CUBA E’ UNA FINZIONE

CUBA E’ UNA FINZIONE

……. Dietro la protesta si cela anche un linguaggio dei simboli.

Cuba porta il peso dello stigma, come ha detto Slavoj Zizek, (filosofo e psicanalista sloveno ndr) di vivere intrappolata nel sogno degli altri. Se abbiamo imparato l’arte della protesta, adesso bisogna imparare anche l’esercizio della traduzione della protesta.

La sintassi è ideologia, e il linguaggio si trova ascoltando nel profondo i fatti, non girandoci intorno. Si dà un nome alle cose accedendo, entrando, penetrando nella melma delle parole scomode che ci disorientano. Il nominare confonde. Il linguaggio non esiste in funzione nostra, è piuttosto il contrario.

Non possiamo coprirci con le parole come dietro a un velo, la parola è intemperie, e la verità comincia nel momento in cui il linguaggio ti lascia allo scoperto. Il problema con la grammatica che giustifica, anche se parzialmente, ciò che avviene a Cuba è che perpetua la disciplina dell’eufemismo, l’unica disciplina esistente nell’ambito cubano del reale, l’unica che sta dietro alle istituzioni dell’Isola.

Una volta ho letto che il cammino più breve tra due punti di dolore è la poesia. Quando prolunghiamo questo cammino, tra curve e curve, girando in tondo, stiamo uccidendo la poesia e, in questo modo, uccidiamo anche l’uomo. Cuba è una finzione, i cubani no. Chi traffica con le parole, traffica con la vita degli altri.

Ancora non sappiamo dove stiamo andando ma comunque è meglio così, piuttosto che sapere che prima dell’11 luglio non stavamo andando da nessuna parte.

Estratto dell’intervento su La Stampa dello scrittore Carlos Emanuel Álvarez 

UN INSOLITO MEDICO

UN INSOLITO MEDICO

La storia straordinaria di un insolito chirurgo

Che cosa porta una grande casa editrice come Bur a pubblicare, affidandosi a una penna conosciuta del giornalismo italiano, la biografia di un medico cattolico morto 22 anni fa in un incidente stradale? Che cosa spinge migliaia di persone a comprare, leggere, regalare la “storia di un insolito chirurgo” per cui la Chiesa ha introdotto da poco la causa di beatificazione? Per “Ho fatto tutto per essere felice” di Marco Bardazzi ( Bur, 232 pp., 16 euro) si può forse scomodare l’abusata formula di “caso editoriale”: la prima edizione era andata esaurita prima ancora che il libro uscisse, lo scorso 18 maggio. Stampata subito la seconda, a giugno c’è stato bisogno di farne una terza. Adesso viaggia verso la quarta edizione, è primo nello classifica Amazon dei libri sulla professione medica e sesto in quella delle biografie e autobiografie insieme a Giorgia Meloni, Matthew Mcconaughey e Edith Bruck. La vicenda umana e professionale di Enzo Piccinini, medico all’ospedale Sant’orsola di Bologna morto in un tragico incidente stradale nella notte tra il 25 e il 26 maggio 1999, non è il santino polveroso di un uomo pio da agitare come buon esempio, ma la documentazione travolgente del fatto che un cristiano è una persona che vive con intensità ogni circostanza della vita. Nato in una famiglia di origini contadine nella Bassa emiliana nel 1951, Piccinini sfiora a Reggio Emilia l’estremismo di sinistra che sfocerà nelle Brigate Rosse a inizio anni Settanta.

Ezio Piccinini (a dx) con don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione

E’ lì che incontra un gruppo di ragazzi cattolici che lo colpisce per il modo di stare insieme e per la serietà dell’impegno, anche pubblico – “Voglio solo conoscervi”, dice a chi lo guarda male per le sue frequentazioni marxiste, “Tenetemi con voi una volta”. Quel tenetemi con voi diventa una vita, una “febbre di vita”: l’allora futuro medico chirurgo si fa conquistare e inizia a conquistare con il suo temperamento focoso e straripante molti che ne intercettano l’esistenza. Ha un’ossessione, Piccinini, vivere ogni istante più intensamente di quello prima, e sa che “non c’è niente di più anticristiano di chi cerca di mettersi a posto la vita”, e nulla di più pericoloso dell’individualismo e della solitudine. Per questo non fa un passo senza gli amici, la compagnia, con cui giudica ogni aspetto della propria vita, dal lavoro al suo matrimonio, per questo si impegna in università, nella cultura, nello spazio pubblico ( pagandone le conseguenze a livello di carriera), per questo chiede di essere continuamente corretto. Lo fa innanzitutto nel rapporto con don Luigi Giussani, il sacerdote fondatore di Comunione e liberazione che per Enzo diventa un padre. Folgorato dalla lettura di “Corpi e anime”, romanzo di Maxence Van Der Meersch sulla professione medica, Piccinini sarà un chirurgo sui generis, certo che la cura di un malato passa dall’utilizzo delle tecniche scientifiche migliori – e per questo non smetterà di studiare, approfondire, aggiornarsi viaggiando all’estero – e dall’occuparsi dei pazienti in tutta la loro umanità, dal tenere un rapporto con le persone a loro care, al dialogo costante per affrontare la paura del dolore e le domande sul mistero della morte.

