ECONOMIA SENTIMENTALE

ECONOMIA SENTIMENTALE

Figlio di imprenditori di Prato del ramo tessile, Edoardo Nesi chiuse nel 2004 la sua carriera in fabbrica per dedicarsi alla scrittura, la sua passione fin da ragazzo, quando leggeva soprattutto libri di fantascienza. Sul braccio ha tatuato il nome del padre, Alvarado, scomparso due anni fa. Iscritto a Giurisprudenza, ha dato solo cinque esami.

Edoardo Nesi è alla scrivania dove ha creato tutti i suoi romanzi. Alle sue spalle, è appesa la testiera di un letto del Seicento spagnolo che lo incornicia fra sontuosi ghirigori di legno. «Mio suocero sosteneva d’averla comprata da un autentico nobiluomo in disgrazia», spiega. «Questa casa era sua. L’acquistò a fine anni 60 per riceverci i clienti. Era ancora giovane, ancora non aveva fatto i soldi, ma già immaginava di vendere bene i suoi tessuti se i clienti l’avessero visto nell’agio. Qui sono venuti tutti gli stilisti più importanti». Nesi si alza, si avvicina alle vetrate: «Da quella parte, c’è la zona industriale di Prato. Lui la indicava e, ingigantendo, diceva: li vedete quei capannoni? È tutta gente che lavora per me». Silenzio. Sospiro. «Erano tempi straordinari». Suo suocero, Sergio Carpini, compare anche in Storia della mia gente col quale Nesi ha vinto lo Strega nel 2011 e che ha scritto dopo aver venduto la sua, di fabbrica, ormai arreso alla concorrenza dei cinesi, e compare nell’ultimo, Economia Sentimentale, edito dalla Nave di Teseo, dove c’è Nesi stesso che passa il lockdown in questa casa, un po’ a struggersi di nostalgia per i tempi che furono, un po’ a telefonare ad amici economisti e finanzieri per capire i tempi che verranno.

Anche suo suocero chiuse travolto dalla globalizzazione?

«Lui, a fine anni 80, quando per la prima volta un cliente gli chiese il prezzo di un tessuto. Ne fu scandalizzato. Per lui, il mondo perdeva uno dei suoi fondamenti: l’idea rinascimentale per cui il signore che commissiona il ritratto all’artista non chiede quanto costa».

Se lei, nel 2004, non avesse chiuso il Lanificio T.O. Nesi & Figli, avrebbe trovato il coraggio di scrivere e basta?

«È una domanda enorme. So che lavorare in azienda mi piaceva».

Da piccolo, voleva diventare imprenditore o scrittore?

«Ero chiuso, timido, permaloso. Stavo sempre in casa a leggere. Divoravo fantascienza: mi affascinava il progresso. Dai 14 ai 18 anni,ho scritto racconti in cui c’era sempre un personaggio tipo me, un po’ triste, solitario, a cui succedevano cose clamorose e importanti. Crescendo, l’idea di entrare in fabbrica, come volevano i miei, non mi attirava, ma loro sapevano che avrebbero vinto: io una vera vocazione non l’avevo. A Giurisprudenza, dove ho dato solo cinque esami, mi sono iscritto incantato da una scena del Verdetto. C’è Paul Newman che sull’arringa finale si blocca, con un foglio fra le mani. Quando finalmente si riprende, dice: nella vita perlopiù ci sentiamo smarriti».

E perché lei sentì suo quello smarrimento?

«Lui sa di aver ragione però sta perdendo, ma io quando lo vidi in quell’aula, in quella penombra tagliata da una lama di luce… Be’, mi rovinò Newman. Era così che mi sono sentito finché non mi sono sposato: sempre male, sempre nell’incomprensione delle cose».

E invece, sposandosi, cos’è cambiato?

«Prima di sposarsi, il ragazzino triste e solitario si era messo a divertirsi… Ero pieno di energie e curiosità e le seguivo tutte, ma non mi divertivo mai davvero, un po’ soffrivo sempre. Mia moglie mi ha fatto capire che il divertimento non mi portava da nessuna parte. Mi ha riportato sulla Terra. E cominciai a scrivere seriamente solo dopo aver sposato Carlotta».

«La mia eterna fidanzata bellissima». La definisce così, in un libro.

«È molto bella, molto intelligente. Le devo tutto. Ci siamo fidanzati che avevo 19 anni, sposati che ne avevo 29. Mi ha visto in tutte le fasi: studente fallito, imprenditore fallito… Ed è sempre stata lì. Mi è sempre stata di aiuto in tutto. Legge i miei libri man mano che scrivo. È una tale lettrice fantastica che il mio editore americano chiede a lei cosa pubblicare».

È vero, per sua moglie lei scrive troppo di miserie e di tragedie?

«Pensa che dovrei scrivere qualcosa di più positivo, ma io non sono tanto positivo. E quando finalmente ho avuto un po’ di successo è stato con libri che raccontano di fallimenti. Miei, soprattutto».

Il ragazzo che fa le summer school in America, il capitano d’azienda in giacca di Versace a New York o a Monaco… Quanto è davvero lei l’Edoardo Nesi di certi suoi libri?

