CINQUE MOVIMENTI BREVI E UNA SPERANZA

CINQUE MOVIMENTI BREVI E UNA SPERANZA

Primo movimento

Remoto tempo di memorie

pare te scovare nella solitudine

che giorno seppellisce a giorno

come grano di sabbia,

o rintocco, o stillicidio

in fondo là, segreto.

 Il grido o il singhiozzo forse

o l’atono stupore che l’anima attraversa,

come passo le stanze ora sepolte,

mano al buio incerta, esitante

di riverberi perduti, rimpianto

del sopito richiamo di una palla,

che nel cortile giù rimbalza.

Secondo movimento

Ti guardo nel sonno leggera

Torpore diaccio silenziosa reliquia

Grande conchiglia mormorante

Mentre sui vetri la pioggia disegna

le sue misteriose, evanescenti mappe.

Una voce, una macchina sale

La strada arginale

S’apre il giorno al dubbio.

I ragni invecchiano nelle loro tele.

In mancanza di meglio

Non c’è mano che ti asciughi

Né solitudine che trapassi i giorni.

Ingannevole lo specchio

Che riflette e nega.

Terzo movimento

Poi è tardi.

A mala pena distinto il viso,

dimenticato il nome,

ingiallita foto di antenati,

occasioni perdute.

Poi è tardi.

Il campo è mietuto, neri corvi si aggirano.

Poi è tardi.

Sfilano lontane,

verso terre senza nome, senza confini.

Qualcuna a volte si attarda,

agita le braccia, sorride ti pare,

ma forse è solo l’ombra della sera

rappresa sul ciglio della strada.

Quarto movimento

Chiedi alla polvere, all’albero chiedi,

al muro sbrecciato, alla lucertola.

Chiedi alla carovana paziente,

alle api turbolenti,

ai pozzi infiniti,

chiedi.

 Non chiedere ai fondi di caffè

alle astrali inclinazioni

al tuo cuore non chiedere.

All’eco che non ritorna,

allo specchio senza immagine,

alla mano che non incontra,

a questi devi chiedere.

Quinto movimento

In fondo già t’avviti

e perdi luce e sguardo

esci di scena, senza più battute

mentre l’orizzonte già si disfa

nella fresca notte stellata.

Che dici? È un bisbiglio un richiamo

o forse la parola che non dici

voce notturna che si perde

ma che pure vorrei sentire

come mano cocente che ti guida

dove festa è finita, se mai vi è stata.

Le tristezze dell’infanzia sono senza conforto.

Una speranza

Se dal dubbio nasceranno foglie

e dal silenzio parole

se lo specchio non rifletterà sé stesso

e la morte fra le solitudini umane

non stenderà il suo manto.

Allora

cesserà l’assenza che corrode.

Allora

ciò che è stato e ciò che sarà

invecchieranno sui vocabolari

come il mio o il tuo.

Allora

i baci migliori saranno quelli senza perché

Mi domanda: chi sarai quando a notte

sarai giunto in fondo alla strada?

Nulla da aggiungere

tutto e giusto e perfetto

aiutatemi a finire i lavori

CREMONINI, LET THEM TALK

CREMONINI, LET THEM TALK

CIO’CHE LE CANZONI NON DICONO-Viene prima la musica o la vita? Cesare Cremonini ha ricucito le due parti in un libro pieno di domande. Per anni è stato l’icona della giovinezza, ora ci racconta com’è essere adulti, ma senza orologio al polso

Cesare Cremonini ha scritto un libro sulle sue canzoni, sulla sua vita, sul fatto che la sua vita coincide con le sue canzoni, sul fatto che suonare per lui è praticamente tutto, e sulla domanda che tutto questo pone: viene prima la musica o la vita? Il libro si chiama “Let them talk” (Mondadori), come il primo e unico disco di Hugh Laurie, l’attore che per tutti è il Dottor House, come Anthony Hopkins è il dottor Lecter, come Bela Lugosi è Dracula: nessuno di loro ha avuto scampo dal talento.

Let them talk, lasciali parlare, ha detto a Cremonini il suo psichiatra, l’ultima volta che ci è andato, quando gli ha raccontato che ogni tanto sente ancora chiacchierare i suoi mostri, anche se non li vede più, e però non saprebbe dire cosa dicono. Vengono prima i mostri o le canzoni? Le canzoni tirano fuori i mostri o i mostri tirano fuori le canzoni o entrambe le cose? Come si fa a scoprirlo? Si può? Serve? Quarant’anni di uno che tutti sanno chi è da quando ne aveva diciotto e non una risposta: soltanto domande. Diavolo rosso d’un Cremonini, dimentica la strada.

In “Mia sorella la vita”, Boris Pasternak scrisse: “Ma noi morremo con l’oppressione della ricerca nel cuore” e, subito dopo, “Com’è soporifera la vita! Come sono insonni le scoperte!”.

Cesare Cremonini

“Pasternak, ma lei quando dorme?”, scrisse Marina Cvetaeva, che lesse quelle poesie per giorni portandole con sé ovunque come una borsa, in un breve saggio che venne pubblicato con il titolo “Un acquazzone di luce”, e che per lei fu il solo modo per “tentare una via d’uscita e non finire soffocati”, dal momento che leggere quelle poesie le tolse il respiro e la rapì, invase, infettò, coinvolse completamente. Da allora, Cvetaeva e Pasternak presero a scriversi per anni, dal 1922 al 1935, amandosi pazzamente, senza mai incontrarsi, toccarsi, guardarsi in faccia – “non potrei mai vivere con lui, lo amo troppo”, confidò lei a una sua amica.

