fatto…’, oppure ‘ lui me lo sono sposato mentre…’. In quei casi, a volte mi giro dall’altra parte per la timidezza.

Secondo Guccini lei si imbarazza anche nell’ammettere che sa raccontare barzellette.

Francesco l’ho incontrato tre volte in tutta la mia vita: lui si riferisce a un episodio del 1971: partecipavamo alla trasmissione tv Speciale tre milioni. A Sant’agata di Puglia dormivamo in una specie di edificio in costruzione, e la notte venne impiegata nel recitare barzellette. Il problema è che lui la mia se la ricorda, io no.

Anna Tatangelo: ‘Baglioni mi ha insegnato che i viaggi più belli si fanno con le canzoni’.

Hanno un potere micidiale, evocativo, e toccano tutti gli essere umani, anche i più distaccati; sono come le pietre dure, non le puoi spaccare, rompere. E come i profumi ti trasportano in un altro momento della tua vita, persino in avanti; non hanno fisicità, sono metafisiche.

Negli anni 70 c’era una netta distinzione tra musica pop e quella impegnata. Oggi la seconda è quasi morta: ha vinto lei?

Non ho mai dichiarato guerra alla canzone impegnata. Il problema degli anni 70, che rimpiango perché erano i miei 20 anni, era che bisognava dare per forza un’etichetta o dichiarare un’appartenza, una militanza. Ma la musica è sempre composta da 12 note, lo era ai tempi degli aedi greci, lo è oggi. Ho sofferto per essere stato considerato, insieme a Battisti, quello disimpegnato.

Quell ’ostracismo non lo manda giù.

Se c’è stato un atto di onestà, è stato quando mi sono trovato a incidere Questo piccolo grande amore e ho scelto, rispetto alla mia produzione precedente, più cupa, che le canzoni parlassero con il linguaggio corrente della vita. Non me la perdonarono. Per molti anni sono stato messo ai margini.

Però?

Non mi lamento perché mi è andata bene…

Secondo Pappalardo i rapporti con Battisti non erano idilliaci.

Forse lui non sopportava me, io l’ho amato alla follia. Mi ha ispirato tantissimo, a partire dalla sua tecnica di composizione: la suddivisione delle parole. È stato uno dei primi esempi di come la parola cantata suona, rimbalza, il significante oltre al significato.

Vi frequentavate?

L’ho incontrato solo due volte; ( ci pensa) a Los Angeles avevo appena finito un giro di concerti negli Usa, e lui stava registrando alcune versioni in inglese. Davanti a lui balbettavo, pur avendo già tre dischi di successo alle spalle.

E Battisti?

Si mise in discussione. Ce l’aveva con il mondo del cantautorato e con la cultura imperante che lo osteggiava, e un po’ mi trattava come se fossi anche io della parrocchia avversaria. Ho molta nostalgia di quello che Lucio avrebbe potuto ancora realizzare.

Altro Lucio. Dalla.

( Sospira ) Nel 1970 asciugò le mie lacrime e quelle di Ron.

Addirittura.

Eravamo agli inizi, e partecipavamo alla Gondola d’argento a Venezia, una sorta di contest dove noi eravamo gli esordienti. Durante le prove, con Notte di Natale riscossi un grande successo, con gli occhialoni e un’immagine da esistenzialista. Il destino volle che la giuria fosse composta da un equipaggio di marinai: arrivai ultimo di sedici. Quando mi comunicarono il risultato, non ebbi il coraggio di chiamare mia madre e mi incamminai per le strade del lido.

Dolore.

All’umiliazione del risultato si associò un acquazzone micidiale, e per un attimo pensai di buttarmi in acqua. Una volta in albergo ci pensò Lucio a risollevare la serata. Dopo due mesi a Bari partecipai a La caravella dei successi, eseguii lo stesso pezzo e arrivai ancora ultimo.

Quale soprannome le aveva assegnato Dalla?