«Sono proprio io, sempre io. Sono quello della giacca che fu il primo regalo da imprenditore che mi fecero i miei. Ci ho provato, ma i romanzi, se io non ci sono, vengono peggio. Storia della mia gente è nato così, parlava solo di economia, ma quando mi ci sono ficcato dentro, ha preso senso».

Prima ha detto che non voleva entrare in fabbrica ma che poi lavorarci le è piaciuto.

«All’inizio, non ci volevo mica stare, non mi piaceva mica, venivo da un’idea sbagliata di lavoro. Avevo avuto un attacco giovanile di comunismo, mi sembrava che vi si sfruttassero gli operai. Solo dopo capii che quello che credevo di sapere era falso. La filiera di produzione di Prato era fatta di piccole aziende e artigiani e tutti guadagnavano e potevano fare la luna di miele in Polinesia, c’era l’idea che il lavoro si poteva condividere e il benessere toccasse un po’ a tutti, se eravamo bravi, se ci impegnavamo. Era un mondo risolto, aveva le sue regole e, se ubbidivi, avresti avuto benessere».

In «Economia Sentimentale», racconta di Muhammad Ali e del giorno in cui stava per finire al tappeto e dice che lei, invece, un giorno, al tappeto ci è andato e ci è rimasto per mesi e mesi. Qual è quel giorno?

«Quello in cui è morto mio padre, due anni fa. Il libro nasce dal tentativo di riprendere una vita normale dopo la botta più forte della mia vita. Lui è stato, insieme a mia moglie, il mio punto di riferimento, il mio idolo. Fino ai miei 18 anni, abbiamo parlato poco: era un padre della sua generazione, stava sempre in fabbrica, l’ho conosciuto solo lavorando con lui. Mi faceva da guida, mi insegnava un mondo complicato. Insomma, volevo scrivere di lui, ma le parole non mi venivano, poi ho capito che il babbo, per me, è sempre stato la decodificazione del mondo attraverso l’economia e ho capito che il libro poteva nascere solo mettendo insieme le due cose».

Davvero ha tatuato Alvarado, il nome di suo papà, sul braccio?

«È stato il primo dei miei 15 tatuaggi. Lui ne fu onorato. Poi, ho tatuato i nomi di mia moglie, dei miei figli, frasi di Francis Scott Fitzgerald, “rage, rage against the dying of the light” di Dylan Thomas: infuriati, infuriati contro la morte. Sul cuore, ho la scritta “per sempre”».

È il titolo di un suo libro. Perché, una volta, ha detto che non doveva pubblicarlo?

«Perché appartiene a un mio momento strano e personale: avevo iniziato ad andare nelle chiese, che ci fossero o no le messe. Mio padre, da liberale ateo, si stava convertendo e ho voluto vedere che c’era dentro questa cosa. Non sono riuscito a capirlo».

Anni fa, ha detto al che, dopo aver chiuso la fabbrica, la depressione non ha smesso di accompagnarla. È ancora così?

«Ora, nel nuovo libro, ho scritto che le cose non vanno via mai, nemmeno quando finiscono, e nemmeno le persone, neanche quando muoiono. Alcuni ricordi sono indelebili. Io, per fortuna, non conosco la depressione maggiore, ma ho passato giorni difficili. Di quelli che ti svegli e vedi il vuoto davanti; poi, la mattina dopo, ti svegli e vedi un altro vuoto. Poi, arriva un giorno luminoso e il sole, quando c’è, mi cambia le giornate in maniera comica».

Si sente in colpa per non essere riuscito a tenere in vita l’azienda?

«Un po’ sì. I miei figli, Ettore e Angelica, 23 e 25 anni, sono bravi, sono andati a Londra, ne ho un orgoglio pazzesco, ma quando li ho visti partire è stata durissima, pensavo che io non avevo una fabbrica in cui farli entrare. Quello che oggi mi manca, e che cerco di raccontare in tutti i modi, è la promessa che il futuro ti porti del bene. Questa promessa devi averla, se no come fai a impegnarti?».

La nostalgia del progresso sembra un ossimoro. Invece?

«È il fulcro di quello che scrivo. Ai miei tempi, c’erano cose straordinarie. C’era il Concorde che andava a New York in tre ore. Mi dirà che altri scrittori si occupano d’altro, ma se non c’è più il progresso, le persone si abbandonano a lavori temporanei dai quali non imparano nulla, tutto s’inaridisce…».

Il critico Camillo Langone ha scritto: «Bisogna tenerselo caro Edoardo Nesi: ma dove lo si trova nelle patrie pauperistiche lettere un altro capace di dire che i soldi danno la felicità?». Si riconosce nella definizione?

«I soldi aiutano molto, specie se sono frutto di lavoro e di capacità. Io ero felice quando vendevo un tessuto a uno stilista importante e quel tessuto andava in tutto il mondo».

Primo libro «Fughe da fermo» pubblicato nel ‘95, poi altri sei e il primo successo nel 2011. In mezzo, ha mai pensato di smettere?

«Ho avuto la fortuna di avere un editore, Elisabetta Sgarbi, che mi ha sempre trattato come autore di successo anche quando non lo ero. E a scuola avevo conosciuto Giovanni Veronesi, il regista, e con lui suo fratello Sandro, che era andato a Roma e provava a scrivere. Sandro è magnetico oggi e lo era ancora di più da ragazzo. Leggeva i miei racconti, m’incoraggiava. Anche avere lui è stata una fortuna».