E’ una storia splendida e terribile, che a noi sembra inumana e aliena, esagerata, forse persino ridicola. Arriva da un tempo lontano, che fatichiamo a capire perché si viveva immersi e concentrati, mentre noi viviamo distratti e scissi; noi andiamo in vacanza, ci ristoriamo, ci dedichiamo a noi stessi facendoci massaggiare da qualcuno bravo abbastanza da farci dimenticare come ci chiamiamo, così da poter tornare, rigenerati e ribaldi, alla realtà. Le vite degli scrittori e degli artisti che hanno dedicato tutto a quella ricerca che opprimeva il cuore di Pasternak ci sembrano romantiche, dannate, sregolate, forse anche sprecate e insalubri. Ci commuove che Kobe Bryant abbia dedicato tutta la sua vita al basket e sia morto insieme a sua figlia Gianna, alla quale stava insegnando a giocare, e che una volta aveva detto ai tifosi che sarebbe stata la sua erede. Ci piace l’epica sportiva quando ci racconta dedizioni e sacrifici assoluti, mentre fatichiamo a prendere sul serio un poeta che viva per scrivere un verso perfetto, a immaginare un cantante che ogni giorno, per due anni, dalle sei del mattino alle tre di notte, si chiuda in uno studio di registrazione mangiando due pizze a pranzo e una a cena per incidere canzoni pop. “Possibili scenari”, il suo sesto disco con dentro quella che considera la sua canzone più importante, “Nessuno vuole essere Robin”, Cesare Cremonini lo ha scritto così, recluso, ciccione, ossessionato e isolato. Era il 2015, aveva da poco pubblicato un disco perfetto, divertente, elegante, con dentro quella “GreyGoose” che avevamo cantato per mesi a chi amavamo e a chi odiavamo, ai mariti e agli sconosciuti, alle mogli e alle mamme degli altri, alle sveglie, ai capi – Chi sei? Amore, buongiorno, quando ti levi di torno non vedo l’ora che esci e non torni più, il mio amore sei tu.

La perfezione di quel disco, però, non gli bastava. Non era la fine del libro, ma il capitolo centrale. Non era l’ultimo episodio della serie dal quale far partire decine di altri spin off. E così decise di fare il suo “Pet Sound”, qualcosa di pop e inedito ed esemplare, almeno per lui. “Volevo fare un disco influente”, disse a Panorama. E lo fece. Ci aveva lavorato come Brian Wilson lavorò a “Pet Sound”: solo, da pazzi, forse un po’ pazzo. Lontano dagli altri, immune dalle loro pretese e attese. Dagli algoritmi, da quello che funziona come il tempo in un orologio: incalzando lo stesso giro.

Le canzoni hanno una vita sempre più breve e una gestazione sempre meno indipendente: eppure, quel disco fatto di canzoni scritte pensando a un album e non a Spotify, funzionò perfettamente. E dura, continua a durare: suona.

Nel capitolo dedicato a “Nessuno vuole essere Robin”, Cremonini scrive: “Vivere significa ritornare. E per tornare bisogna camminare. L’uomo è l’animale che ci mette di più a rizzarsi in piedi e a staccarsi dalle sottane. Poi, una volta imparato a camminare per bene, scappa, e dopo ci mette una vita per tornare dalla madre e dal padre. Se si ferma, il mostro lo fa fuori. I più sensibili, i predestinati, son bambini malati di nostalgia. Il problema è che se la nostalgia, restando chiusa troppo a lungo, diventa schizofrenia, allora il dolore mentale può essere infinito”. E’ uno dei punti centrali di questo lavoro, e delle ragioni da cui nasce. Non si tratta di un album narrativo, né di una ricostruzione biografica, dello svelamento di quanto c’è di Cesare nelle sue canzoni. Se un racconto c’è è quello di cosa significa arrendersi a essere strumento di un’ossessione, di un talento. “Ho maturato nel corso del tempo la consapevolezza che la mia carriera coincide con la vita al punto che a quarant’anni dovevo cucirle insieme. La mia produzione discografica e musicale è diventata abbastanza ampia da potersi disperdere, per questo ho deciso di attaccarle addosso la vita. Ho osservato a lungo e con attenzione quello che hanno fatto i miei colleghi e ho capito che era mio dovere scegliere se separare o meno le due cose. Nella mia vita, la carriera ha avuto un peso superiore a tutto il resto: se non avessi messo insieme i pezzi attraverso le canzoni e la narrazione musicale delle canzoni, avrei perso presto la possibilità di fare questo mestiere con la stessa intensità”, dice al Foglio. Con questo libro, Cremonini tenta di immunizzarsi dal pericolo di separazione delle carriere, che per lui significherebbe amputazione di un arto, forse due; dal rischio di dividere il fare il musicista dall’esserlo e ritrovarsi poi a dover scegliere una delle due cose. La nota in esergo è una frase incisa sull’anello che il Conte Fersen, suo amante amatissimo, donò a Maria Antonietta. Questa: “Ogni cosa a te mi conduce”. Tutto, nella vita di Cremonini, è musica. I sogni, le ambizioni, l’infanzia, i ricordi, gli amici, le feste, il cibo, i feticci – ogni tanto dorme con una Gibson; al mattino dice ciao al suo pianoforte, che è per metà suo e per metà di suo fratello: un Blüthner del 1935 che sua madre comprò negli anni Ottanta. La sola cosa che non ha a che fare con la musica, e che ad essa non lo conduce è uno stiratore verticale che ha comprato qualche settimana fa, e di cui va orgoglioso come l’avesse inventato lui, avendolo cercato lui, scelto lui. “E poi quando proprio devo liberare la testa, cammino. Faccio sforzi fisici importanti. Faccio sport estremi. Corro in macchina nei rally. E’ fondamentale che ogni cellula del mio corpo sia sottoposta a un enorme stress che mi trascini via”. Ha raccontato ad Aldo Cazzullo, in un’intervista con un titolo enorme – “Così ho combattuto il mostro che abitava dentro di me” –, che la prima volta che è finito da uno psichiatra è stato per caso, perché accompagnava qualcuno, come certe volte raccontano gli attori dei provini che hanno stravolto e deciso le loro vite: erano lì per caso, per il destino di altri. Cremonini aveva finito col parlare con un medico, gli aveva raccontato che ogni tanto aveva un peso sul petto, e vedeva qualcosa che lo tormentava, che stava dentro e fuori di lui, come uno spettro, e che ogni tanto lo vedeva persino, e che aveva cominciato a fargli visita dopo quei due anni passati in studio a scrivere il suo album discontinuo.