Mai da solo, Piccinini ha trasmesso la sua febbre di vita a un popolo di amici e persone che gli volevano bene, a cominciare dai colleghi che hanno cambiato a loro volta il proprio modo di lavorare e trattare i pazienti. Una vita consumata alla ricerca della felicità, certo che questa fosse nel rapporto “carnale” con Dio. Una vita che ha lasciato frutti ben visibili ancora oggi in molte opere. E un invito, semplice ma decisivo: “Mettere il cuore in quel che si fa. Perché il cuore esige un orizzonte che è più grande della voglia e dell’immaginazione dei più. E mettere il cuore in quel che si fa esalta l’io”. Che cosa spinge migliaia di persone a comprare, leggere, regalare la“storia di un insolito chirurgo”, se non l’invidiosa curiosità per una vita spesa per essere felice?

E’ in libreria “Ho fatto tutto per essere felice”, di Marco Bardazzi ( Bur, 232 pp., 16 euro). Grafica di Enrico Cicchetti

Articolo di Pietro Vietti per il Foglio QuotidianoIn copertina un’opera di Tonino Guerra

LA MALATTIA DI JOSEF

LA MALATTIA DI JOSEF

E se “Il Processo” di Kafka altro non fosse che il decorso di una malattia?

L’opera di Kafka, è noto, sollecita e frustra innumerevoli interpretazioni. La sua lingua meticolosa e impassibile è una parete liscia su cui gli strumenti analitici ( psicanalisi, teologia, marxismo) scivolano senza fare presa. Schiacciando su uno stesso piano i più vari livelli della realtà, lo scrittore induce gli studiosi a riarticolarli, e a tradire così l’enigma concreto della sua poesia. Non pretendo quindi di tentare in poche righe l’ennesima interpretazione ( del resto nella critica kafkiana si trova già tutto, come nella biblioteca di Borges), e meno che mai di ridurre quell’opera a una piatta allegoria, o a una lunga similitudine in cui ogni figura sta per un’altra. Vorrei semplicemente offrire il resoconto di una mia rilettura del “Processo”, condizionata forse dall’atmosfera pandemica e da una personale vicenda di paziente. Più mi inoltravo nella storia di Josef K., più mi sembrava di trovarmi davanti al decorso di una malattia. Dopo un risveglio sgradevole, in cui le cose non sono come dovrebbero essere, K. si scopre in arresto. Ma è uno strano arresto.

Comunicata la notizia, le guardie si congedano convinte che il funzionario “vorrà certo andare in banca”. “Come posso andare in banca, se sono in arresto?” ribatte K. stupito. “La cosa non deve impedirle di svolgere la sua professione”, spiega un ispettore, né di mantenere “le sue abitudini”. Non è così che vengono comunicate certe diagnosi? Continui pure la sua vita come prima, finché è possibile… Le udienze somiglieranno allora a controlli periodici: un interrogatorio si può anche evitare, ma nel caso è l’interrogato a perdere l’opportunità di una “visita”. Il cappellano che darà a K. una sorta di estrema unzione oratoria ribadirà che “il tribunale non vuole niente da te. Esso ti accoglie quando vieni e ti lascia andare quando vai”. Il processo non avanza attivamente: semmai si moltiplicano i sintomi di una patologia strisciante, fino al momento imprevedibile in cui, chissà da dove, arriva la sentenza di morte. Negli uffici del tribunale, soffocanti e promiscui come corridoi d’ospedale, la gente aspetta che si ammettano “alcune prove nella sua causa” come aspetterebbe di poter mostrare i referti degli esami. Quando lì dentro K. si sente male vogliono portarlo in infermeria: “il suo corpo voleva forse ribellarsi e preparargli un nuovo processo (…)? Non respinse del tutto il pensiero di andare, alla prima occasione, da un medico”. Un ruolo fondamentale hanno in Kafka i letti, luoghi nei quali la vita pubblica e la vita intima si mischiano proprio come in ospedale: quello del pittore Titorelli, pigiato contro la porta, e quello da cui parla l’avvocato Huld ( gli avvocati sono dei medici- pazienti). Titorelli, che partecipa ai riti ufficiali dell’amministrazione ma conosce le vie ufficiose, sembra una specie di medico “alternativo”. E’ lui a spiegare a K. che “ci sono tre possibilità, cioè l’assoluzione reale, l’assoluzione apparente e la procrastinazione”, e anche che “tutto fa parte del tribunale”. La malattia coincide con la vita: si può al massimo cronicizzare, tenendo il processo “nel suo stadio più basso” e andando “dal giudice competente a intervalli regolari” ( i check- up, appunto). Quanto alla guarigione, è una leggenda. Perciò “un solo boia potrebbe sostituire l’intero tribunale” – ovvero, nella mia lettura “malata”, l’intero reparto dei medici specialisti, con le loro prescrizioni afflittive e contraddittorie e il loro gergo esoterico.