Ha tradotto «Infinite Jest», mille pagine e oltre. Perché ha definito David Foster Wallace «il suicida che mi ha insegnato a vivere»?

«Perché mi ha insegnato a capire come vive un alcolizzato, un infelice, un depresso e mi ha insegnato la tolleranza verso gli uomini e le donne di questo mondo. È come se mi avesse abbracciato con quel libro, come se ci avesse abbracciato tutti».

Come s’immagina da vecchio?

«Mi sto avviando verso questa cosa e questa, sì, sarà divertente».

Articolo di Candida Morvillo per Il Corriere della Sera

DAVANTI AL PRECIPIZIO

DAVANTI AL PRECIPIZIO

Dal 1980 la retribuzione di un amministratore delegato è cresciuta del 940%, quella di un normale lavoratore del 12%. Il 20% della ricchezza totale è in mano allo 0,1% più ricco, la classe media non esiste praticamente più 

SCRITTO PRIMA DI CAPITOL HILL, MA IN PIENA ERA TRUMP, IL LIBRO DEL POLITICO E SCRITTORE USA (SOTTOSEGRETARIO AL LAVORO SOTTO CLINTON) DESCRIVE IL DECLINO DELLA DEMOCRAZIA IN USA, DENUNCIA IL SISTEMA OLIGARCHICO E LANCIA L’ALLARME: SIAMO SULL’ORLO DEL PRECIPIZIO.

La democrazia americana e il suo sistema economico non funzionano e devono cambiare. Lo abbiamo capito tutti guardando l’ assalto al Campidoglio dei sostenitori di Trump guidati dallo sciamano Jake Angeli. Nel saggio Il Sistema (in uscita il 21 gennaio da Fazi), Robert Reich – professore di economia a Berkeley e già ministro del Lavoro dell’ amministrazione Clinton – fotografa molto bene il precipizio sul quale si trova una delle più vecchie democrazie del mondo.

Mentre la descrizione della crisi del sistema è una lettura fondamentale e largamente condivisibile, le ricette di Reich per superare lo stallo della società americana non sono ancora del tutto chiare.

Il fenomeno sociale alla base della crisi americana è la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi amministratori delegati (i cosidetti Ceo, Chief Executive Officers in inglese) delle più grandi banche, società tecnologiche e società industriali. L’ esercito di amministratori è la nuova oligarchia americana, il vero nucleo di potere del sistema. Dal 1980, la retribuzione media di un Ceo è cresciuta del 940 per cento, mentre quella del lavoratore medio americano del 12 per cento. Oggi il 20 per cento della ricchezza totale americana è in mano allo 0,1 per cento più ricco – un gruppetto di miliardari che corrisponde a circa 160 mila famiglie americane.

 Secondo Reich la competizione politica in America non è più tra repubblicani e democratici, ma tra democrazia e oligarchia, dove la prima è rappresentata dal 90 per cento della popolazione mentre la seconda dal gruppo di pochissimi (0,1 per cento) potenti Ceo. Il rimanente 9,9 per cento, fatto da persone con una ricchezza netta superiore al milione di dollari, rappresenta invece i «guardiani del potere», un esercito di professionisti, avvocati e manager che ha studiato nelle migliori università e lavora per tutelare gli interessi degli oligarchi. La classe media americana non esiste praticamente più.

Il sistema ha anche un grosso tasso di ipocrisia. Alcuni Ceo si definiscono patrioti più che amministratori. Le grandi banche e le grandi imprese tecnologiche sostengono di occuparsi – attraverso donazioni e programmi speciali – delle comunità locali, delle città in crisi e dell’ ambiente. In realtà la responsabilità sociale d’ impresa è solo un modo per mascherare il vero obiettivo degli oligarchi: aumentare la loro ricchezza e il valore di mercato delle società che gestiscono. Al tempo stesso, durante le elezioni presidenziali, il gruppo di potere finanzia sia democratici sia repubblicani, in modo da garantire una legislazione non ostile ai propri interessi.

Reick con Bill Clinton

La crescita di questo fenomeno ha almeno tre cause di medio-lungo periodo. Primo, l’ indebolimento della legislazione anti-trust a partire dagli anni Ottanta. Nella dottrina anti-trust è prevalsa l’ idea della scuola di Yale, secondo cui la grande dimensione aziendale produce economie di scala e effetti positivi sui consumatori.

Oltre alle banche, sono potute così emergere non solo le famose Big Tech (Amazon, Apple, Microsoft, Alphabet, Facebook), ma anche le grandi società farmaceutiche e di distribuzione di massa stile Walmart. Il secondo fenomeno è il crollo del potere del sindacato, iniziato con lo storico licenziamento dei controllori di volo in sciopero da parte di Reagan. Infine, la de-regolamentazione di Wall Street, culminata nel 1996 con Clinton al potere, quando si permise alle banche d’ affari di poter entrare anche nel mondo della banca al dettaglio, aprendo le porte alla crisi finanziaria del 2008.