“Quello che mi è accaduto ha origini lontane ed è importante parlarne per richiamare l’attenzione su un tema che purtroppo in Italia è ancora troppo trasparente. Nel silenzio e nell’indifferenza molte famiglie affrontano drammi inenarrabili, spesso in solitudine, perché ancora oggi le patologie della mente sono un enorme tabù. Anche i medici, a causa dello stress fortissimo di questi mesi, sono diventati una categoria a forte rischio. Per questo sono in contatto con strutture di Bologna e di Milano. Vorrei rendermi disponibile e fare qualcosa di concreto per chi ogni giorno lotta, per dare più forza alla speranza”.

Il primo a leggere questo libro è stato un cardiologo del Sant’Orsola di Bologna, uno che faceva il barista e leggeva le poesie ai suoi clienti, finché un altro medico lo convinse a laurearsi e diventare chi è oggi. “Un dottore tardivo, una persona per me importantissima”. Gli altri amici lo hanno letto? “Quelli che lo hanno fatto, mi hanno detto che sto aprendomi a un periodo nuovo, con garbo. Per anni sono stato ossessionato dalla discrezione, e ho fatto parlare per me soltanto le canzoni, ma poi mi sono accorto che potevo fare altro, potevo dare al calendario che per me rappresentano, anche una cornice. Quando l’ho capito, mi sono reso conto che più che un libro di formazione, volevo scriverne uno di deformazione: avevo bisogno di decostruire paradossi, esagerazioni, grandi entusiasmi in modo da frazionarli e sentirne meno il peso e la consistenza. Ho iniziato a scrivere canzoni da ragazzino, e non ho mai smesso di avere la sensazione di dover chiedere a qualcuno se quello che facevo andasse bene. Sono un perfezionista maniaco del controllo, probabilmente inguaribile. Jovanotti una volta mi ha detto: devi essere uno che passa 14 ore su un rullante. E sì, lo sono, ce le passo, tutte e quattordici”. Ha avuto genitori molto severi ed esigenti. “Non si diventa disubbidienti senza le privazioni. Per questo sono in fuga perenne da quando sono piccolo”. E’ diventato famoso con una canzone che parla di ali sotto ai piedi, fughe in vespa sui colli di Bologna, vento, vacanza. Ha scritto nel suo libro che “Se Giacomo Leopardi avesse avuto una Vespa, ‘L’infinito’ non sarebbe stato meno bello”, e pure che la vita degli uomini è sempre nel movimento, e che spesso quel movimento non è evoluzione, ma fuga dai problemi: a differenza degli alberi, che i guai devono risolverseli restando immobili, con i mezzi che hanno, noi possiamo scansarli, spesso illudendoci che siamo andati ad aggiustare tutto da un’altra parte.

“Io immobile non posso dire di esserlo stato, perché la mia vita mi ha portato a girare moltissimo. Non so se sia stato un bene o un male, ma so che dalla vespa e dai ricordi bisogna saper scendere e rimanere fermi. Per questo dico che il mio è un libro di deformazione”. C’è una cosa che non smetterà mai di fare, a parte la musica? “Rigirarmi nel letto: non c’è alcun dubbio su questo”. Ma non era insonne? “Impreciso. Io dormo poco, non è che non riesco a dormire. Ho sempre scambiato il giorno con la notte, e nel mio personale musical nel quale ogni tanto sogno di vivere, ballo sotto la pioggia con Fred Astaire. E io sono Gene Kelly. La contraddizione che vivono tutti gli artisti è questa: sentirsi la stella più luminosa del cielo e, appena fa giorno, scoprirsi fiammifero”. Che brutto incubo. “Mai brutto quanto il tempo che passa: mia preoccupazione perenne che però ho attenuato evitando di avere orologi in casa e ai polsi”. Ma ci sono i telefoni! “Basta non guardarli”. Che frase da anziano. Ma giovane, lei, proprio lei che per una generazione è stato l’icona della giovinezza, lo è stato mai? “Sì, ma per poco. Prima del mio primo disco, quindi prima dei miei diciotto anni. Ricordo che a ventitré anni parlavo con i miei coetanei ed erano tutti o smarriti o entusiasti. Io ero già oberato dal peso del lavoro, dall’onere dell’immagine pubblica, ero dentro uno scontro adulto con la realtà, non ero più libero di sbagliare da un pezzo”. E adesso è più libero di sbagliare? Può permettersi di fare un disco pop che sene freghi delle regole pop, può permettersi di cambiare look, di dire male qualcosa senza risentirne? “Non commettere errori non è umano, ma è vero che il contesto nel quale lavoro mi chiede ogni giorno di farlo il meno possibile. Se potessi chiedere a tutti un regalo per Natale, vorrei questo: smettiamola di rimproverarci”. E lei, la smette mai di rimproverarsi? “Questo è più complesso”. Una volta ha scritto su Instagram che affronta i fallimenti cercando un colpevole. “Ma ci avevo messo vicino una faccina che rideva”. E’ lei il colpevole? Guardi che io mi fido di lei, per via di quella canzone che fa “Fidati di me, non sono un latin lover”. “Ed è vera, quella canzone. Come tutte. Lasciamole parlare”. Mi dice se piange? I latin lover non lo fanno o, se lo fanno, recitano.

