IN PROVINCIA

IN PROVINCIA

Gianni Celati e il suo canto della provincia padana, comica malinconica e disorientata

Succede questo: che il mondo corre, ma in provincia corre più piano, corre più dentro, non è ancora tutto squadernato, e le facce ritornano una volta e poi ritornano ancora, e allora alla fine nessuno viene davvero dimenticato.

Naturalmente con il giro delle stagioni arrivavano le nuove leve, gli squadroni dei nuovi rampolli della nostra scuola e della città; e ognuno arrivava all’appuntamento convinto che il mondo non aspettasse altro che lui, oppure stizzito se gli sembrava che aspettasse un altro invece che lui. Ognuno per trenta o quarant’anni là a mostrare i suoi vestiti, a fare i suoi confronti, i suoi commenti, e poi via, passato ad altre eterne.

Gianni Celati vive tra l’Italia, l’Africa e l’Inghilterra (da molti anni a Brighton), ma è sempre un ferrarese, uno scrittore con la provincia padana nella testa e nelle dita. Quel tipo di malinconia e di comicità è inconfondibile e indimenticabile, come sono i portici e le piazze, i vicoletti acciottolati e la stazione di notte in cui fermarsi a parlare sempre della stessa donna, quella che al liceo li ha fatti impazzire tutti, la Susanna Zarri. Questi racconti, uniti dal titolo “Costumi degli italiani”, sono come un romanzo frastagliato e rimontato, mostrano con dolcezza gli “eroi pascolanti” che ogni volta ritornano, con i loro tormenti, con le fissazioni che cominciano in quarta ginnasio e sono capaci di condurli al manicomio. L’adolescenza, la giovinezza, l’età adulta, lo smarrimento che non passa e il sesso che aleggia misterioso sopra ogni cosa, ma soprattutto quella mancanza di orientamento, e forse anche di coraggio. C’è in questi pascolanti un’accettazione indolente del proprio destino, nella provincia degli anni Sessanta, la rassegnazione anche verso l’isolamento e l’infelicità.

Pucci che fuma una cicca dietro l’altra sul materasso nel giardino di suo nonno, Bordignoni che si innamora della barista Rossana e ogni mezz’ora va a ordinare un caffè, finché viene ricoverato in ospedale dopo un coccolone. Gianni Celati sa trasformare l’amarezza in comicità, ma non si può non soffrire per questi personaggi di secondo piano, che il mondo non ha mai aspettato, a cui non ha mai rivolto una seconda occhiata. Ci sono però anche le provvisorie celebrità, gli uomini in odor di benessere, le vedove con il petto in fuori. Anzi, ci sono tutti.

Gianni Celati

“Adesso succede questo: torno a casa e non trovo più mio fratello, poi vengo a sapere che mio padre l’aveva mandato via e non voleva più vederlo sotto il suo tetto. Questo perché sospettava amori segreti tra mio fratello e mia madre. Terribile idea! Il fatto è che il mio povero genitore subiva tante umiliazioni dagli aguzzini della sua banca che dopo gli venivano delle fissazioni tremende, con voglie di morire o di spaccare tutto”. Così il figlio deve nascondersi in soffitta, dove la madre gli porta di nascosto da mangiare, e intanto il padre ciabatta in pigiama per casa come un re Salomone decaduto, con una continua voglia di fare l’amore con sua moglie e di farle giurare che nessun incesto è mai avvenuto.

Succede questo: che il mondo corre, ma in provincia corre più piano, corre più dentro, non è ancora tutto squadernato, e le facce ritornano una volta e poi ritornano ancora, e allora alla fine nessuno viene davvero dimenticato.

“Zoffi era lungo e magro, Barattieri più grasso, Fregatti medio e già caldo in giovane età. Amos grassoccio e sbrindellato. Io un quindicenne con l’aria confusa. Che vita! Quanti anni passati a parlare! Quante parole buttate al vento! Quanti libri letti e dimenticati! E poi le selve d’amore! E le nausee d’amore come quelle venute a Zoffi, caduto innamorato di sua cugina Urania. Io vorrei sapere dove sono andati a finire tutti quanti, e se siamo davvero esistiti, se è proprio questa la vita. Oppure è tutto un errore, solo dei lampi, brividi, non si sa”. Non si sa se questi siano versi, o un canzone, o solo costumi degli italiani.

Recensione di Annalena Benini per Il Foglio quotidiano del libro di Gianni Celati, “Costumi degli italiani” Quodlibet editore

GERBO & IL NEREO

GERBO & IL NEREO

Il giornalista sportivo Germano Bovolenta, il mondo del grande calcio all’epoca di Baggio, Baresi, Gullit, Rivera e soprattutto del mitico allenatore del Milan Nereo Rocco, nell’articolo rievocativo di Sergio Sottovia.