Mentre la disuguaglianza cresceva, le famiglie medie americane hanno cercato di difendersi in tre modi. Primo, le donne e le madri sono entrate in modo massiccio nel mercato del lavoro. Secondo, tutti hanno lavorato più ore a settimana. Terzo, si è ricorso in modo eccessivo al debito individuale e famigliare, alimentando la bolla immobiliare e le speculazioni di inizio secolo. Ciò nonostante, la quota di reddito destinata al lavoro nel reddito nazionale è continuamente diminuita, mentre i costi per l’ istruzione universitaria privata sono diventati insostenibili per la maggioranza dei lavoratori dipendenti. I fenomeni sottolineati da Reich sono tutti veri, anche se l’ analisi è troppo sbrigativa nel liquidare due fenomeni che hanno aumentato le disuguaglianze e l’ indebolimento della classe media: l’ ingresso della Cina nel commercio internazionale e un progresso tecnico digitale che ha sfavorito i lavoratori meno qualificati.

Come si inserisce in questi fenomeni il populismo e l’ elezione di Trump nel 2016? Secondo Reich quell’ elezione fu una rivolta della classe media contro l’ establishment americano dei Clinton e dei Bush che aveva governato senza interruzione dalla fine degli anni Ottanta. Il motore del successo di Trump non furono razzismo e xenofobia, ma una reazione di furia e rabbia contro l’ establishment. Paradossalmente, Trump fu il meglio che poteva capitare alla nuova oligarchia. Il suo stile di governo e la sua tendenza ad alimentare divisioni e tribalismi hanno evitato che l’ America si accorgesse dell’ ulteriore crescita della disuguaglianza.

Reick e Donald Trump

Non a caso, secondo l’ autore, la maggior parte degli oligarchi non si è davvero opposta alle provocazioni e al cinismo di Trump.

Secondo Reich si esce da questa situazione in due modi. Da un lato, attraverso l’ unione politica e la mobilitazione pacifica del 90 per cento del popolo americano escluso dai benefici della crescita. In questo senso, l’ autore sogna la nascita di un terzo partito (diverso dai democratici e dai repubblicani) che riuscirà a rispondere davvero agli interessi dell’ americano medio. Da un altro lato, Reich propone ricette economiche tipiche della sinistra americana di Bernie Sanders: estensione universale della copertura medica, un generico green new deal, miglior formazione per i giovani americani e una tassa sulla ricchezza. Queste proposte sono anche condivisibili, ma per ora solo abbozzate.

Quella delle proposte è forse la parte più debole del saggio.

Ciò che comunque emerge dal saggio – scritto prima dell’ elezione di Biden – è la grande fiducia per la democrazia americana e per la sua capacità di risollevarsi dai grandi traumi della sua storia. L’ amore e il fascino per la società americana mi hanno sempre coinvolto, e ho seguito con grande angoscia la «notte della repubblica» Usa dello scorso 6 gennaio. Come ci hanno insegnato le immagini dei film hollywoodiani della nostra infanzia, «dopotutto, domani è un altro giorno». Speriamo sia davvero così anche per la società americana.

Pietro Garibaldi per la Stampa

TOTO E LA SERENISSIMA

TOTO E LA SERENISSIMA

«Vivo in una casa con tutta la gloria della Serenissima» Bergamo Rossi e il Palazzo Gradenigo: arredi, affreschi e gli stemmi lignei a poppa delle navi

Abitare Venezia non è come abitare altrove nel mondo. Le sue pietre, cariche di mille anni di storia e di gloria, sono vanitose, orgogliose, egocentriche. E se ci vivi dentro ti impongono, inevitabile, di fare un passo indietro. Perché le protagoniste sono loro. Toto Bergamo Rossi lo sa e si è adattato.

Restauratore, cultore di bellezza, direttore dal 2010 di Venetian Heritage, organizzazione internazionale non profit per la tutela del patrimonio artistico della Serenissima e di quei territori che un tempo ne facevano parte, occupa un’ala del primo piano nobile di Palazzo Gradenigo. Imponente dimora del XVII secolo, di Baldassarre Longhena, autore di quell’immensa gioia del barocco lagunare che è la Basilica della Salute sul Canal Grande.

«Quando sono arrivato qui, nel 1999, ho restituito a questa casa memoria e dignità, liberandola nel giro di due anni di tutti quegli interventi che ne avevano mortificato lo spirito. Sotto intonaci scrostati e soffitti abbassati sono emersi gli stucchi originari (nell’ingresso ricordano i rilievi dei cuoi di Cordova, di gran moda nella Venezia del XVII secolo) e chilometri di affreschi. Dopo, non c’è stato più posto per altro».

Nei trecento metri quadrati affacciati sul breve Rio Marin, scavato a mano nel corso dell’XI secolo, Toto ha lasciato la scena al prodigio degli arredi fissi: le porte in noce del XVIII secolo, le pareti a marmorino, i pavimenti in terrazzo alla veneziana, la grande specchiera incassata sopra il camino neoclassico, i rilievi ornamentali con colori a fresco tipici del gusto d’inizio Settecento, i soffitti dalle decorazioni pittoriche di scuola di Giambattista Tiepolo. In questa fuga di stanze dove vive «senza televisione», ha messo in valore quanto ha trovato — compresi i grandi stemmi lignei con le insegne delle famiglie aristocratiche, un tempo posizionati a poppa delle galere, aggiungendo, in fondo, ben poco. Una manciata di arredi stile Luigi XVI, qualche gesso canoviano, incisioni di Giovanni Battista Piranesi, antiche lanterne e poi migliaia di libri, sua magnifica ossessione. Ha poi calato tutto in una luminosità soffusa («la luce ha valore simbolicoemozionale, non solo funzionale»), per riconsegnare agli ambienti il magico chiarore del passato, creato da migliaia di candele.