Simonetta Sciandivasci

“Non è facile vedermi piangere, ormai vivo dentro un’armatura. Piuttosto so commuovermi. Lo faccio davanti a cose ultraterrene oppure banalissime. La voce di Lennon in ‘Mind Games’. Quando cadono le fotografie di famiglia, al solo gesto di raccoglierle. Il documentario di Kusturica su Maradona mi ha stretto la gola per la terza volta. ‘Lettera a un bambino mai nato’ di Oriana Fallaci. Poco tempo fa mi sono venuti gli occhi lucidi guardando ‘Quattro ristoranti’. Sarà il momento”. E’ saggio, sa? “Me lo dice sempre anche Daniela, la mia parrucchiera”

Articolo di Simonetta Sciandivasci per il Foglio Quotidiano

LA GRANDE PORCHETTA

LA GRANDE PORCHETTA

Un giorno d’estate i romani e i turisti della Grande Bellezza scoprirono che in una famosa piazza di Trastevere era stata eretta una statua alla porchetta. Un maiale di travertino scolpito sopra un piedistallo, già insaccato e pronto per l’uso. L’opera, uscita dai cantieri creativi della Rome University Fine Arts, (dove «fine» forse non è la parola chiave, e neanche «arts»), intendeva celebrare il cibo di strada e perciò aveva goduto di un solerte finanziamento pubblico. Gli animalisti furono i primi a sollevarsi, sostenendo che l’arte non poteva urtare la sensibilità dei vegetariani e tantomeno quella dei vegani. Poi arrivò la Lav e non si limitò a chiedere l’immediato abbattimento della porchetta, ma pretese la sua sostituzione con «un monumento dedicato all’olocausto animale». Un macellaio inginocchiato sarebbe stato l’ideale.

Non è facile essere artisti, oggidì, e mica solo di porchette. Se durante il Rinascimento si cercava l’universale in ogni individuo, nella nuova fase storica del Rincrescimento ogni sensibilità individuale si arroga il diritto di porre il veto sull’universo intero. Rimane il fatto che la statua della porchetta ha disturbato più in quanto carnivora, e meno perché sembra uscita da un catalogo di arredamento dei Casamonica. Ormai ci si indigna per tutto, tranne che per il cattivo gusto. Ma se la bruttezza è l’unica cosa che non offende più nessuno, gli amanti del bello esistono ancora?

Il Caffè – Massimo Gramellini, Corriere della Sera

LE INCOMPRESE

LE INCOMPRESE

Nell’essere madre c’è la solitudine, la guerra, la ribellione. Il rapporto con i figli e un ruolo che cambia. Da “Maternal” a Kazuo Ishiguro

Torno spesso a un racconto ferrarese di Giorgio Bassani. Lida Mantovani è una ragazza madre, una giovane ingenua che si è fatta ingannare da quello che avrebbe dovuto essere il suo grande amore. E’ un racconto immenso nel perimetro di un sottoscala. Al centro di questo racconto ci sono due donne: Lida e sua madre che prima di lei ha avuto la stessa sorte. Nel condividere l’abbandono e la solitudine di madri per caso sono diventate amiche, complici; si spartiscono la malinconia come un pezzo di pane.

Gaia Manzini, autrice dell’articolo

Ireneo, il bambino nella culla, e loro due a lavorare insieme, a cucire i panni di altri nel loro piccolo appartamento; sospirano all’unisono, ma non parlano mai dell’accaduto. Ogni tanto la madre tenta un riferimento, poi lo lascia cadere nel vuoto; s’incanta a osservare la figlia, la scruta, dice Bassani, e quello sguardo sembra un abbraccio di due compagne di sventura. D’un tratto la madre la prende per le spalle, la fa alzare e la trascina davanti allo specchio. Le dice di guardare come sono diventate uguali; sottolinea una somiglianza fisica che rivela molto altro. Tra loro due che lavorano all’unisono come una piccola melodia ci sono solo sguardi d’intesa per chi debba andare ad aprire la porta. Ciascuna per sé fantastica sulle infinite cose della propria vita che potevano essere e non sono state. Parla, Bassani, del destino che ci si trasmette come un’identità; parla della solitudine delle madri al di sotto dello sguardo di chi passa per strada.

“Young Mother Sewing” è un dipinto del 1900 di Mary Cassatt. E’ conservato al Metropolitan Museum of Art (Wikipedia)

Ho pensato a Lida Mantovani mentre guardavo Maternal, il nuovo film di Maura Delpero premiato con la Menzione Speciale al Festival di Locarno 2019 e ora finalmente nelle sale. Maternal è ambientato nell’Hogar, un centro religioso italoargentino per ragazze madri, un luogo paradossale in cui la maternità precoce di giovani madri adolescenti convive con il voto di castità delle suore che le hanno accolte, tra regole rigide e amore cristiano.

Sono tutte donne in questo film: le suore nei loro abiti bianchi, figure quasi interscambiabili, e poi le ragazze, con vestiti rimediati e succinti, i capelli tinti, le unghie colorate, i rossetti, le scarpe col tacco, ma tutte bambine – come Lu e Fati –, con i loro figli avuti per caso, messi al mondo perché è capitato, perché doveva andare così, non si poteva prevenire in nessun modo. Solo donne, sottratte allo sguardo e al rumore del mondo. Come nel racconto di Bassani, c’è un dentro e c’è un fuori. Il dentro che riguarda il femminile e il materno e un fuori evocato solo per come si raffronta a questo femminile. Anche Lu, il corpo sensuale ma troppo magro, i capelli decolorati, il trucco eccessivo, ha una bambina. Lu si preoccupa di non potersi fare la ceretta alle gambe e all’inguine, e chiede a sua figlia di rubare i rotoli di scotch dal deposito del convento: basta applicare le striscioline sulla gamba e tirare con uno strappo netto per avere gambe (quasi) perfette. Ci si mette tantissimo tempo, ma non importa: loro di tempo ne hanno un’infinità. Si depila, si tinge, si trucca Lu, perché non ne vuole sapere di stare in convento. La vita la chiama. Vuole uscire, vuole fare l’amore con un uomo che conosce e che ama, che la riempie di promesse e di botte, che se ne infischia di lei. Ma Lu vive solo dentro ai suoi occhi, acquattata nel desiderio che lui mostra nei suoi confronti, anche se dura poco, anche se in fondo sa che non le servirà a cambiare vita, ma ci spera sempre, si inganna sempre, di continuo; perché ingannarsi di continuo è un modo per continuare a vivere. Lu è come la balorda e sbandata Mara di Caro Michele, il romanzo Natalia Ginzburg; la ragazza che dice di essere incinta del protagonista, anche se non è sicura, e in questa sua insicurezza c’è la levità di chi si fa ingannare dal mondo. Mara è la ragazza senza dimora né lavoro che si porta dietro il suo bambino da una parte all’altra della penisola, sperando di trovare prima o poi qualcuno che si prenda cura di lei.