Germano Bovolenta, il nostro amico “ger.bo.”, polesano, portotollese di nascita, milanese di adozione ma legatissimo alla sua terra, è stato recentemente celebrato da Sportweek, il settimanale della “sua” Gazzetta, il giornale in cui ha lavorato più di trent’anni. Lo hanno inserito nell’antologia delle grandi firme de “La Gazzetta dello sport”, assieme a mitici direttori come Bruno Roghi, Gianni Brera e Candido Cannavò. Hanno pubblicato, oltre alla sua ricca biografia, un suo articolo scritto sulla sfida di coppa Campioni fra Juventus e Verona, a porte chiuse nel 1985. Germano ha scritto migliaia di articoli: interviste, storie, corsivi, pezzi di costume e di fondo in prima pagina. Ha spaziato anche in altri campi e incontrato uomini del cinema, dello spettacolo e della vita sociale. Famosa una sua intervista a Nelson Mandela, Nobel per la pace.
Conservo molti articoli dell’amico e Signore della Rosea, Germano Bovolenta, un professionista esemplare, sempre molto gentile e disponibile. Fra gli altri ho ritrovato un meraviglioso ritratto di una decina di anni fa sul Grande allenatore Nereo Rocco, uno dei giganti della storia del calcio. Lo ripropongo qui con piacere per ricordare l’immenso Paron Nereo raccontato da uno dei grandi giornalisti sportivi italiani.

Germano Bovolenta, Dejan Savicevic e Franco Baresi sull’aereo di rientro da Atene dopo la vittoria del Milan in coppa dei Campioni contro il Barcellona nel 1994. (Foto pubblicata su Il Resto del Carlino ).

Con il grandissimo Roberto Baggio nella redazione della “Gazzetta”. Il portotollese Germano Bovolenta ha curato la bellissima collana (un lungo film in 10 dvd) sulla storia del “Divin Codino” e scritto un libro, edito dalla “Gazzetta dello Sport”, sulla sua vita.  (Foto pubblicata su La Voce di Rovigo)

Il ritratto di NEREO ROCCO, nei ricordi di Germano Bovolenta.


Trieste, 20 febbraio 1979, fa molto freddo, la bora soffia a 150 chilometri all’ora. Nereo Rocco muore all’ospedale Maggiore. Al suo capezzale c’è Tito, il figlio minore, el dotor farmacista. Tito raccontava: «Il giorno prima mi guardò con gli occhi confusi e mi disse: Tito, dame el tempo». Come diceva a Marino Bergamasco e Cesare Maldini verso la fine della partita, quando non c’era ancora il recupero.
«Pensava di essere in panchina», sorrideva triste Tito.
Il funerale di Nereo Rocco viene celebrato due giorni dopo e Trieste si ferma e le rive sono piene, i ristoranti, raccontano i ristoratori, fanno anche tre turni. Ci sono tutti ai funerali del «filosofo, burbero, bonario, popolaresco, impetuoso uomo di sport».

Tutti, da Gianni Rivera a Bepi Straza, accompagnano Nereo al Campo Terzo del cimitero Sant’Anna. Lo portano lassù, verso Valmaura, dove c’è il vecchio stadio in cui ha giocato e allenato.

Poi vicino ne faranno uno nuovo: il Nereo Rocco, con la sua statua di bronzo e le targhe. Nello stadio moderno, elegante, forse troppo svodo, vuoto, ci sono le sue gigantografie, i faccioni, quel mento severo, i cappellini, gli occhi furbi e luminosi.

Germano Bovolenta, Ruud Gullit e Arrigo Sacchi a Milanello nei primi anni 90. Germano ha seguito per molti anni i successi del Milan in Italia e nel mondo. Sacchi in un’ intervista di lui ha detto: “Germano è un vero fantasista del giornalismo. Nel calcio sarebbe un numero 10” (Foto pubblicata su La Voce di Rovigo).

Rocco era stato un uomo buono, non un buon uomo. E un ottimo giocatore. E un grande, grandissimo, leggendario allenatore. Figlio di Giusto, macellaio, è bravino scuola, ma gli piace troppo el balon. Il cognome del padre è Rock, austriaco. Il nonno, Ludwig, faceva il cambiavalute e veniva da Vienna.

Rock diventa Rocco nel 1925, quando per lavorare nel porto era obbligatorio avere la tessera del fascio.
Il cognome doveva essere italianizzato, doveva diventare Rocchi, ma l’impiegato all’anagrafe sbagliò e nacque così Rocco. Nereo ha un fisico imponente, gioca nella Triestina e lavora nella bottega del padre. Un giorno, primi anni Trenta, arriva a Trieste il Napoli di Sallustro, Vojah e Cavanna.

Si sistemano in un grande albergo, davanti alla stazione marittima, Rocco passa da lì con il camioncino e scarica la carne. Racconterà,una sera nel suo «ufficio», all’Assassino: «Mi vergognavo su quel camion pieno di agnelli e conigli. Avevo la “traversa” bianca, non sapevo come nascondermi. Io, giocatore e macellaio, loro “lì belli e signorotti”. Mi sono messo la mano sul viso, sono saltato di corsa sul camion e ho accelerato».
Vero? Mah. Gli amici lo chiamavano fiaba perché sapeva raccontarle molto bene.

Racconta, si fa capire, spiega. Soprattutto il calcio. Triestina, Padova, Milan, scudetti, coppe, medaglie e popolarità. Parla il dialetto, un italo-triestino pieno di battute, sarcasmo, ironia e saggezza. Non è un contadino, non ha le scarpe grosse e il cervello fino.
Hanno scritto: «Inveisce, brontola, è uomo del popolo ma anche psicologo, furbo ma sincero. Giusto e umano. Sa insultare con eleganza, non lacera mai».
Prendiamo Helenio Herrera. Sono rivali nei derby, Helenio fa lo spaccone e lo provoca. Nereo lo chiama: quel mona de mago, soprattutto — dirà—«dà lavoro a quei mona di giornalisti».