È qui che Toto Bergamo Rossi ama ricevere gli ospiti di Venetian Heritage, soprattutto gli stranieri, per immergerli nell’atmosfera di una residenza storica e mostrare che «Venezia non è un albergo diffuso, un parco giochi male organizzato e gestito ancora peggio».

Panoramica Uno degli ampi saloni con affreschi d’inizio 800 che caratterizzano il piano nobile di Palazzo Gradenigo, dimora di Toto Bergamo Rossi

Ho ridato a questa dimora barocca memoria e dignità, liberandola dagli interventi che ne avevano mortificato lo spirito

Nel libro d’oro della maison, tra le tante, le firme di Claudio Abbado, Mick Jagger, Bono, Barbra Streisand, Tilda Swinton, Jeff Bezos, Anish Kapoor, James Ivory. Proprio qui, il regista statunitense, 92 anni, autore di Camera con vista e Quel che resta del giorno, ha confessato all’amico l’ultimo sogno: un film dal celebre racconto di Henry James Il carteggio Aspern.

«È rimasto senza parole quando gli ho detto che fu scritto qui accanto, a Palazzo Soranzo Cappello, poco tempo prima che Gabriele d’Annunzio ambientasse parti del suo romanzo Il fuoco proprio nel giardino Gradenigo, fino al 1922 il più vasto della città, dove per il Carnevale del 1768 vennero addirittura organizzate delle cacce ai tori».

Palazzo Gradenigo, ingresso con vera da pozzo

Quello che resta oggi è meno di un quarto della sua estensione originaria. Toto Bergamo Rossi ha restaurato, con appassionata diligenza, anche questo scampolo di verde; vi ha messo a dimora pergole di glicine bianco, viti e rose rampicanti, una Sophora japonica degli anni Venti e quelle piante aromatiche, tipiche del giardino lagunare, che crescevano anche negli orti dei dogi.

Articolo di Beba Marsano, Corriere della sera

CHET

CHET

Memoria di una musica incantevole, ai confini del soave delirio. Chet Baker, il grande trombettista jazz, inizio’ a suonare per gioco e noia, non seguiva mai le partiture e andava ad orecchio. Forse per questo non considerò la carriera di musicista un lavoro. La droga, il carcere in Italia, poi la discesa e la lenta risalita grazie agli amici e ammiratori. Fino a quando il suo corpo fu trovato su un marciapiede di Amsterdam, dopo un volo dal terzo piano di un albergo. Non si è mai capito se si sia trattato di suicidio, di un incidente o di omicidio. Aveva 59 anni.

Chet Baker, Jr. è nato nel 1929 ed è morto ad Amsterdam il 13 maggio 1988.

Giorni fa ho pubblicato su Twitter una foto di Chet Baker. Un ritratto leggermente sfocato nel quale appare di profilo, accucciato su una seggiola pieghevole e intento a fare ciò che ha sempre fatto nella vita: suonare la tromba. Indossa dei pantaloni rosso mattone, una maglietta slavata e sandali grigi, di quelli che il nostro immaginario associa ai turisti tedeschi, e sembra concentrato in un’azione che esclude il mondo circostante. La sedia è piantata in mezzo all’erba, il set è dunque un giardino, ma Baker potrebbe trovarsi in ogni luogo e dunque in nessun luogo come accade solo a chi produce arte. E’ una bella foto ma aggiunge poco alla sterminata collezione di immagini, quasi tutte bellissime, che lo ritraggono. Non ha niente di speciale tranne il fatto che quel luogo, che per lui non esiste, è il giardino di casa mia. Il prato che durante tutte le estati della mia infanzia e adolescenza, ho calpestato. La casa che ancora oggi, nei miei sogni, ritorna come fosse l’unica, la sola che io abbia abitato. Fu progettata negli anni Sessanta dai miei genitori, che scelsero Sabaudia come meta di villeggiatura, preferendo il lago al mare. La villa infatti lambisce le acque salmastre del lago di Paola e possiede l’invidiabile prerogativa di offrire una visuale che non contempla altre costruzioni. Adestra e a sinistra, per chilometri, gli occhi scorgono solo acqua, alberi e canneti. Di fronte, imponente, si staglia l’assurdo profilo del monte Circeo, disteso nel suo sonno millenario. Da ragazzini, con i miei fratelli, avevamo stabilito una sorta di dialogo con la mitica montagna, ci divertivamo a urlare a squarciagola dei saluti, in attesa che l’eco ce li restituisse: “Ciao!” gridavamo con le mani a coppa davanti alla bocca, e in silenzio attendevamo la risposta, puntuale, dopo i fatidici tre secondi: “Ciaooooo”.