A queste prescrizioni ci si sottopone finché “arrivano momenti di sconforto (…) in cui sembra che abbiano avuto una conclusione felice solo quei processi fino dal principio destinati a un esito felice, come sarebbe avvenuto anche senza aiuti, mentre sono andati persi tutti gli altri, nonostante ogni assistenza”. K. cerca di sfuggire allo sconforto chiedendo aiuto a Leni, la domestica dell’avvocato simile a una “piccola infermiera”. Anche i due uomini che lo portano a braccetto sulla pietra dell’esecuzione si fermano “come infermieri quando il malato vuol riposare”. Così, sotto il loro bisturi, muore un funzionario che a trent’anni, mentre vorrebbe godersi la carriera e le notti di festa, passa il tempo a redigere una minuziosa anamnesi per capire dove si annida il virus della colpa. Ma è una ricerca vana. K. pretende di conoscere razionalmente ciò di cui si può solo avere esperienza; in un certo senso, è un ipocondriaco che vede avverarsi i suoi terrori. Qualche settimana fa, sul Foglio, Marco Archetti ricordava che le opinioni di Kafka sulla sanità erano quelle dei no vax. Aveva una sfiducia profonda nella pretesa dei medici di arrivare a risultati sicuri. In una lettera a Brod scrisse che “c’è una malattia soltanto, non di più, e la medicina insegue quest’unica malattia come un animale attraverso foreste infinite”. In una frase, ecco il riassunto delle trame più tipiche della narrativa kafkiana.

Matteo Marchesini per Il Foglio Quotidiano

LE CORNA

LE CORNA

Lui, lei e Lilja: le ultime corna di Majakovskij che aveva fama di teppista, odiava i pettegolezzi e si innamorava facilmente” L’eccesso di lirismo tradisce la Rivoluzione, le corna, no. Scrive prima di suicidarsi: “io e la vita siamo pari”

L’Istituto Statale del cervello (GIM), nato per studiare, facendolo a fettine, il cervello di Lenin, una settimana dopo la morte per pallottola di Vladimir Majakovskij presenta la sua perizia sull’encefalo del grande poeta comunista. Il referto riporta un peso di 1700 grammi, a fronte dei 1300 di un cervello medio, e una preponderanza della regione parietale. Pochi anni dopo, il neuropatologo Poljakov conduce un’indagine caratteriale di Majakovskij, da cui emergono i seguenti tratti: tendenza all’epilessia; costituzione ansioso-apprensiva; pianto frequente; non mangiava pesci con le spine; amava gli animali; sensibile alla più piccola offesa; terrore dei batteri; terminazioni nervose a nudo; si lavava continuamente le mani; difficoltà o impossibilità di instaurare rapporti profondi con il prossimo; si innamorava facilmente (tratto da Serena Vitale, Il defunto odiava i pettegolezzi , Adelphi).

Dio vi preservi dall’innamorarvi del più grande poeta di Russia!, ci mette in guardia Veronika Polonskaja nelle sue memorie; è come innamorarsi di un uomo sposato con sé stesso.

Veronika fa l’attrice nella compagnia teatrale in cui lavorano suo marito Jansin e Osip e Lilja Brik, amante di Vladimir. La prima volta che lo vede è a una corsa di cavalli, il 13 maggio del 1929, a Mosca. Lui indossa un cappotto bianco, il bastone e un cappello enorme. Osip Brick le fa notare quanto sia ridicolo il suo modo di camminare. Ha un broncio strafottente, le gambe troppo corte per la sua mole, e tiene le braccia attaccate al tronco come chi non è a suo agio. Ha fama di teppista, e di mascalzone con le donne.