Diventano tutti mona, i compagni, gli amici, i dirigenti federali e non, José Altafini.
Anzi Jòse con l’accento sulla o. I difensori, i portieri, gli arbitri, il compagno di tressette e di bevute Nicolò Carosio.
E’ sempre stato legato a Trieste, da un filo sottile e — raccontano i biografi — anche strano. Non riesce a starne lontano, ma nemmeno è capace di rimanerci. Quando arriva vicino alla città, accelera:«Se la mucca la senti l’odor de la stalla la cori de più».
Dal «posto di lavoro», sempre in auto. Tutti i lunedì, dicono i figli. Con la Simca da Padova, con la Flavia e la Mercedes da Milano e con un’Alfa verde da Torino. Lui diceva: «Sono un buon guidatore». Esagerava.

Una volta con Rivera ha fatto Milano-Trieste in quarta. Quando Gianni l’ha fatto notare: “Ma signor Rocco, non mette la quinta?”, ha risposto quasi indignato: «Ciò, mona, pensa ai fatti tuoi”.
Raccontava il figlio Tito: “A Torino aveva un’Alfa verde, la targa cominciava… Non ricordo, butto lì un numero a caso, mettiamo TO 345. Dopo due settimane torna a Trieste con la stessa auto, stessa cilindrata e un numero di targa diverso. Noi ragazzi a queste cose guardavamo. “Papà, è la stessa macchina?”.
“Certo, perché?, che macchina dovrebbe essere?”.
“La targa è cambiata…”.
“Ma và, mona…”.

Era diversa. Sa cosa aveva fatto? Era finito dentro le rotaie del tram e l’aveva mezza sfasciata. E allora ne acquistò un’altra, uguale in tutto, ma ovviamente con una nuova targa. Non so, forse si vergognava, era fatto così».

L’uomo delle fiabe diventa un conduttore di uomini. Alla sua maniera. A Milanello lo chiamano mister.
«Mister te sarà ti, mona. Io sono il signor Rocco».

Anzi el Paròn. Comanda lui. Quando qualcuno lasciato fuori formazione, si lamenta, («Perché, signor Rocco?»), risponde pronto: «No xe mia la decision, ma de la siora Maria». Cioè sua moglie. Lo dice, una volta anche a quel mona de Jòse. Ma è soltanto un modo di dire per tenere alto, e soprattutto in mano, lo spogliatoio.
Altafini è il suo centravanti preferito e, con rispetto parlando, il «buffone» della compagnia.
Altafini inventa lo scherzo dell’armadietto che entra di diritto nella hit parade dell’aneddotica rocchiana.

Nereo vive negli spogliatoi, si cambia con i giocatori, è uno di loro e con loro resta a parlare a lungo, specialmente il martedì, sulle panchine. José si nasconde nel suo armadietto. Rocco arriva, lo trova aperto, si alza il cappello e s’interroga.

«Mah, strano, neanche ieri l’ho chiuso».
Lo apre e spunta fuori, nudo urlante, Altafini: «Baahhh!».
E Rocco spaventato: «Bruto mona, te me fa vegnir l’infarto».
Si siede sulla panchina fingendo di ansimare pesantemente: «Non farlo più, non farlo più… Disgrassiato».
Altafini lo rifaceva e la scena si ripeteva. L’anno dopo Rocco va via, arriva Nils Liedholm, Altafini ripropone con il Barone la scena dell’armadietto. Ma quando salta fuori, nudo, urlante, il Barone sussurra: «No. Non è questo tuo armadietto».

Era un attore. Federico Fellini nel 1973 gli propose di recitare in Amarcord. S’incontrano in un ristorante a Bologna, pranzano a tortelli e lambrusco, si scrutano.

Rocco doveva fare il padre di Titta. Ci pensa. Poi, quando i suoi giocatori vengono a saperlo e lo prendono in giro, cambia idea.
«No, grassie sior Fellini».
Ma la rinuncia è dovuta, soprattutto, agli impegni del Milan in coppa e campionato.
«Peccato—dirà il grande Federico — nel padre di Titta io volevo un uomo burbero, sentimentale, romantico, antifascista, rozzo ma simpatico. Rocco era il personaggio giusto».

Il suo set era il campo, era lì che offriva performance indimenticabili, accompagnato dal più grande di tutti i grandi: Gianni Rivera.
Lo ascoltava, lo adorava, era il suo terzo figlio, Gianni. Lo invitava a passare le vacanze nella sua casa di Trieste o al mare a Lignano Sabbiadoro.
«El Gianni xe i me oci». C’è tutto in questa definizione. El Gianni doveva solo giocare dove voleva o sapeva. Hanno giocato e vinto. Gianni ha sempre detto: «Rocco manca fisicamente a tutti quelli che lo hanno conosciuto».
Gli hanno dato del catenacciaro, anche nel Milan.
«Ma per favore, davanti eravamo io, Hamrin, Sormani e Prati e prima ancora Mora, Altafini e Barison».
Hanno chiesto al suo bambino d’oro: Rocco era più persona o personaggio? E Gianni: «Uomo. Lui era sempre vero, sempre se stesso. Sia nelle decisioni ufficiali, sia nei momenti di relax».
Vero, autentico. Come la sua vita.

E le struggenti confidenze di Saul Malatrasi, quando col paron Nereo che gli diceva: “Ciò,  Rovigoto, me raccomando, controlla le due cocorite ”. Il riferimento era agli esuberanti  Lodetti e Trapattoni, quando andavano in “libera uscita”.

