LA SOFFERENZA DI HOPKINS

LA SOFFERENZA DI HOPKINS

Entrare nella testa di un malato, nei suoi pensieri, nel modo di pensare e reagire cui l’Alzheimer costringe chi ne è ammalato. Non tanto seguire le sue reazioni e i suoi comportamenti ma identificarsi con quello che passa nella sua testa, «vedere» quello che lui vede, «sentire» quello che lui sente. Ecco la scommessa di The Father: offrire allo spettatore una specie di sorprendente «soggettiva» della malattia pur adottando uno stile di narrazione assolutamente tradizionale, lontanissimo per esempio dagli stratagemmi che può offrire l’avanguardia o certo cinema concettuale.

No, sullo schermo tutto si svolge come se la storia fosse filmata dall’oggettività di uno sguardo distante e distaccato ed è per questo che mi sembra inutile quello che la distribuzione italiana ha aggiunto al titolo originale (The Father – Nulla è come sembra) perché se mai ci si facesse caso — cosa che sicuramente non sarà — rischia di svelare ciò che invece deve essere una sorpresa.

All’origine del film c’è una commedia che in Francia aveva avuto grande successo, Le Père di Florian Zeller e che era già stata al centro di una riduzione cinematografica, nel 2015: Florida, l’ultima indimenticabile interpretazione di Jean Rochefort. Raccontava di un ottantenne malato di Alzheimer di cui deve occuparsi la figlia Carole, tra dispetti alle badanti e reazioni sconsiderate (come prendere il genero a martellate perché lo scambia per un ladro). Ma evidentemente la lettura che ne aveva dato il regista Philippe Le Guay (autore anche della sceneggiatura con Jérôme Tonnerre) non deve aver convinto davvero l’autore della pièce che ha deciso di riprendere in mano il suo testo per esordire anche come regista cinematografico.

Il dramma (che era stato portato in scena in 45 nazioni, anche in Italia per la regia di Piero Maccarinelli) sfruttava una progressiva spoliazione della scenografia, dove scena dopo scena i mobili dell’appartamento sparivano, per rendere evidente il progressivo peggioramento della mente e l’avanzare inesorabile dell’Alzheimer.

In questa nuova versione cinematografica Zeller (che firma la sceneggiatura con Christopher Hampton, già traduttore degli adattamenti andati scena a Londra e a Broadway) non ricorre a questo espediente se non alla fine del film, per costringere lo spettatore a misurarsi solo con quello che Anthony Hopkins, il protagonista, fa e dice.

Lo vediamo confrontarsi con la figlia Anne (Olivia Colman), di cui cogliamo l’esasperazione per i comportamenti incontrollati del padre che accusa le badanti di inesistenti furti spingendole al licenziamento oppure la sua incredulità di fronte alla notizia che la figlia vorrebbe rifarsi una vita a Parigi con un nuovo compagno. O ancora quando si inventa un’identità di ballerino di tip tap di fronte all’ennesima ragazza (Imogen Poots) che dovrebbe occuparsi di lui. C’è anche la scena con il genero (Rufus Sewell) che accusa di furto, ma molto più ambigua e insinuante di quella che avevamo visto con Rochefort.

Luigi Ghirri, Colazione sull’erba, Modena 1973

Dopo ognuno di questi incontri — e ce ne sono altri, con una nuova badante (Olivia Williams), con un misterioso visitatore (Mark Gatiss), con l’altra figlia Lucy (Evie Wray) — lo spettatore è portato a chiedersi se quello che ha visto è vero o no perché la regia usa sempre la medesima «oggettività» nel mostrare scene reali o (lo si capisce piano piano) trasfigurate dall’Alzheimer. Ingarbugliando anche i possibili riferimenti temporali così da non lasciare a chi guarda possibili appigli su cui ancorare i fatti.

Ma tutto questo non potrebbe restare in piedi senza un attore capace di reggere le ambizioni di questa messa in scena. Cosa che Anthony Hopkins fa dalla prima all’ultima inquadratura. Guardate come passa dall’ira allo smarrimento, dalla paura al sarcasmo, come sa cambiare intensità ed emozione nella stessa scena, anzi nella stessa inquadratura. Senza mai cedere alla facile tentazione di sovraccaricare troppo la recitazione, per restituire una verità — umana, medica, psicologica — che può solo strappare l’applauso. E che l’Oscar come miglior attore protagonista ha giustamente premiato.

Recensione di Paolo Mereghetti, Corriere della Sera

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