E ritrovo questa stessa solitudine delle madri in altri libri di oggi, anche se in modi diversi. La apprezzatissima Guadalupe Nettel ha scritto un libro bello e terribile sulla maternità: La figlia unica.

Guadalupe Nettel

Laura che non vuole figli e si fa chiudere le tube, e poi Alina che invece prova di tutto per rimanere incinta e quando ci riesce, dopo pochi mesi, le danno la più terribile delle notizie: sua figlia non ha sviluppato il cervello in modo completo e dopo la nascita non sopravviverà se non allo stato vegetativo. La maternità si trasforma nel luogo del paradosso: quella stessa donna che aveva tanto desiderato un figlio ora si ritrova a desiderare che non rimanga in vita, perché sarebbe una semi vita, sarebbe durissima e piena di sofferenze. Quella di Nettel non è solo la storia di Laura, Alina e Doris, ma anche la messa in scena dell’antinomia che lega le donne all’idea del materno. Il desiderio di un figlio come imperativo biologico o istinto inalienabile e il desiderio della propria vita nella sua pienezza, della propria autorealizzazione: come se le due cose non si potessero mai incontrare, come se non ci fosse mai concesso di desiderare tutto, ma solo di scegliere e pentirci della nostra scelta.

In Maternal la contrapposizione è tra Lu e suor Paola, la giovane suora che culla e consola i bambini, soprattutto la figlia di Lu quando Lu scompare per inseguire la sua vita. La contrapposizione è il cortocircuito di un mondo chiuso, in cui da un lato c’è la maternità precoce delle ragazze e dall’altro quella assente delle suore. Come a dire quanto il materno sia complesso, pieno di contraddizioni, di allontanamenti e ritorni. Suor Paola con la bambina si toglie il velo, si fa vedere come donna, la stringe a sé durante la notte, devia dal percorso intrapreso, così come deraglia Lu che non dà più notizie di sé. E’ qui che, come tra le righe dei romanzi che mi tornano alla memoria, ogni donna è sola di fronte al materno e alla possibilità di plasmarlo secondo la propria visione del mondo. E questa solitudine, questo ripensare incessantemente al proprio ruolo spesso si trasforma in una guerra tra madre e figlio, tra madre e figlia.

Lalla Romano

Lalla Romano nel 1969 scriveva Le parole tra noi leggere con cui poi vinse il Premio Strega. Un libro poetico, un libro disperato che suona terribile: un’indagine amorosa sull’estraneità che divide lei e suo figlio, così analitica da sembrare l’autopsia di un rapporto. Per tutta la narrazione non chiama quasi mai per nome suo figlio, per tutta la narrazione è soprattutto un “lui”. L’indagine si avvale di tutte le prove: compiti in classe, disegni, poesie, frammenti di diario. Non c’è solo la memoria, ci sono i cassetti, gli armadi di famiglia. Lalla Romano ricompone per strati il proprio figlio. Succhiava il latte con ferocia poi lo rifiutava, scalciava nel ventre, era già in lotta, aveva uno sguardo nero lungo già in fasce; scriveva poesie, era moralista, magro col naso adunco, camminava sbandando tagliandole la strada, era dissacrante; l’unica affinità tra di loro era quel gusto per i fiori, gli stessi. “A cosa ti serve essere intelligente?” gli chiedeva lei. “A farmi compagnia con me stesso” rispondeva. Lalla Romano cerca di leggere suo figlio come si farebbe con un libro, cerca le ragioni della loro incomunicabilità. “Io gli giro intorno: con circospezione, con impazienza, con rabbia”. Il libro in effetti è un accerchiamento. Anche se poi il vero oggetto dell’indagine è la madre: una donna che cerca sé stessa, la propria autenticità, forse la propria colpa. “Suo figlio non esiste, è una sua fantasia” le dice qualcuno, seminando il dubbio sulla parzialità dello sguardo, sulla lente deformante della letteratura. In questa solitudine di madri siamo lì a immaginarci i nostri figli, a volte cancellando gli atti più atroci come fa Carmen Totaro nel suo romanzo appena uscito: Un bacio dietro al ginocchio (Einaudi). Una madre, una figlia la loro incomunicabilità e un inizio verticale, con la madre chiusa in bagno, il gas acceso a simulare un tentativo di suicidio; un figlia fuggita, scomparsa, e la domanda solo sussurrata nel pensiero, il dubbio sulle intenzioni della ragazza; l’indicibile. Perché il rapporto tra madre e figlia è sovente quello di due solitudini che stridono e poi si riavvicinano, in un continuo scambio, una specie di marea che si alza e si abbassa tra amore e odio, rabbia e dedizione, dolcezza e crudeltà come ben sapeva la Francesca Sanvitale di Madre e figlia (1980), ma anche la Carla Cerati di quel libro lucido e bellissimo che è La cattiva figlia (1990).

Carla Cerati

La solitudine è nell’idea stessa di madre, perché idea da farsi e disfarsi di continuo lontano dagli sguardi esterni, dai giudizi, dalla tradizione. Ogni madre lo sa: bisogna riscriversi da capo, e la scrittura si fa nel silenzio, senza confusione intorno.