Ma mi fermo qui, perché già citate nei rispettivi Personaggio Story raccontati sempre qui su www.polesinesport.it , ricordando soltanto che per certi versi anche Germano Bovolenta è un ‘paron. Ovviamente dal punto di vista giornalistico, punto di riferimento per molti suoi colleghi giovani.

Ricordo alcune speciali ‘prefazioni’ di Germano a libri sportivi polesani. Dalla biografia Arnaldo Cavallari, strepitoso vincitore della Parigi-Dakkar con Sandro Munari , alla storia dello Scardovari Calcio,  fino alla mia trilogia “Polesine Gol – Campioni & Signori”. Senza dimenticare i consigli e dritte affettuose a noi tutti che lo stimiamo e ammiriamo.

 

Germano Bovolenta & Nereo Rocco. Me li immagino come nelle vignette dell’Arcimatto di Gioan Brera fu Carlo sul Guerin Sportivo dei bei tempi.  Germano e Nereo che parlano di Calcio & Vita, magari camminando lentamente lungo gli argini del Po della Donzella, da sempre casa e “buen ritiro” del Germano del Delta.

Ma il personaggio principe di questo nostro reportage stile “Memoria & Futuro” è innanzitutto lui, il ‘Signore della Rosa’. Cioè Germano Bovolenta, cantastorie di sport e di vita.

Perché ha ‘vissuto dal di dentro’ il Grande Calcio Mondiale a fianco di tanti campionissimi, poi celebrati come solo lui sa fare. E qui, scusate se mi ripeto, ricordo ancora quel suo incontro con Nelson Mandela, il grande premio Nobel della pace, che ha speso la sua vita per regalarci un mondo ‘senza apartheid’.

Anche per questo onoriamo Germano Bovolenta in fotogallery, con sottostanti relative didascalie by specifici Mass Media, proponendolo altresì in cover in tandem col Nereo Rocco da lui raccontato con rispetto e dolce ironia,  da “rabdomante dell’anima”, tra calda umanità e divertita aneddotica.

Lui, Germano Bovolenta, esperto anche di cinema (la sua grande passione) me lo immagino un po’ regista come il Fellini di Amarcord, dove anche le nebbie della Pianura Padana sono sfumature dell’anima, della nostra civiltà contadina e del nostro piccolo mondo antico.

Estratti dell’articolo di Sergio Sottovia per www.polesinesport.it

FELLINI IL MAGO

FELLINI IL MAGO

L’esoterismo, l’iniziazione, un intenso rapporto con sensitivi e veggenti: è il lato meno noto del regista italiano. A raccontarlo Filippo Ascione, che con lui ha condiviso film, chiacchierate e libri

Il signore anziano della foto è chiaramente Fellini. Lo è nella faccia così solo sua, nella stazza, in quel suo sguardo che fugge altrove. È inconfondibilmente il Fellini che tutti ricordiamo, anche seduto di sbieco nella luce rosa dell’alba, appena curvo sotto il peso della nottata passata all’addiaccio. Il ragazzetto dalla pelle di luna seduto di fronte a lui è invece diventato l’uomo che ho davanti, seduto di fronte a me in un salotto di velluti e piccole cose antiche in un palazzo romano a due passi dal Pantheon. Aveva 25 anni ai tempi, Filippo Ascione, ne ha 56 oggi.

Filippo Ascione

«Questa è la foto di Federico che mi è più cara. Eravamo a Cinecittà, alle sei del mattino, davanti al suo Studio 5. Mi aveva detto: “Filippicchio” perché così mi chiamava “voglio vedere l’alba a Cinecittà, ce l’ho ricostruita mille volte, ma non l’ho mai vista”. Parlammo di sincronicità tutta la notte». Avevano discusso della teoria dello psicanalista Carl Jung anche al loro primo incontro. «Studiavo medicina, ero a Cinecittà a trovare un amico. Mi vide e mi chiese: “Lei è attore?”. Non lo ero, ma volle conoscermi lo stesso. Cominciammo a parlare e non ci siamo più separati. Divenni prima il suo aiuto regista, poi sceneggiatore, ho lavorato a tutti i suoi film da E la nave va in poi».

Nessuno più di Filippicchio, che poi ha collaborato a tanti film di Carlo Verdone e di Sergio Rubini, può raccontare, a quasi vent’anni dalla morte del maestro, il “Fellini degli spiriti”, ovvero il rapporto del regista con il paranormale, i sogni, la magia bianca, la sincronicità, appunto, secondo la quale nulla accade per caso. E nel caso in questione, tutto finisce nei film. Filippicchio ha ereditato la biblioteca esoterica di Fellini, ma è la prima volta che accetta di parlare dell’argomento.

Gustavo Rol con Federico Fellini

Perché era così importante la sincronicità per Fellini?
«La vedeva ovunque. La usava, per esempio, per scegliere gli attori. Trovò così Freddie Jones, per E la nave va. Il set era pronto e ancora non c’era il protagonista: Orlando. Restava da vedere solo un attore inglese. Jones arriva, Federico gli fa tre provini, lo boccia. Il produttore, Franco Cristaldi, era disperato. Però, Federico, dispiaciuto, si offre di accompagnare l’attore in aeroporto. In auto, Jones si appisola e Fellini quasi parlando tra sé e sé dice, guardandolo: “Chi sei tu? Come ti chiami?”. In quel momento, passano davanti a un manifesto e vede una scritta enorme: Orlando. Chi sei? Come ti chiami? Orlando. Mancava poco che ordinasse inversione a U sul raccordo anulare».