Nel giro di pochissimo tempo, la foto di Baker ha scatenato un’infinità di reazioni e commenti come nessuna di quelle pubblicate sul mio profilo: “Mito”, “Invidia pura”, “Emozioni forti”, “La cosa più bella vista oggi su Twitter”. Sono sicura che a Chet Baker avrebbe fatto piacere questo entusiasmo a tanti anni di distanza dalla sua morte. L’avesse saputo in quel periodo, il 1986, l’anno in cui la foto fu scattata, forse ne avrebbe ricavato un po’ di sollievo. La sua vita stava andando alla deriva, l’epilogo era a un passo. O forse non gliene sarebbe importato niente: “Le sole cose che so e che voglio solo suonare e cantare”. Di priorità ne ha una terza, altrettanto imprescindibile: l’eroina. Ineluttabile rifugio dei grandi del jazz.

Insieme a Charlie Parker, Chet Baker cominciò a suonare e a drogarsi. Era poco più che ventenne quando si presentò alle audizioni indette da Parker per scritturare un trombettista degno della sua band (quel giorno si palesarono una quarantina di trombettisti che avrebbero dovuto suonare tre pezzi insieme al grande sassofonista. Quando arrivò il turno di Baker, dopo l’esecuzione di soli due brani, Parker prese il microfono e sentenziò: “Le audizioni sono terminate, grazie a tutti”). Baker e Parker partirono per una lunga tournée nella West Coast e quando quest’ultimo tornò a New York disse agli amici Miles Davis e Dizzy Gillespie. “Ho trovato un ragazzino bianco che vi mangerà vivi.” Si inaugura una stagione memorabile per il ragazzino bianco che aveva cominciato a suonare la tromba per gioco e per noia. Gliel’aveva regalata suo padre, un ripiego dopo un primo tentativo con un trombone, abbandonato perché troppo grande per lui. Ed è chiaro da subito che quello strumento, così difficile da maneggiare, non è altro che un’estensione delle sue braccia, qualcosa che gli apparteneva ancor prima di essere conosciuta. Il talento, l’immane fortuna di ricevere un dono gratuito e imprevedibile, come la bellezza. Tutti i musicisti che nell’arco di un trentennio hanno lavorato con Chet Baker ricordano che non seguiva mai le partiture, conosceva i brani a memoria e suonava “a orecchio”. Forse per questo non ha mai considerato la sua professione un lavoro. Dopo l’esordio con Charlie Parker, Baker si unisce al quartetto di Gerry Mulligan e insieme a lui continua il suo percorso nella musica e nell’eroina. Ascesa e precipizio. Un binomio ormai scontato (sarebbe interessante approfondire seriamente la questione droga/musica, per capire, al di là di tutti i plausibili luoghi comuni, le ragioni profonde che legano l’autodistruzione al polo opposto della creazione artistica. Forse i codici misteriosi del genio non possono essere decifrati diversamente. E siamo onesti, togliamo quel forse).

Gli anni Cinquanta sono i più fortunati anche perché Chet, oltre al talento, ha la “faccia” giusta per la sua epoca. Sembra un adolescente angelico e perverso, combacia con il cliché “Gioventù bruciata” impersonato al cinema da James Dean, e infatti i due si somigliano, anche caratterialmente: taciturni, tenebrosi, attratti dalla velocità. Entrambi hanno la passione delle automobili (alla domanda: “qual è stato il tuo giorno più felice?” Chet risponde: “quando mi sono comprato un’Alfa Romeo SS”). Proprio su quel viso così bello, terribilmente fotogenico, verrà raffigurata la crudeltà dell’eroina. Nel giro di pochi anni la droga gli scava le guance, la pelle come creta crepata dalla siccità, i denti marciti (dell’eroina, ai tempi in cui anch’io ero una ragazza a rischio, mi faceva paura lo scempio inevitabile della bellezza. Temevo più le conseguenze estetiche di quelle neurologiche, e forse è stata la vanità a salvarmi…). Gli arresti si susseguono e così pure le espulsioni da alcuni paesi nei quali si esibisce. Nel 1960 Chet Baker sbarca in Italia, non è la prima volta, ci è già stato in tournée, insieme a diversi musicisti italiani (fra i tanti mi piace ricordare Luca Flores, il pianista morto suicida a cui Kim Rossi Stuart prestò il volto in un film di qualche anno fa, tratto dal libro di Walter Veltroni). E’ un paese che ama, ci torna volentieri. Stavolta lo aspettano a Viareggio per un concerto. Alloggia insieme alla moglie in un albergo a Lucca e decide di raggiungere la Versilia in macchina. Sulla provinciale, si ferma a un distributore, chiede al benzinaio di fare il pieno e va in bagno. Lo ritroveranno un paio d’ore dopo, steso a terra, una siringa accanto. Il concerto salta, e così tutta la tournée. La permanenza in Italia sarà molto più lunga e meno gioiosa del previsto. Gli inquirenti lo accusano di detenzione di sostanze stupefacenti e truffa ai danni dello Stato per falsificazione di ricette mediche (il farmaco incriminato si chiama Palfium, illegale in Italia). La condanna è pesante: sedici mesi di carcere, a Lucca. Durante la prigionia impara l’italiano e, giocoforza, si disintossica. Ottiene il permesso di suonare la tromba per cinque minuti, due volte al giorno. Lo fa sdraiato in branda. Le note scivolano dalle celle ai corridoi, attraversano i cancelli scavalcando le mura della città toscana dove accade spesso che un gruppo di musicisti lì sotto si ritrovi, e improvvisi una jam session in suo onore.