C’è una scena bellissima in Maternal. Le suore allestiscono una discoteca per le ragazze madri, che hanno bisogno di divertirsi, di scatenarsi, di vivere il dentro con qualche spiraglio del fuori. E così, a ritmo di musica e sotto luci colorate, vediamo queste giovani donne vestite per l’occasione dimenarsi sensuali, sotto lo sguardo dei loro bambini e delle suore ai lati della pista. Non c’è nessun altro, nessun invitato, è come una festa di famiglia. La festa si conclude con la distribuzione delle ostie in forma di patatine. Delpero non solo riflette sulla complessità del materno, ma anche sentirsi donne dentro a una visione totalmente maschilista: donne come oggetto del desiderio. La vita per Lu, e per altre come lei, esiste solo nel momento in cui ci sentiamo desiderate, volute da un uomo: le ragazze modellano i vestiti arrivati con le donazioni sulle proprie misure, e mentre cuciono fantasticano sull’incontro giusto, l’uomo che le porterà via con sé.

Francesca Sanvitale

Racconta l’autrice irlandese Emilie Pine in Appunti per me stessa (Rizzoli), uscito da pochi mesi, della sua giovinezza sbandata, fatta di droghe, feste e amnesia di sé. Racconta di come sia difficile per molte ragazze sottrarsi al desiderio altrui. Il desiderio degli altri è inevitabile e ci si sottomette con un atteggiamento sacrificale, senza accorgersi della parzialità della visione e del fatto che ci sta auto-infliggendo millenni di subordinazione senza neanche saperlo.

Eppure anche un figlio può essere un oggetto del desiderio, certe volte fino all’accanimento, altre semplicemente oltre la propria coerenza, come capita a suor Paola. Diceva Natalia Ginzburg nelle Scarpe rotte – racconto delle Piccole virtù che la ritrae a Roma insieme all’amica Anna Zucconi a lavorare insieme in un appartamento sul progetto di una rivista – di sentirsi diversa dall’amica senza figli. C’è qualcosa che la fa sentire legata indissolubilmente ai propri bambini, è una limitazione della propria libertà, ma anche una salvezza per certi versi. Una madre resiste sempre alla tentazione di “buttare la vita ai cani”, di abbandonare la propria strada e il senso di sé. A differenza di Lu, suor Paola sembra saperlo, come lo sa il piccione nel libro di Guadalupe Nettel, che cova le uova del cuculo ben sapendo che non si tratta di un suo pulcino, ma rispondendo a qualcosa al quale non può sottrarsi.

In molti di questi percorsi la solitudine delle madri e dei figli sembra annullarsi nel momento in cui i figli vengono cresciuti e condivisi come si faceva una volta nelle grandi famiglie. I bambini dell’Hogar che sono bambini di tutti, anche delle suore. Il bambino di Marta in Caro Michele, perché di lui si interessano nelle loro lettere tutti i personaggi di quel libro bellissimo. I bambini di Lazzaro felice, il film di Alice Rohrwacher, nella loro famiglia allargata di contadini, dove quasi non si sa chi sia figlio di chi. La maternità in ogni sua forma, e in un senso più ampio, è il tema di questo secolo. Lo è quando si tratta di un dubbio come per Sheila Heti in Maternità, lo è anche quando Kazuo Ishiguro in Klara e il sole lo mescola ai temi dei corpi artificiali. Il materno è da sempre un tema universale, con la forza che hanno i temi universali di farsi incessantemente particolari. Abbiamo ancora bisogno di parlarne, perché sono le donne a cambiare nel tempo e a ritoccare la propria visione della vita e di loro stesse, a ribellarsi alla propria solitudine urlando quella solitudine, riempiendola di nuovi significati e sfumature. Scrive Anne Enright, la grande scrittrice irlandese: “Ciò che mi interessa non è il dramma di essere un bambino, bensì quello di essere una madre”.

Gaia Manzini per il Foglio Quotidiano

DIO E’ NEI DETTAGLI

DIO E’ NEI DETTAGLI

PEZZI DI CITTA’. Lampioni, vetrine, colonne per affissioni, marciapiedi, targhe, tombini. Non li guardiamo, distratti. Ma sono i dettagli a fare l’identità urbana

Jonathan Borofsky, “The Hammering Man on Aeschenplatz” a Basilea ( Wikipedia)

“O Zarathustra, qui c’è la grande città: qui non hai nulla da cercare e tutto da perdere”. Friedrich Nietzsche “Così parlò Zarathustra”

Chissà se davvero riusciamo a ricordare momenti della nostra vita passata in cui abbiamo trovato tempo e interesse per interrogarci sulle nostre città, quelle in cui viviamo, e quelle degli altri, viste o immaginate. Forse non ci siamo mai posti la domanda principe: cos’è una città?, e che cos’è stata nel tempo e come sarà nel futuro? Quasi sempre ci siamo accontentati di viverla come inquilini passivi cercando di approfittare dei privilegi del vivere urbano ma anche pesantemente subendone le limitazioni, i vincoli, gli obblighi.

Le grandi metropoli contemporanee, in tempi più vicini a noi, mostrano chiaramente di aver tratto ispirazione teorica dalle visioni utopiche delle storiche avanguardie. Non si può non pensare a quella Città del desiderio in cui si incarnava il mito della velocità, del movimento e dell’efficienza. Il modello è la città futurista proposta e resa esplicita nel Manifesto del 1914 di Sant’elia e pubblicato sulla rivista Lacerba il 1 agosto 1914, dove si dice tra l’altro che: “Noi dobbiamo inventare e rifabbricare la città futurista simile ad un immenso cantiere tumultuante, agile, mobile, dinamico in ogni sua parte e la casa futurista simile ad una macchina gigantesca”.