Prima di Giulietta degli spiriti, Fellini si era dato alle sedute spiritiche. Quando lo ha conosciuto lei, continuava?
«Negli Anni 80 non molto, ma era comunque curioso di medium come di cartomanti, al punto che andava dai ciarlatani nei retrobottega come da Gustavo Rol».

Quanto era stretto il rapporto col più famoso sensitivo italiano?
«Lo consultava sulle sceneggiature. Glielo aveva fatto scoprire Dino Buzzati, lo scrittore. L’ho accompagnato anch’io a Torino, più volte. Lo abbiamo visto fare cose incredibili: quadri che si dipingevano da soli, la sua mano che trapassava le porte come fossero di burro, tavoli che sparivano fino a diventare gelatinosi e, se ci poggiavi qualcosa su, se lo risucchiavano. A me, Rol materializzò davanti una donna con la quale avevo dei problemi».

Il pittore Rinaldo Geleng sostiene che negli Anni 70, Rol, davanti a Fellini, materializzò Casanova.
«Di sicuro, il Casanova del suo film è molto più oscuro di quello della letteratura. Federico ne parlava come se lo conoscesse».

Fellini cercava di apprendere i segreti di Rol?
«Gli chiedeva sempre “la formula”. Finché Rol gli disse: “È semplicissimo: il colore verde, la quinta musicale e il calore”».

E lui?
«Mi diceva sempre: “Il cinema mi ha risucchiato, ma io volevo fare il mago”. I film erano le sue magie. Quando giravamo, alle otto del mattino ci trovavamo in piazza del Popolo per andare a Cinecittà e non esisteva nulla: i copioni nascevano in quella mezz’ora d’auto, spesso ispirati ai suoi sogni della notte».

Che altro finiva nei film?
«Tutto. Lui non era interessato al cinema in sé: nel suo studio di corso Italia non aveva un solo cimelio di film, ma solo libri esoterici o di psicologia e tutto Rudolf Steiner. Fare film era un modo per creare magie. Ne La voce della luna c’è una scena ispirata a una teoria del musicista Nino Rota, il quale sosteneva che determinate sequenze di note operano miracoli sulla materia. Il pezzo in cui gli oggetti sul pianoforte ballano nasce così».

Altri esempi?
«Il pretino che nello stesso film levita è ispirato a un amico che viveva a Benares, in India, in un ashram, e che diceva di volare».

Ha detto che Fellini andava anche dai ciarlatani.
«Con uguale entusiasmo infantile. Tanto, dai cartomanti le carte se le leggeva da solo: la simbologia è la stessa degli archetipi di Jung. E se sapeva di un sensitivo, si partiva. Io, lui e Fiammetta, la segretaria».

Trasferte prodigiose?
«Anche disastrose. Nella campagna vicino Pistoia, una medium sosteneva di incidere la voce dei defunti sul magnetofono. In questo tugurio di vecchie contadine, luci spente, la medium armeggia con due vecchi magnetofoni che fanno un gran baccano. Fellini, che aveva senso dell’umorismo, fa sottovoce: “A me questa, mi pare una tramviera”. Dovemmo scappare. Però una donna col magnetofono l’ha poi messa in Ginger e Fred».

Il viaggio più avventuroso?
«Lo fece da solo. Voleva conoscere una sensitiva russa che si diceva avesse resuscitato Breznev e viveva isolata al servizio del Kgb. Quando nel 1987 gli offrirono un premio a Mosca, pose come condizione che lo portassero da lei. Trattarono a lungo. C’era ancora la Guerra Fredda».

E ci riuscì?
«Ufficialmente, non si sa. Però, non sarebbe andato a Mosca se non l’avessero accontentato, seppure a condizione che non ne parlasse mai».

Ma Fellini aveva abilità strane?
«Credo fosse veggente. Se avevi un problema, diceva cose per confortarti: “Non fare niente: vedrai che mercoledì sera si risolve”, e il mercoledì sera si risolveva tutto».

Addirittura.
«Un Natale, avevo un problema affettivo e me ne andai ad Atene da amici. Federico mi regalò un romanzetto rosa che non era da lui scegliere. Mi disse: “Leggilo e per Capodanno sarà tutto a posto”. La sera della vigilia, lo aprii: la storia cominciava proprio la sera del 24 dicembre e durava una settimana. Mi successero tutti gli eventi del libro: una telefonata di mercoledì, dei fiori di giovedì, il chiarimento a Capodanno. Ma la veggenza c’era anche nei film».

Cioè i film predicevano il futuro?
«Spesso. Nella scena finale di Intervista, gli indiani tirano su Cinecittà frecce a forma di antenne tv: nessuno ai tempi poteva immaginare che quegli studi sarebbero stati invasi dalle televisioni».

Nel 1986, Fellini scrisse sul Corriere della Sera di un viaggio inquietante nello Yucatàn per un film mai realizzato, tratto dai libri di Carlos Castaneda.
«Per quanto incredibile, il suo racconto è tutto vero. Castaneda fuggì dopo strane telefonate, Fellini e gli altri proseguirono, ma poi scapparono, spaventati anche loro. E i fenomeni continuarono in Italia e presero di mira Fellini, me e altri tre. Le telefonate con voce metallica ci raggiungevano anche dalle cabine per strada».