Tornato negli Stati Uniti, nel 1966 è costretto a fermarsi di nuovo. Stavolta non sono le forze dell’ordine a intervenire, ma cinque uomini che lo aspettano al ritorno di un concerto per dargli una lezione. Non si è mai saputo il motivo dell’aggressione ma è facilmente intuibile. Viene picchiato brutalmente, lo lasciano a terra dopo avergli spaccato una bottiglia in faccia. Perde i denti davanti, fatto drammatico per chiunque ma fatale per un trombettista che con le labbra e i denti ci lavora. Sembra davvero la fine. Baker si ritira, va a vivere con la madre. Per pagarsi l’eroina trova impiego in una pompa di benzina. Di lui si perdono le tracce fino al giorno in cui Dizzy Gillespie, sì proprio lui, si ferma con la macchina in quella stazione di servizio (nel copione di un film una scena così risulterebbe improbabile e forzata, ma sappiamo come la realtà superi l’immaginazione), e lo salva. Gli dà i soldi per sistemarsi i denti e lo incoraggia a riprendere in mano la tromba. Baker si esercita a suonare con la protesi dentaria, ma la mancanza di sensibilità compromette il suo stile che riuscirà a ritrovare dopo lunghi sacrifici. Chet is back.

Negli anni Settanta ricomincia a viaggiare, va spesso in Europa, soprattutto in Italia dove può contare su un gruppo di amici musicisti. E’ un decennio rivoluzionario per la musica, e per quanto cool possa essere, il jazz è un genere sempre più defilato. Ma Chet continua a suonare, non sa fare altro. E continua a drogarsi.

Gli piace andare in Olanda perché lì può procurarsi facilmente l’eroina, e in Italia per il calore umano che il nostro paese gli ha sempre dimostrato. Ed ecco che ci avviciniamo a Sabaudia, dove ha avuto inizio questo racconto.

Mauro Zazzarini, sassofonista pontino, organizza da anni un rinomato festival di jazz nel parco comunale di Sabaudia. Mia sorella maggiore, Alessandra, e suo marito Franco, sono grandi appassionati di musica e spesso, nel giardino di quella che ormai è diventata la loro casa, si improvvisano jam session estemporanee. E’ il luogo ideale per suonare, un’oasi lontana dal frastuono dei vacanzieri del lungomare. Il 27 luglio del 1986 è previsto un concerto del Chet Baker Quartet. Insieme al trombettista si esibiranno Leo Mitchell alla batteria, Nicola Stilo al pianoforte e flauto e Lillo Quaratino al contrabbasso. Le prove si svolgono nel giardino della casa sul lago, dove Chet Baker rimarrà ospite per qualche giorno. Non si tratta di un ospite qualsiasi e non soltanto per il nome che porta. L’eroina lo ha devastato, le rughe sembrano incise da un coltello, ha 57 anni ma ne dimostra venti di più anche se il suo viso continua a essere magnifico, così segnato da una dolenza struggente e potentissima. Ricorda Pier Paolo Pasolini anche se nei momenti più luciferini emerge una spaventosa somiglianza con Charles Manson, ma solo nei lineamenti perché Chet Baker è e rimarrà fino alla fine una creatura gentilissima e lievissima, come la sua voce. Roba da far tremare i polsi, ma mia sorella ha un glorioso passato da sessantottina e sa cosa significa avere a che fare con un tossicodipendente. Dopo il concerto si ritroveranno tutti nella villa, per continuare a suonare, ma anche per festeggiare una bambina, mia nipote Eleonora, che quella notte compie sette anni e che probabilmente non capisce la fortuna di essere svegliata dal più grande trombettista vivente che le canta Happy birthday…

Baker a Copenhagen 1978

Chet Baker dormirà nel letto di mia madre, in vacanza altrove, unica stanza disponibile di una casa sempre piena di gente (l’idea che abbia pernottato in camera di mia madre è per me un dettaglio surreale…). Il giorno dopo Alessandra si offre di accompagnarlo alla spiaggia, vuole fargli vedere le dune di Sabaudia e regalargli uno svago, il mare sa essere sempre un avvenimento straordinario. Salgono sulla Mehari, Chet si mette dietro e osserva il panorama. Arrivati sul ponte che conduce al lungomare Alessandra sente un rantolo alle sue spalle, guarda nello specchietto retrovisore e vede il volto di Chet, grondante di sudore, riverso sullo schienale. E’ in piena crisi di astinenza. Lei fa dietrofront, lo lascia a casa e riparte subito dopo per cercare aiuto da un suo amico medico e farsi prescrivere del metadone, in quei casi le soluzioni sono due: eroina o metadone. Ma il medico rifiuta e qualcuno le offre di procurarsi l’altra opzione.