Son parole che fanno eco ed esprimono la stessa forza, lo stesso sentimento delle due opere fondamentali di Umberto Boccioni: “La città che sale” e “La strada entra nella casa”. E’ la visionaria intuizione modernista della Città Nuova con i suoi temi diffusisi presto a livello planetario: movimento, verticalismo, città- macchina, luci sfolgoranti, rumori, efficienza, aggregazione. Di fatto proprio questi si riveleranno gli ingredienti utili ad accantonare o minimizzare il concetto di staticità urbana, il rigido geometrismo, la scontata armonia razionale sempre ricercata – almeno a livello teorico – nel concepire la composizione del tessuto urbano.

A sentire intanto Yvonne Farrell e Shelley Mcnamara, insignite recentemente del Pritzker Prize, parrebbe che quei modelli d’aggregazione che sono poi sostanza della città moderna, possano davvero essere già obsoleti o in netto declino e che ci si stia dirigendo verso la loro rapida dissoluzione fino alla totale scomparsa alla ricerca di un arcipelago di piccole isole abitative tendenti a riecheggiare il modello storico dei quartieri più umani e vivibili.

Intanto, l’avvento repentino e brutale della pandemia planetaria ha deformato armonia e sensibilità di cui si disponeva e ha modificato in modo inatteso la nostra percezione della realtà ponendoci questioni dalle risposte davvero molto incerte.

Chiusura e coprifuoco sono riusciti a rendere quasi spettrale il nostro paesaggio urbano, normalmente fatto di animazione e di vita da vivere, di movimento senza sosta e di colori e rumori eternamente variati.

Sant’Elia, la città futurista

Per questo non pochi di noi hanno provato e patito la sensazione di vivere, come fatto inedito, il vuoto e lo sconforto di strade e piazze percorse al più da rare figure di esploratori urbani intenti forse a gustare il valore e ruolo di oggetti e luoghi del tutto sconosciuti.

La letteratura racconta come proprio la lettura della città, la lenta riscoperta dello spazio urbano, il vagabondare senza scopo per lasciarsi affascinare dagli incontri minimali e inconsueti abbia dato vita a una nuova e rara figura d’intellettuale, un misto di bohème e vagabondo, capace di percorre senza meta o ragione le strade per scrutare con occhi disincantati una realtà da sempre ignorata. Quel personaggio è davvero molto più di un semplice idle man- about- town, un ozioso in giro per la città.

Si tratta invece di un flâneur, uno che passeggia senza scopo per perdersi in strade e piazze a caccia del fascino che incontra tra microarchitetture e oggetti di decoro urbano. A sentire Walter Benjamin, titolatissimo flâneur, si ha l’idea dell’atteggiamento necessario – o indispensabile – per mettersi in marcia con lo spirito più idoneo. “Uscire di casa come si giungesse da un luogo lontano, scoprire il mondo in cui già si vive; cominciare la giornata come se si sbarcasse da una nave proveniente da Singapore e non si fosse mai visto il proprio zerbino ….”.

La città è il tema di un racconto da scrivere, proprio come farà Baudelaire quando dice di “inciampare sulle parole come sui ciottoli”. Quello del flâneur è in fondo un atto d’amore solitario, egli compie un percorso urbano che mai coincide con quello della moltitudine distratta, un gesto totalmente lontano dall’ondeggiare irruento e guidato del turista che s’accontenta in genere del risaputo, del già detto e spesso persino del già visto.

Niente Statue della Libertà, Tour Eiffel, Palazzo di Schönbrunn o Arc de Triomphe, il trionfo di una vita dinamicamente contemplativa, quella di un individuo che “ha qualcosa del dandy e qualcosa del bambino”, un occhio vergine come “un caleidoscopio dotato di coscienza”, l’atteggiamento vigile di qualcuno che inaugura una nuova modalità percettiva, un gesto intellettuale profondo ed intimo.

Molto tribolati da non pochi mesi di forzata reclusione nei propri spazi casalinghi ci siamo adattati a vivere le nostre giornate, luci e ombre, lavoro, studio e svago, scordando, con tutta la tristezza immaginabile, l’animazione delle nostre città che ogni giorno ci apparivano sugli abusati schermi tv di casa quasi simulacri svuotati, privi della vivificante foule, quella folla svanita da strade e piazze, “folla un tempo formicolante di città piene di sogni”.

Sorta di scenario teatrale baudelairiano che, dopo aver per tanto tempo provato a evitare quasi con fastidio, rimpiangevamo ora nel ricordarne l’energia diffusa, la dinamicità e persino l’allegria e la vita.

Costretti a uscire all’aperto in maniera quasi furtiva ci siamo trovati a riscoprire con non poca sorpresa quegli spazi che in genere avevamo vissuto sempre distrattamente, e scoperto con meraviglia elementi quasi ignoti dei quali per consuetudine ci eravamo circondati e serviti. Si può fingere di avere ritrovato una sensibilità sepolta, un interesse più intimo verso quel paesaggio urbano e verso tutte le sue microarchitetture e tutto quanto, con un termine orrendo, viene oggi definito arredo urbano.

Nel forzato vagabondaggio spesso quasi solitario ci si è ritrovati a scoprire una grande quantità di elementi minimali, lo stesso inatteso percorso che ci propone con maestria il bel libro di Vittorio Magnago Lampugnani, “Frammenti Urbani. I piccoli oggetti che raccontano le città”, recentemente edito da Bollati Boringhieri. Con grande competenza d’architetto e storico dell’urbanistica egli ci guida con fascino e con maestria in un viaggio fra panchine, tombini, semafori, paracarri, cestini per rifiuti, targhe stradali, marciapiedi, attraverso un’europa nutrita di una profonda, differente, quanto curiosa microstoria urbana “densa di particolari esuberanti e inattesi”.

Anche la teoria ci può aiutare in questo viaggio che ha – non neghiamolo – del paradossale, ripartendo dalla ben nota – quanto malintesa – affermazione per la quale “Dio è nei dettagli”.