Per lui ero ‘ la suora’, per i modi molto gentili di pormi. Ma Lucio era capace di qualsiasi cosa: un artista grandissimo, quanto bugiardo. Era il suo modo di raccontare la vita. Era capace di inventarsi aneddoti, soprannomi, storie. Si divertiva anche a narrare i suoi disastri.

Esempio.

Ci fu un periodo in cui era in crisi di scrittura, allora prendeva il sax e andava a suonare nei dischi degli altri, da special guest. In questa fase si presentò da Pino Daniele, ma Pino lo cacciò e in malo modo, al grido ‘sei un cane, non hai capito niente del pezzo’. Lucio, da paraculo, spiattellò per primo questa storia

E Pino Daniele?

Ricordo la sua telefonata: ‘Ma questo Dalla, perché non incide un bel disco invece di suonare così?’. Ci vogliamo tutti bene ma ci controlliamo sempre da vicino.

Cosa dicono di lei?

Vengo rappresentato come un perfezionista, un pignolo, ma è vero: non sono mai stato d’accordo con il detto che l’ottimo è il nemico del bene; ( ci pensa) non vedo l’ora di tornare a suonare dal vivo.

A giugno sono in programma dodici suoi concerti alle Terme di Caracalla...

Un artista è nato per avere il privilegio di orecchie e occhi degli altri addosso; ( sorride ) ancora oggi faccio fatica a pensare di essere un personaggio pubblico.

Qual è la sua ossessione?

Ho un timore: riuscire a individuare il momento in cui bisogna chiudere il sipario. Da un certo punto in poi cominciano le prove generali del finale carriera, il botto, quello che rimarrà indelebile. Il timore è di non avere la lucidità per capire quando appendere i guantoni al muro, come un pugile che rischia la figura dell’atleta suonato. Non vorrei finire così.

In quest’album i testi sono complessi, le parole molto musicali.

La ricerca è stata anche sulla forma fisica dei termini. E scrivere canzoni non è semplice, ho visto molti poeti cimentarsi con i brani e non essere così bravi.

Qui c’è un però…

Ho una forma di soggezione nei confronti di lavora con la parola, una scienza esatta difficile da gestire; le parole sono dei giganti, arrivate a noi dopo secoli, hanno combattuto, si sono modificate, traducono la storia più della storia stessa. Quando il paroliere si avvicina a questo ha davanti un moloch.

Gigi Proietti viveva di parole…

( Abbassa la voce) L’ultima volta che l’ho incontrato è stato in tv per Cavalli di battaglia: prima della diretta era emozionato come fosse la prima volta. Gli venne la febbre a 38 e saltarono le prove. Io pensavo: ma uno così immenso, in grado di suonare tutti gli strumenti dell’arte, così dotato, con una curiosità continua, come poteva stare male? Poi ho capito. È quello che ho vissuto in questi giorni: ho sentito la tensione come se fossi al primo disco. L’ultimo tempo che mi riporta al primo e, siccome non puoi cambiare l’anagrafe, è bello poter piegare la sensazione del tempo.

Chi è lei?

Sono Claudio Baglioni, ho scritto 410 canzoni, altrettante ne ho buttate via o giacciono in cassetti che non aprirò mai. Spero di meritarmi questo successo che non so ancora com’è arrivato, e spero che questo album sia una locomotiva in grado di trascinare altri progetti.

Silvia D’onghia e Alessandro Ferrucci per il Fatto Quotidiano

NON C’E’ PIU’ IL TEATRO DI UNA VOLTA

NON C’E’ PIU’ IL TEATRO DI UNA VOLTA

Come ci tiene a precisare con ironica puntigliosità, Alberto Mattioli, critico della Stampa, biografo di Pavarotti, penna funambolica e affilatissima, ha visto 1.791 opere in 118 teatri e non ha nessuna intenzione (virus e clausure permettendo) di fermarsi. Più che altro non può fermarsi: per la semplice ragione che, come recita il titolo del suo ultimo libro, è Pazzo per l’opera. Se pensate che l’opera lirica sia il dono più grande che gli italiani abbiano mai fatto al mondo, nonché la prova inoppugnabile della necessità che il genere umano, nonostante le nefandezze di cui si rende periodicamente responsabile, meriti di sopravvivere (prova da opporre tanto ad alieni devastatori che a divinità giustamente indignate), questo libro fa per voi.