Fellini da giovane

E che volevano?
«Che facessimo un film sugli sciamani, ma senza Castaneda. Un giorno, due tipi sinistri e pallidi si presentano in ufficio a Roma e dicono a Federico: “Lei è stato individuato per girare un film con un messaggio”. E lui: “Che devo fare?”. “Niente. Avrà la sceneggiatura giorno per giorno”. Ovviamente, rifiutò. Le telefonate di quelli che chiamavamo “i messicani” diventarono persecutorie. Ci avevano battezzato coi nomi di cinque colori. Federico era il verde, io il bianco. Un sera, in un ristorante, si materializzò sul tavolo mezza palla coi nostri cinque colori».

E come vi liberaste dei messicani?
«Federico andò da Rol. Rol gli disse che se ne sarebbero andati e quelli scomparvero».

Perché “i messicani” ce l’avevano con Castaneda?
«La nostra idea è che il Don Juan dei suoi libri fosse un mago potente che aveva iniziato Castaneda e si era sentito tradito vedendosi commercializzato».

C’è un altro film che Fellini non realizzò mai: Il viaggio di G. Mastorna.
«Ci fu pure una causa: Dino De Laurentiis aveva le scenografie pronte. Ma Rol sconsigliò a Federico di girarlo, lui si ammalò e in sogno ne attribuì la responsabilità al film. Si convinse che, se l’avesse girato, sarebbe morto».

Aveva paura della morte?
«Aveva paura della vecchiaia. Della morte era curioso. Quando Ettore Scola sperimentò il coma e si risvegliò, prese a chiamarlo tutti i giorni, come fossero vecchi amici, ma non lo erano. Finché gli domandò cosa avesse visto in quei due minuti di morte apparente. Scola rispose “niente” e Federico non lo chiamò più».

Ettore Scola

Fellini non aveva molti intimi tra registi e attori.
«Amava più musicisti e pittori. Non parlava mai di cinema. E non andava al cinema, se non per 007, perché – diceva – era il luna park. Una sera, promise a Sergio Leone di vedere C’era una volta in America. Invece, ce ne andammo a cena con una dottoressa tedesca. La mattina dopo, alle otto, al Bar Canova di piazza del Popolo a Roma, scrisse una letterina di critica come se l’avesse visto. Due ore dopo, chiama Leone e dice che non ha mai letto una critica di uno che ha seguito così attentamente il film».

Anche dei suoi film non parlava volentieri.
«Non li rivedeva e non voleva fare le interviste perché non se li ricordava. Diceva: “Nei film brucio tutte le cose che voglio dimenticare”».

E cosa voleva dimenticare?
«Forse i suoi sogni. Sognava moltissimo. Nella sua testa c’era una multisala. Anche gli attori li vedeva in sogno, li disegnava e poi li cercava. Fu così che scovai Sergio Rubini per Intervista».

Disegni e note appuntate al risveglio sono raccolti in un volume Rizzoli: Il libro dei sogni.
«Federico diceva che i suoi sogni non servivano a lui, ma agli altri. Quello è un libro di magia bianca. Se guardi un’immagine la sera, prima di chiudere gli occhi, ci passi su la mano destra in senso antiorario, fai sogni che curano».

Fellini con Ava Gardner e Ennio Flaiano

E lei li fa?
«Io no. Io di tutti i libri sull’occulto che mi ha lasciato Federico, ne ho letto solo uno. Ho paura di quello che potrei trovarci ».

Fellini era un iniziato?
«Lo chiesi a Rol. Mi disse: “È sulla via dell’iniziazione”. Ma lui diceva: “Posso essere solo un allievo diligente”».

Lei ha ereditato i libri di magia e di psicologia del maestro, un centinaio di volumi.
«Me li diede prima di ritirare l’Oscar alla carriera, che aveva sempre rifiutato: era convinto che Los Angeles gli portasse male. Prima di partire, cominciò a dar via le sue cose, come se avvertisse l’inizio della fine. Sul palco per le prove, ebbe il primo malore. Martin Scorsese chiamò il suo medico, che gli consigliò un intervento sul posto, ma lui tornò Italia. Dove ebbe il primo ictus, poi il secondo, fatale».

Perché mai Los Angeles doveva portargli male?
«Alla prima visita, nel 1957, quando vinse l’Oscar per La strada, sentì la città negativa. Era molto superstizioso».

Quella volta, sparì misteriosamente. Il regista Henry Bromell sta per girare un film su quel buco di 48 ore, ipotizzando una fuga con una veterinaria.
«Non andò così: fu arrestato. Lo fermarono, di notte, mentre camminava a piedi, senza documenti. Parve sospetto e nessuno ancora lo conosceva. Poi lui stesso alimentò parecchie leggende. Era un burlone».

Ai tre successivi Oscar mandò la moglie Giulietta Masina. Perché per il quinto cambiò idea?
«Erano anni che volevano darglielo, ma lui diceva che era iettatorio. Nel 1993, si era in piena Tangentopoli, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro chiamò Giulietta e le disse che se suo marito accettava, per qualche giorno nel mondo si sarebbe parlato dell’Italia non per la corruzione, ma per Fellini».

Altre esperienze al limite dell’ordinario?
«Negli Anni 60, col suo psicanalista aveva provato la mescalina. Fu così che nacque Satyricon. Mi diceva: “Se ti capita di vederlo sotto qualche sostanza, capirai”».

