DE HUMANI CORPO

DE HUMANI CORPO

La medicina ha perso la sua centralità nel mondo contemporaneo. Ma come, dice, ma se stampa, tivvù e social sono pieni di epidemiologi, virologi, biologi e compagnia bella! Eppure, questa mia affermazione, che potrebbe sembrare contraddire la cronaca, in realtà guarda non il dito ma la luna che verrà. Mi spiego.

Presi dal male invisibile che ci ha colpiti abbiamo, impauriti e inermi, cercato aiuto. L’uomo dominatore del mondo piegato da un Mutante, quasi un flagello divino. La scienza, spesso disprezzata, è apparsa l’unica àncora cui aggrapparci. Resipiscenza, fiducia incondizionata, ingenuo affidamento, tutte queste cose insieme? Non so, so che abbiamo messo sulle spalle della medicina un macigno, che l’ha fatta barcollare, scoprendo quanto fosse vecchia e indebolita.

Sono i fatti a dimostrarlo, e non tanto per le baruffe che medici e scienziati fanno fra di loro, così spesso in disaccordo. Prendete un vecchio giornale del 1918 o qualche foto dell’epoca. Imperversava, in quei anni, l’epidemia spagnola, alla fine oltre due milioni e mezzo di morti, leggerete delle stesse paure, troverete le stesse raccomandazioni, rivedrete indossate le stesse mascherine. Anche allora si confidava nell’immunità di gregge. Unica sostanziale differenza: i tempi del vaccino, oggi mirabilmente ridotti.

Non sapendo ancora molto del Mutante, la scienza non può rispondere a tutte le nostre ansiose domande: da dover viene, quali sono le cause dello spillover, colpisce tutti o no, perché in certi luoghi imperversa e in altri sonnecchia, i vaccini sono efficaci, hanno effetti collaterali, per quanto tempo immunizzano? Quante altre pandemie dobbiamo aspettarci? Tutte domande che ancora non trovano risposte e l’inoppugnabile evidenza dei fatti. Troppo presto. La scienza, quando è tale, ha bisogno di prove e grandi numeri.

Foto scattata durante epidemia spagnola

Pandemie (occasionali) e malattie sociali (cronicizzate) costituiscono un perimetro troppo ampio per la medicina attuale. Da sola non ce la può fare, per il semplice motivo che non può dare risposte a fenomeni che sono sì patologici, ma che affondano le proprie radici molto più lontano dal terreno biologico, per diventare patologie esistenziali. Cioè il risultato di complessi elementi quali-quantitativi bio-psico-sociali, strettamente interrelati e interagenti.

Paradossalmente, proprio gli sviluppi della medicina in questi ultimi decenni, in particolare nei campi delle neuroscienze, della biomedicina molecolare, nelle innovazioni tecnologiche e nella telemedicina, stanno dimostrando come sia invecchiata la figura del medico che conosciamo e della medicina che gli insegnano e che pratica.

Fra non molto l’intero ciclo che va dall’anamnesi remota e prossima, dalla diagnosi alla prognosi e prescrizione non sarà svolto dal medico, ma dalle macchine che saranno in grado, a distanza, di monitorare costantemente sintomi, prevedere insorgenze o predisposizioni, formulare diagnosi e prescrivere i rimedi personalizzati. Una medicina pret-a-porter. Piaccia o non piaccia, nonostante gli eccessi manipolatori, anche eticamente problematici, che si intravvedono. La scienza non si ferma.

Se le concause sono diverse, distinte e distanti, l’occhio del medico non può più vederle. Può scrutare, addirittura prevedendole, le patologie e le disfunzioni degli organi e del loro malfunzionamento, ma non può da solo capire e agire su altre cause determinanti di salute che sono al di fuori del suo campo di indagine e di azione.

Ciò vale soprattutto per le malattie sociali e per fenomeni di massa come le pandemie, sulla cui insorgenza e sul cui decorso il comportamento sociale è preminente.

Il vecchio guaritore si trasformerà in dubbioso resocontista e certificatore, senza potere dare risposte che non sono nei suoi poteri, né incidere su quelle cause che rimandano a organizzazione sociale, benessere pubblico, abitudini individuali e comportamenti collettivi, condizioni di vita in generale, valori dominanti destinati a influenzare ogni aspetto della vita contemporanea.