Vi ci ritroverete, anche se non condividete sino in fondo l’estremismo mordace al quale l’autore indulge volentieri: fortunata indulgenza, in questi tempi di giudizi superficiali e corrivi, di immotivate asserzioni, di pugni sul tavolo scambiati per massime di Montaigne. Certo, se siete fra coloro che non riescono a comprendere come sia possibile che un signore panciuto in marsina, benché ferito a morte da un colpo di stiletto, continui a gorgheggiare per svariati minuti il suo amore perduto, o che una dama dalle forme generose agonizzi in preda al “mal sottile”, penserete forse che per amare Puccini o Wagner si debba proprio essere “pazzi”. Ma fate un tentativo.

Teatro Massimo all’aperto

Questo libro denso di passione, ma anche di un’ironia che a volte strappa proprio la risata, potrebbe persino farvi cambiare idea, addirittura convertirvi sulla via di Damasco. E poi, attenzione: anche chi ama sentirsi alla moda dovrebbe smetterla di sottovalutare l’opera. Se ne parla da qualche tempo diffusamente, e non solo fra gli addetti ai lavori. Il lockdown ha scatenato la creatività di registi e interpreti. Fra i diamanti della cultura di questo drammatico 2020 resteranno nella storia due opere meravigliosamente dirette da Daniele Gatti: il Rigoletto estivo al Circo Massimo di Damiano Michieletto e il sensazionale Barbiere di Siviglia di Mario Martone, ambientato in un teatro Costanzi di Roma deserto di pubblico e incartocciato da fili che nel gran finale vengono stracciati, in un’apoteosi di ribaldo, liberatorio ritorno alla vita.

Michieletto costruisce tre livelli diversi di spettacolo, l’azione scenica, le riprese live dei tre cameraman con steady cam proiettate sul maxi schermo, 19 brevi video girati a Cinecittà che svelano momenti della storia che non si svolgono direttamente in scena (l’incontro del Duca e di Gilda che da perfetta adolescente si cambia d’abito per andare in discoteca e si strucca prima di incontrare il padre o Gilda bambina con la madre al mare) e che svelano il pathos e l’intimità del vissuto di ogni personaggio.

Tratto dal sito teatrionline.com

Scena del Rigoletto allestito da Michieletto

Sull’opera gravano pregiudizi che Mattioli si incarica di confutare. Ci spiega, ad esempio, che non è l’opera ad essere antiquata. Il problema sono semmai certi melomani lodatori del tempo andato, quelli che “non c’ è più il teatro di una volta” – quale volta? persino il giovane Zeffirelli era considerato sovversivo – e del “povero Verdi” – che ai suoi tempi fu costantemente bersagliato da censori e moralisti. I conservatori – lui li chiama ” le care salme” – che rimpiangono una, a loro dire tramontata, eleganza, ma: «quando fai timidamente notare che, poniamo, nel Rigoletto Verdi ha messo in scena orge, stupri, prostitute, duchi puttanieri, sicari, ratti di fanciulle e simili, quindi l’eleganza non pare proprio il primo requisito richiesto, ti guardano basiti e anche un po’ arrabbiati». L’opera è intensità, complessità, divertimento, commozione.