Benjamin Walter

E’ Gustave Flaubert che raccomandava di “far parlare le cose” e che in risposta alla domanda di Maupassant “Dunque Dio è morto?” rispondeva appunto “Dieu est dans les détails”. Aby Warburg, forse l’uo – mo che ha più influenzato in questo Secolo la storia dell’arte, ad Amburgo nel 1925 teorizza che proprio nei dettagli, ornamenti architettonici, microarchitetture cittadine, si magnifica il concetto flaubertiano, aggiungendo maliziosamente che però, allora, che anche il Diavolo è in quei dettagli. A lui si deve l’introduzione e l’uso consueto della frase di Flaubert nella cultura tedesca ( Gott ist im detail). Sarà poi il grande architetto Mies van der Rohe, prototipo assoluto dei moderni archistar, a sintetizzare in due celebri frasi questo concetto tanto affascinante quando radicale. “Less is more”, autentico manifesto del minimalismo a venire e poi – naturalmente – “God is in the details”, ribaltando però il concetto espresso da Flaubert, lasciando intendere che proprio l’assenza di dettagli testimonia la non visibilità di Dio, la perfezione divina starebbe quindi proprio in quello sforzo di occultamento nella loro presenza nascosta. Il metodo adottato da Magnago Lampugnani nell’analisi molto attenta di microarchitetture, oggetti minimali, arredi urbani, racconta insieme alla fisionomia di una città, anche la sua unicità, la sua storia, il suo carattere, la sua vita passata, presente e forse persino futura.

Si tratta in realtà di un metodo analitico che ha molto da fare con quello inaugurato prima di metà Ottocento dallo storico dell’arte Giovanni Morelli per analizzare e attribuire la paternità alle opere d’arte, rifuggendo la consueta fallace e sbrigativa visione d’insieme, per dedicarsi all’analisi dei dettagli da scoprire nei particolari anatomici dei personaggi.

Lobo dell’orecchio, contorno delle palpebre, lunghezza delle falangi, alla ricerca di quei motivi sigla che gli consentiranno ad esempio di attribuire a Giorgione, lungamente studiato, la Giuditta dell’ermitage, la Venere di Dresda o il Ritratto Giustiniani.

Dentro la città troviamo allora “gli alberi con le loro griglie, poi monumenti, fontane, lampioni, orologi, panchine, dehors di bar e ristoranti, ombrelloni, tendoni e verande, targhe delle vie e dei numeri civici, semafori, buche delle lettere, cestini per i rifiuti, bidoni della spazzatura, contenitori per la sabbia, idranti, cassette postali e citofoni con i loro elenchi di nomi, paracarri, insegne pubblicitarie, segnaletica stradale, cartelli informativi, targhe commemorative, stalli per biciclette, muri spartifuoco, colonnine di soccorso, parchimetri, cassette elettriche, telecamere di sorveglianza”.

Camille Pissarro, Montmartre

Una quantità infinita di oggetti progettati e costruiti nelle fogge più strane con intenti che non sempre ( o assai raramente) riescono a mediare valori funzionali con accettabili risultati estetici. Inghiottiti dallo spazio urbano sfuggono al nostro interesse e si perdono nel flusso sempre più caotico delle nostre città, difficilmente trasformandosi in luoghi significativi, memorabili, a meno che non si sappia fare intervenire un nuovo valore simbolico, estetico, quello che soltanto arte, letteratura o cinema possono conferire. E’ proprio Magnago Lampugnani che ci ricorda di come Camille Pissarro abbia saputo dar valore, trasformando in elementi chiave delle sue opere pittoriche, alberi, lampioni, pilastri pubblicitari o le mitiche colonne Morris parte integrante del Boulevard Montmartre o Gustave Caillebotte nel suo “Le Boulevard vu d’en haut” siano “l’al – bero e la sua aiola, la panchina, il marciapiede con il suo cordone, la carreggiata lastricata in pietra”. L’autore cita anche Walter Ruttmann, grande sperimentatore dell’avanguardia cinematografica tedesca, con Hans Richter e il suo mitico “Die Sinfonie der Großstadt” ( Berlino – “Sinfonia di una grande città”, 1927) e di quanto egli dia grande importanza proprio a lampioni, vetrine, colonne per affissioni, marciapiedi, tombini, quasi gli stessi oggetti che Carol Reed userà come elementi drammatici in alcune mitiche scene del film “Il terzo uomo” girato a Vienna nel 1949 con sceneggiatura di Graham Greene e interpretato da Joseph Cotten, Alida Valli, Orson Welles.

Carol Reed, scena de Il terzo uomo

Tra gli innumerevoli frammenti urbani si può dire che il Monumento detenga un ruolo a sé e di tutto rispetto. Dall’originario concetto di testimonianza di una memoria storica, celebrazione di personaggi o eventi, le nostre città hanno ospitato ed ospitano opere di artisti con l’idea di promuovere il concetto di arte diffusa, di opera d’arte in quanto tale, decoro erudito fondamentale per un’acculturazione lontana dagli obbligati spazi museali.

Angosce e sofferenze sono state sostanza dei mesi di lockdown e di certo nessuno – credo – abbia colto l’occasione di vivere e godere letterariamente lo svuotamento delle città. Impossibile ritrovare l’euforia e la gioia solitaria e la cultura del flâneur o le dirompenti teorie e pratiche situazioniste di Guy Debord nei suoi gesti e concetti di dérive e détournement e di quella psicogeografia che aveva fruttuose radici nella flânerie surrealista, libera deambulazione nello spazio urbano, ambienti che gli artisti vivevano come “labirinti del meraviglioso e dello sconosciuto”. Mai sapremo se davvero, nella solitudine e nel vuoto, anche noi come Debord saremmo stati capaci di dichiarare che “la formula per rovesciare il mondo non l’abbiamo trovata nei libri, ma vagabondando”.

Articolo di Ugo Nespolo, il Foglio Quotidiano

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