Nella stesura del Next generation EU (noto come recovery fund), questa prospettiva è presente? Oppure ci si limiterà a incamminarsi lungo vecchie strade, guardando il dito e non la luna?

In copertina: Luca della Robbia (Firenze, 1400-1482), Tondo con insegna dei medici e degli speziali

PAOLONE SOTTO IL VESUVIO

PAOLONE SOTTO IL VESUVIO

GIUSTO UN ANNO FA MORIVA INASPETTATAMENTE PAOLO ISOTTA, MUSICISTA COLTO, RAFFINATO, CRITICO SEVERO, APPASSIONATO NEGLI ELOGI QUANTO SPIETATO NELLE STRONCATURE. SCRIVEVA CON UNO STILE INCONFONDIBILE, RICERCATO, SORRETTO DA UNA ARGUZIA TUTTA PARTENOPEA, CON UNA ERUDIZIONE MAI FINE A SE STESSA. FINITO IL NOVECENTO, IN CUI FU CRITICO MUSICALE INSUPERATO, NON POTEVA CHE FINIRE ANCHE LUI. PER RICORDARLO COME MERITA RIPRENDO L’ARTICOLO CHE GLI DEDICO’ FILIPPO FACCI

Il meraviglioso Paolo Isotta, per me, era estinto anche da vivo, perlomeno negli ultimi vent’ anni passati a cincischiare con la squallida finitezza corporea e da lui passati ad auto-recensire una vita conclusa, coi piedi ben piantati nel Novecento. Negli ultimi vent’ anni non ho voluto più incontrarlo anche per questo, perché all’ alba del nuovo Millennio avevo voluto immaginarlo nelle splendide vesti di gran cerimoniere di un’èra che salutava, lui, la maschera che accompagnava alcuni di noi lungo il loggione di un teatro di proporzioni monumentali e impossibili, con, sprofondata nel golfo mistico wagneriano, un’ orchestra di migliaia di elementi che suonava una musica cupa e impressionante, velata dalla mestizia di un tempo che se andava.

Paolo Isotta

Isotta, nei tardi anni Novanta, mi ritenne un miraggio della gioventù hitleriana che frequentava quel mistero nascosto alla superficie che si chiama musica, e s’invaghi di me quando mi sentì disquisire su sette versioni del quarto movimento di una sinfonia di Ciaikovsky, si commosse quando citai a memoria passaggi del suo Le ali di Wieland del 1984 (scritto a 34anni, cattedratico da 10, quando probabilmente era già il più colto musicologo del mondo intero) e rimase di sale quando gli spiegai perché il giovane Baricco aveva copiato da lui, dopodiché era nelle cose: l’amore si trasmuta in rancore come capita ai dannati peggiori: i passionali intelligenti e accidiosi.

Ci scambiammo missive e dischi, cercò di farmi cacciare da Il Foglio, fece pressioni perché non scrivessi più una parola su Riccardo Muti, andò nel panico quando invasi un «suo» ristorante a Napoli, per mesi tempestò l’ ex direttore di questo giornale (un bresciano) perché personalmente io recensissi un suo libro (ma non cedetti) e intanto per rimase segretamente «il riferimento», benché ampolloso, ciceroniano, frocista, vendicativo e amante delle mafiette come il suo tammurro, Pietrangelo Buttafuoco.

La sua biografia storico-giornalistica l’ ha già scritta il suo vero amico Vittorio Feltri. Dico solo che mi mancherà l’uomo che avevo già deciso che perisse (per me) vent’ anni fa, ultimo superstite di una civiltà che sapeva scrivere e studiare e concentrarsi e parlare e sintetizzare e pensare e ragionare, refrattario a un’umanità ridotta a pura relazione, a mera intuizione e sensazione fulminea, a immagine sintetica e contratta, un’umanità decerebrata e incapace di un certo tipo di trasmissione del pensiero: era finita la musica, era finito il Novecento, era finito lui. Quanto mi è mancato. Quanto mi mancherà.

Filippo Facci per “Libero quotidiano”

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