Martone, tra lo scegliere di replicare il più possibile (e invano) l’esperienza dal vivo e il creare qualcosa di lontanissimo dallo spettacolo teatrale consono, nuovo, ma che allo stesso tempo colga l’essenza base del teatro dell’opera, sceglie la seconda strada. In questo modo la “finzione” del teatro è ricreata al massimo e negata allo stesso tempo. Il montaggio annulla l’entrata e l’uscita dei cantanti, i cambi scena, e tutto ciò che è proprio della rappresentazione d’opera (persino le stecche), ma le costumiste che cambiano il conte a scena aperta (del resto, quale scena se la scena non c’è?), le sarte che cuciono l’abito di Rosina su di lei, le inquadrature sulla macchina del vento e sugli altri rumori che avvengono solitamente fuori scena, sono quanto di più teatrale esista: il dietro le quinte, fatto di centinaia di persone, vere, senza costume, che lavorano ogni sera, anche loro come i cantanti.

Tratto dal sito: http://teatroecritica.net

Il Barbiere di Siviglia, allestimento Martone

Nonché un’eccellente terapia contro l’anestesia emotiva a cui l’eccesso di emozioni artificiali ci sta condannando. Mattioli assiste a una Passione secondo san Matteo di Bach e si scopre a pensare che quella finzione è più vera del vero: «Il problema non è cosa ci viene raccontato, perché fra quello che fanno al Cristo di Bach o ai poveri cristi che vediamo in tivù non c’è poi molta differenza. La differenza è come ci viene raccontato, la possibilità di fermarsi, pensare, metabolizzare. Paradossalmente, in questo caso la fiction teatrale diventa molto più reale della realtà vera. Arrivano tre ore di musica sublime e si ripete la catarsi. La pietà e la paura della tragedia ci purificano. Improvvisamente torniamo a vedere le cose nella giusta prospettiva per esempio, quanto è scandaloso, intollerabile e in definitiva osceno che un uomo venga ucciso» . Siamo sicuri che sia pazzia, e non saggezza? In ogni caso, lasciatevi guidare verso l’opera. Potreste contagiarvi con un morbo delizioso.

Giancarlo De Cataldo per “Robinson – la Repubblica

LA CADUTA DI FOFO’

LA CADUTA DI FOFO’

NOMEN OMEN- CHE SIA IN BUONAFEDE, ADDIRITTURA IGNARO, ORAMAI NON LO METTE IN DUBBIO NESSUNO. CHE POSSA RIMANERE SULLA GRATICOLA, E’ DURA. MEGLIO SAREBBE STATO PER LUI RIMANERE DEEJAY PIUTTOSTO CHE STARE DIETRO ALLE TOGHE.

Dicono che Conte per un attimo (ma solo un attimo) abbia addirittura pensato alle dimissioni, pur di evitare che il suo amico Alfonso mercoledì arrivi in Senato a parlare di Giustizia provocando la slavina definitiva. In Aula. “Dio ce ne scampi. Non sopravviveremmo”. E nel pronunciare queste parole a Palazzo Chigi mettono su lo sguardo che devono avere i vitelli in procinto d’essere sospinti sul treno diretto al mattatoio. Pure i grillini della commissione Giustizia tremano all’idea di Bonafede che spiega e sottopone al voto dell’Aula il suo programma sulla Giustizia. “Ma non si può rinviare?”, chiedono. Occhi a palla. Sudore freddo. Sguardi cosmici. “Magari lo sostituissero”, era d’altra parte l’auspicio del capogruppo del Pd in commissione Giustizia, Alfredo Bazoli, appena qualche mese fa. A maggio era ancora possibile. Quasi senza conseguenze. Ma Conte non volle. Chissà se ora se n’è pentito. Bonafede e la sua relazione fatale, dunque. “Gliela stiamo scrivendo bene. La stiamo limando”, giurano gli uffici del ministero. Lui dovrà solo leggere. Vero. Ma come dice il saggio: anche se a una mucca dai da bere del cacao non è che mungerai cioccolata.