Al mare Chet non ci andò mai, preferiva stare sul lago. A volte prendeva la barchetta attraccata al molo, si allontanava remando, e si metteva a suonare, solo, sull’acqua. Allo scadere del quarto giorno, andò da mia sorella e disse che sarebbe stato meglio per tutti se se ne fosse andato: “Tu hai un bella famiglia, dei bambini, non è sano che io resti qui”. Lei non lo vide mai più. Due anni più tardi il corpo di Chet Baker fu trovato su un marciapiede di Amsterdam, dopo un volo dal terzo piano di un albergo. Non si è mai capito se si sia trattato di suicidio, di un incidente o di omicidio. Aveva 59 anni.

La storia finisce qui, e adesso chiedo a voi che avete letto di ascoltare a occhi chiusi Whilemylady sleeps di Chet Baker.

Francesca d’Aloia il Foglio quotidiano

Cocciante: no al successo, sì all’amore

Cocciante: no al successo, sì all’amore

Riccardo Cocciante è a Dublino, dove vive da tempo, e anche nella capitale irlandese è circondato dalla musica: «Ascolto quello che c’è nell’aria, mi nutro di quello che che arriva, è una passione alla quale non posso rinunciare». Così come non può separarsi da Notre Dame de Paris, il cui nuovo tour italiano è stato, causa pandemia, rinviato all’autunno per proseguire nel 2022. Tour con il quale Cocciante festeggia il ventennale dell’opera: la prima rappresentazione in Italia fu nel marzo del 2002, vent’anni in cui il lavoro del maestro (e di Luc Plamondon nella versione originale francese, e di Pasquale Panella in quella italiana per i testi) ha conquistato milioni di spettatori e il successo nel mondo. Merito delle musiche di Cocciante che animano l’immortale storia scritta da Victor Hugo. «Non scrivo mai pensando al successo», ci dice Cocciante, «scrivo solo ciò che amo e che sento.

Quando io e gli autori abbiamo scritto Notre Dame non ci aspettavamo il grande successo che ha avuto, e neanche che restasse nel tempo. Certo, ho fatto di tutto perché accadesse…». In che modo? «A partire dagli arrangiamenti, che sono senza tempo, mescolano passato e presente. È così anche per i testi, c’è il Medioevo ma si trovano allusioni a tutto. Questa atemporalità è forse una delle prerogative dell’opera. Notre Dame è nata per amore, per un bisogno di scrivere, questo fa sì che sembri scritta ieri. L’altro elemento è la linearità: tutti i cantanti che he hanno partecipato, li ho sempre fatti cantare in maniera lineare, senza variazioni che possano fare parte del nostro momento. Le vieto, voglio che resti lineare nella sua esposizione perché questo aiuta a lasciare tutto in un tempo immaginario». Era “fuori tempo”, anche quando è stata scritta. Nel senso che spettacoli del genere non se ne facevano. «Io ho sempre seguito una linea: essere me stesso, a parte dagli altri cantautori, spesso “fuori moda”, e sono ancora così. Quando mi sono messo a scrivere Notre Dame sono stato guidato dallo stesso pensiero e tutti mi dicevano che assomigliava troppo a me. Ma sono io, non posso mentire. Dentro c’era la mia storia, le cose con cui sono cresciuto, la classica e l’opera che ascoltavo in casa, il rock a cui mi sono avvicinato da adolescente, Otis Redding e la canzone pop. È vero, l’ho scritta a mia immagine. Era una cosa inaspettata all’epoca e nessuno voleva ascoltarla o produrla. Una delle prerogative delle idee di successo è proprio fare qualcosa che stupisce, fuori dai canoni. Ha colpito tutti per le melodie e i testi, perché somigliava a un’opera rock ma non lo era, aveva elementi del musical, richiamava l’opera senza essere operistica». Ed è arrivata al momento giusto… «È la mano del destino. Lo noto dal fatto che le arie di Notre Dame sono tante, ci sono opere che hanno arie meravigliose ma non tante che la gente ricorda, arie da contorno, da esposizione. Notre Dame ha tante arie con una loro forza. Molte sono nate prima ma le avevo accantonate, quando è arrivato il momento tutto è andato al posto giusto. C’è un po’ di fortuna, ma la gran parte è frutto del lavoro. Tutto quello che fai nella vita ti serve, il successo di Notre Dame è arrivato dopo anni di canzoni, musica, perfezionamento». Importante è stata la sintonia con le parole di Plamondon e Panella. «Le loro parole sono state fondamentali. Quando ero più giovane, appena arrivato da Saigon a Roma, davanti alla tv ho imparato le prime parole in italiano. Guardavo i festival e i programmi musicali, con Sanremo ho iniziato ad apprezzare i testi delle canzoni. Quella tra parole e musica è un’alchimia che mi ha sempre affascinato, con gli autori c’è stato uno scambio fantastico». La pandemia ha bloccato i suoi progetti. Cosa bolle in pentola? «Tante cose, scrivo sempre: opere, canzoni… Alcuni progetti come la Turandot in Cina si sono fermati, altri vanno avanti. Devo registrare il nuovo disco, prima c’è il compleanno di Notre Dame poi i miei cinquant’anni di carriera. Ci saranno molte occasioni per fare grande festa e grande musica». Lo spettacolo dei record compie vent’anni, si festeggia con un tour in autunno Cocciante “Il mio Notre Dame che nessuno voleva”

L’intervista è di Ernesto Assante per La Repubblica

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