Quante volte provò la mescalina?
«Smise alla seconda, quando fu fermato mentre stava per uscire da una finestra al quarto piano».

Diceva che della biblioteca esoterica di Fellini ha letto un solo libro. Quale?
«Uno sui Dialoghi di Seth. Conversazioni medianiche con uno spirito superiore. Federico ne era turbato. Mi disse: “Leggilo, vedrai che avverti una presenza come un pulviscolo, un odore che ti offusca”».

E lei che ha avvertito?
«Io niente».

Cos’è il legnetto di ciliegio che conserva coi libri di Fellini?
«Mi disse: “Tienilo: è una bacchetta magica, ma io la uso come segnalibro”».

Intervista di Candida Morvillo per Il Corriere della Sera- 2012

I disegni che illustrano l’articolo sono di Federico Fellini.

FACCIO MUSICA, SONO BELLINO…

FACCIO MUSICA, SONO BELLINO…

A un anno dalla scomparsa di Ezio Bosso, esce per Piemme Faccio musica, scritti e pensieri sparsi, raccolta di parole con cui il musicista racconta se stesso. Qui alcune anticipazioni

C’è un vecchio detto degli afro-americani: «Non puoi controllare quello che gli altri dicono di te. Ma devi sempre assicurarti che scrivano almeno correttamente il tuo nome». E anche se spesso il mio nome viene scritto male – Enzo, Enzio, Ezzio –, penso sia un concetto bellissimo. Non è facile, ve lo assicuro. Perché quello che sto facendo porta anche ricordi dolorosi, perché è difficile scegliere cosa è essenziale e cosa no, quando sei consapevole che lo è tutto, soprattutto il respirare. E poi perché io scrivo davvero male. Ma di una cosa sono sicuro. Ciò che ho fatto, ciò che ho raggiunto e ottenuto, esiste grazie al famoso concetto dell’«essermelo guadagnato» in ogni piccolo passo e dall’indiscutibile fatto di essere un essere fortunato, anche se chi vede le ruote o il mio corpo tende per pregiudizio a non pensarlo.

E soprattutto dall’esigenza della musica nella mia vita. Dall’avere desiderato la musica da sempre, e forse oggi azzarderei anche di essere evidentemente stato desiderato da essa da sempre. La mia famiglia non era abbiente e sono nato in un quartiere della Torino operaia degli anni Settanta. Questa è la chiave per entrare in una parte di cosa ha definito la mia carriera, perché vi chiederete? Perché la mentalità di un operaio, specialmente del Nord Italia, nei confronti dei suoi figli era solo quella di riuscire a dargli un futuro un poco migliore del suo, a farlo studiare.

La musica rende belli

Qui vorrei dire che la musica ci rende belli. Io per esempio sono bruttino, ma quando dirigo sembro bellino. E mi sento anche bellino, supero i complessi estetici del mio stato, come dico sempre, trascendo me stesso anche esteticamente. E sono giunto alla conclusione che se un direttore è bello quando dirige abilmente è anche bravo e da ascoltare, perché in quella bellezza ottenuta all’abbandono alla musica, alla trascendenza del sé, c’è già un sintomo di approccio corretto.

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La malattia non migliora nessuno

È come un fiume carsico, per un po’ scompare, ti sembra scomparso, poi riaffiora e spesso non dai nemici, ma proprio dagli amici, anche quelli che nel fondo lo sai che ti vogliono bene. Fa rabbia. Mi fa rabbia. Razionalizzo, mi dico che se per secoli per essere più buoni, ci siamo messi il cilicio, ci siamo fustigati, abbiamo digiunato, rinunciato alle cose belle della vita, allora è impossibile estirpare questa idea che il dolore redima, migliori, ci renda esseri superiori, come se la vita, che tanto veneriamo, in sé fosse peccato. E chi sono io per negare una convinzione radicata nei millenni, per dire che gli stiliti non erano migliori solo perché emaciati. Che il dolore innervosisce, e nessuno è più buono se soffre. Anzi. Il dolore, come la paura, non migliora nessuno, di certo non me; questo equivoco ricorrente, che mi insegue strisciante, detto e non detto, a volte secondo me manco si accorgono che lo dicono, gli scappa proprio con la disinvoltura d’abitudine di un «ciao». Per alcuni nemici poi il dolore sembra un privilegio: ha successo perché soffre. Bestialità. Svilimento di ciò che faccio. Nessun rispetto, per se stessi in primis. Ma poi, anche lì, chiunque non stia bene si espone, lo dice, comunicati stampa di gente, di «artisti» che parlano di malattia invece che di ciò che fanno. La lista è lunga. Ci marciano. E allora perché io dovrei essere diverso da quelli. C’è una logica. Pessima. Ma pur sempre logica.

EZIO BOSSO, direttore d’orchestra e compositore, è scomparso nel 2020 per una malattia neurodegenerativa

BRUCK

BRUCK

Edith Bruck, lei oggi compie 90 anni. Il suo libro Il pane perduto (La Nave di Teseo) corre per il premio Strega, giovedì 29 aprile il presidente Sergio Mattarella l’ha ricevuta al Quirinale per nominarla Cavaliere di Gran Croce, papa Francesco è venuto il 20 febbraio a trovarla a casa.