Alfonso Bonafede

E così sul governo debilitato pesa il fattore “F”. Il fattore Fofò, appunto. Solo lui, il dj elevatosi al rango di ministro Guardasigilli, il ragazzo di Mazara del Vallo passato dalla musica di Gigi D’Agostino alla toga di Piero Calamandrei, mercoledì potrebbe riuscire nel miracolo di far votare allo stesso modo (cioè contro il governo), sia Renzi sia l’Udc, con l’assenza strategica di alcuni riformisti del Pd. In pratica i costruttori di Conte e quelli che Conte invece lo vorrebbero distruggere. Tutti insieme. “Signor colonnello, è successa una cosa incredibile: i tedeschi si sono alleati con gli americani”. Potenza del fattore F. “Ma vi pare che io possa andare in un posto dove c’è Bonafede?”, dice per esempio Luigi Vitali, il senatore che tutti i reclutatori di Conte in queste ore corteggiano in quel ramo del Parlamento in cui il governo si tiene in piedi con tre senatori a vita e due ex Forza Italia. Pure Clemente Mastella ha già detto che “mia moglie Sandra ha più di qualche dubbio su questa relazione”. Più chiaro di così? Un altro voto in meno. Da 156 che erano nel giorno della fiducia a 155. E Liliana Segre tornerà davvero di nuovo giù da Milano, anche stavolta? E Maria Rosaria Rossi, che è stata così vicina a Silvio Berlusconi? Davvero Maria Rosaria Rossi voterebbe per Bonafede? Ecco, sono già 154, forse 153… Il guaio del fattore F. Tutti lo hanno capito, tranne lui. Tranne Fofò medesimo, il ministro e avvocato — si presume dunque laureato in Giurisprudenza — che confonde la colpa con il dolo e crede che 41 bis e 416 bis siano all’incirca la stessa cosa. “Ma esattamente la laurea chi gliel’ha data?”, si chiedeva Andrea Romano, parlamentare del Pd.

Pare che ieri sera, Bruno Tabacci, l’infaticabile cercatore di responsabili, lui che va in giro per corridoi con il lanternino, se lo sia trovato di fronte assieme a Luigi Di Maio. A Palazzo Chigi. Era sorridente e tranquillo, Fofò. Tabacci spiegava con preoccupazione che mercoledì ci si va a schiantare. E quello sorrideva. Sorrideva di quel suo sorriso costante, appena accennato, inspiegabile ma perenne. Come stampato sul volto. Sorride sempre Fofò. Raffaele Cantone gli dice che la legge Spazzacorrotti è “scritta così male che rischia di alimentare la corruzione”, e lui sorride. Gherardo Colombo gli fa sapere che la riforma della prescrizione è “uno strabismo legislativo”, e lui sorride. Carlo Nordio la chiama “una mostruosità”, e lui sorride. Edmondo Bruti Liberati dice che “non ci sarebbe niente di male se il ministro dicesse scusate ho sbagliato”, e lui sorride. Nino Di Matteo lo accusa addirittura d’essersi piegato alle pressioni della mafia, e lui (prima di sbottare) sorride. Dunque ora la maggioranza barcolla, Renzi sente vicina l’ora della vendetta, e lui che fa? Sorride sotto il gilet, davanti a Tabacci. Sorride sotto quell’abito da terno al lotto, quel vestito grigio che indossa da quando è entrato in Parlamento nel 2013, l’abito che Vittorio Sgarbi ha così commentato: “Vedete, non ogni massa grigia ha a che vedere col cervello”. E c’è qualcosa di circolare in questa maledizione del fattore “F”. Riguarda Giuseppe Conte, ovviamente. Fu Bonafede infatti a portarlo a Palazzo Chigi, a presentarlo a Luigi Di Maio e a Matteo Salvini. E potrebbe essere sempre Bonafede ad accompagnare adesso il professore all’uscita. Conte non l’ha mollato quando ancora poteva, per simpatia e gratitudine. Ma come diceva Sciascia, “è spesso un errore cedere all’amicizia”.

Articolo di Salvatore Merlo il Foglio quotidiano

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