Un momento straordinario della sua vita di intellettuale ebrea, sopravvissuta alla Shoah

«Sì, tutti avvenimenti bellissimi. Sono contenta. Se fosse accaduto vent’ anni fa sarebbe stato diverso. Oggi mi sembra una specie di conclusione, di fine. Ho una maculopatia progressiva, vedo sempre meno: però, non so come, riesco a scrivere. Ma sono qui, e certo non mi lamento».

Lei si chiede nel libro se i riconoscimenti siano più alla sopravvissuta a diversi campi di concentramento (Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen) o più alla scrittrice. Ha una risposta?

«Sono spesso indicata come una sopravvissuta, forse anche per la mia decisione di testimoniare. Ma sono una scrittrice, un’autrice di poesie.

Edith Bruck con lo scrittore Achille Campanile agli inizi degli anni 70

Io non parlo solo di me stessa, nei libri: ma del mondo, dei giovani e del loro domani, dell’umanità. Ieri la persecuzione è toccata a me con il nazismo, oggi può toccare a te, domani ad altri. Per questo scrivo.

Non bisogna mai tacere per esempio oggi contro il razzismo, l’intolleranza, l’aggressività, l’indifferenza, anche la volgarità. Vedo raduni di fascisti, incredibilmente tollerati. È una nube nera che avanza, molto preoccupante».

Cosa la preoccupa?

«Io ho novant’ anni e certe volte sono stanca di girare… Ma per esempio giorni fa alcuni professori di una scuola romana mi hanno detto: signora per favore venga a raccontare, qui certi ragazzi cantano inni fascisti, non sappiamo più come fare.

Come si fa a tirarsi indietro? Sono piena di lettere di giovani che mi ringraziano dopo le mie visite nelle scuole. I ragazzi supplicano di sapere e di capire, molto più di quanto pensiamo».

Il pane perduto del titolo è quello che stava lievitando prima che la sua famiglia fosse strappata, nella primavera del 1944, dal villaggio ungherese di Tiszakarád al ghetto di Sátoraljaújhely, prima tappa della deportazione verso Auschwitz. Lei, la piccola Edith Steinschreiber, aveva solo 13 anni.

«Mia madre non smise mai di piangere per quel pane, nel suo pianto era confluito il terrore, il dolore, la consapevolezza della fine del nostro mondo. In quei giorni, soprattutto sul treno verso Auschwitz, noi figli di colpo diventammo adulti e i nostri genitori vecchi».

Lei avrebbe poi perso madre, padre e un fratello nei campi nazisti. Il libro è denso di ricordi strazianti. C’è anche il suicidio della sua amica Eva, morta fulminata dalla corrente del filo spinato. Lei pensò mai al suicidio, in quei campi?

«Ricordo il corpo di Eva, appeso a braccia aperte, come un Cristo sulla croce… No, mai pensato al suicidio. Troppo forte il mio attaccamento alla vita. Ho superato anche una delle ultime prove a Bergen Belsen quando dovemmo “ripulire” come ci dissero, il campo dai cadaveri degli uomini morti.

Si formavano le piramidi umane sotto la tenda della morte. Uno di loro era ancora vivo, mi disse: “Racconta, non ci crederanno, racconta, se sopravvivi, anche per noi”. Così ho fatto».

Una stessa pagina del libro ha colpito sia il Papa che il capo dello Stato. A Dachau un soldato le gettò addosso una gavetta ordinandole di lavarla. Però in fondo aveva lasciato della marmellata…

«L’aveva lasciata per me. Rappresentò una delle luci che mi aiutarono ad andare avanti, a sperare, a sopravvivere. Un significato enorme, ed entrambi lo hanno capito. Il Papa mi ha chiesto di raccontargli quella storia, e anche Mattarella».

Due incontri indimenticabili, c’è da immaginare.

 «Il Papa emanava calore, mi ha detto che approvava la mia lettera finale a Dio. Chissà cosa approvava? I dubbi? Le domande? La ricerca? A Mattarella voglio un gran bene: è un uomo serio, giusto, mi dispiace che finisca il suo mandato».

 Perché ha scelto l’Italia come definitiva Patria?

«È stata l’Italia a scegliere me. Dopo la liberazione, tornai in Ungheria, andò male. Poi la Cecoslovacchia, il tentativo fallito di radicarmi in Israele, quindi la Grecia, la Turchia, la Svizzera… nel 1954 capitai a Napoli in tournée con uno spettacolo dove ero ballerina in una compagnia di esuli.

Il Papa che fa visita a Edith Bruck il 20 febbraio scorso

Progetti a novant’ anni?

Mi sembrò che la città mi dicesse “benvenuta!”. La gente si parlava dalle finestre, i panni stesi, chi cantava Maruzzella . Una vitalità vibrante nell’aria. Poi scoprii Roma: monumentalità, eternità, maestosità. Mi sentii a casa. Lì conobbi mio marito, il poeta e regista Nelo Risi. L’amore della mia vita. Alla fine l’ho assistito per dieci anni, un lungo Alzheimer. È stato il più bel periodo della mia esistenza: far nascere ogni giorno un essere umano, assistendolo».

«A giugno esce un mio libro di poesie, sempre per La Nave di Teseo. Si intitola Tempi . Parlo dell’oggi, dei giovani, della loro educazione: dovrebbero abituarsi subito a dividere ciò che hanno con gli altri, a partire dalle merende a scuola».

Guardandosi indietro, rifarebbe tutto ciò che ha fatto nella vita?

«Tutto. Non rimpiango niente».

Paolo Conti per il “Corriere della Sera”

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