Lui le dà appuntamento per la sera stessa all’uscita del teatro: lei lo aspetterà per oltre un’ora. Quando alla fine si presenta, le dice: “Perché cambiate così tanto? Stamane alle corse eravate un mostro, e ora siete talmente bella”. Iniziano a frequentarsi: la invita a casa sua e le declama le sue poesie, che siccome parlano di una donna che dorme in un altro letto in un’altra casa, Veronika si illude parlino di lei. Poi la raccolta esce ed è dedicata a Lilja: Veronika non sa del patto che li lega, in base al quale lui deve dedicarle tutto quello che scriverà fino alla morte. Le sue opere vengono ignorate. Il partito gli rimprovera di badare troppo ai sentimenti privati, di tradire la Rivoluzione con l’eccessivo lirismo. Veronika lo consola e lui la nomina parte della sua famiglia. È ipocondriaco, sigilla le finestre, tocca le maniglie solo con la falda della giacca, regala rose rosse ad altre donne. È soggetto a violenti sbalzi d’umore. È incapace di mentire, anche quando una bugia potrebbe rendere più sereni i loro rapporti. La porta alle sue letture: a Veronika si stringe il cuore a sentirlo declamare: “Mi ama? Non mi ama? Mi spezzo le mani e sparpaglio le dita spezzate” a un pubblico di borghesucci che hanno nostalgia dei versi fluidi di Puškin. Lo vede spiegare loro, con la gentilezza dei collerici quando hanno ragione, che i tempi sono cambiati, e la forma poetica adatta a raccontarli deve essere compulsiva e spezzata. Una volta a casa, furioso, urla i suoi versi: “Che bisogno ho io d’abbeverare col mio splendore il grembo dimagrato della terra?”. Lei piange, lui va da Lilja.

In preda alla gelosia diventa infantile e furente. La obbliga a scrivere i suoi pensieri su un taccuino dove lui scrive i suoi, e sono tutti insulti, frasi offensive e sciocche. Vede nemici dappertutto, si sente bellissimo e brutto, e non vuole che lei veda altre persone. Veronika abortisce e cade in una depressione che le impedisce di avere rapporti fisici: lui non lo accetta, litigano spesso. Un giorno, il 14 aprile del 1930, la chiude nella sua stanza di 11 metri quadri della kommunalka per impedirle di andare alle prove. La implora, urla. Bussano alla porta ed è un garzone che porta – a lui, l’autore del poema Lenin – una raccolta di opere di Lenin. Quando vede chi è quello che sta piangendo inginocchiato per terra, lascia i libri sul divano e scappa.

Vladimir si calma di colpo. Le dà 10 rubli per il taxi e si fa promettere che lo chiamerà all’uscita. Lei fa qualche passo verso il pianerottolo, quando sente uno sparo. Gli inquilini riferiscono che Majakovskij indossava una camicia gialla con una cravatta a farfalla nera. Ha un foro di tre centimetri sopra il capezzolo sinistro, la testa rivolta verso la porta e gli occhi aperti. Ha scritto un biglietto “a tutti”: “Non incolpate nessuno della mia morte e per piacere non fate pettegolezzi. Il defunto li odiava… Lilja, amami. Compagno governo, la mia famiglia è composta da Lilja Brik, mia madre, le mie sorelle, e Veronika Polonskaja… Come si dice – l’incidente è chiuso, la barca dell’amore si è schiantata contro l’esistenza quotidiana. Io e la vita siamo pari”.

Qualcuno comincia a parlare di omicidio politico. Il poeta Nikolaj Aseev riferirà che quando la mattina lui aveva detto a Veronika che non poteva vivere senza di lei, si era sentito rispondere: “E non vivete, allora!”. Un altro compagno dirà che Veronika, appena uscita dalla porta, s’era accesa una sigaretta in attesa dello sparo.

Articolo di Daniela Ranieri per il Fatto Quotidiano

IL GIOCO DEL VACCINO

IL GIOCO DEL VACCINO

UNA ZUFFA CON TROPPE REGOLE MA SENZA BUON SENSO- SUPERATA LA PAURA DEL COVID SIAMO ENTRATI IN UN SALISCENDI DELLA VITA SOCIALE DOMINATA DA IGNORANZA ED EGOISMI, CUI ALLA FINE CI ARRENDEREMO. ALLORA IL VIRUS CI AVRA’ VERAMENTE FATTI DIVERSI, O MEGLIO PEGGIORI. COSI’ LA PENSA GEPPETTO.

Ecco, ci siamo. Iniziamo a pagare il conto di quel momento di follia collettiva, quando il nostro buon senso  è stato travolto dalle giravolte di un pallone sul prato del Wembley. Focolai di qua e di là, per tutta la Penisola, e le disdette che arrivano ad albergatori, villaggi turistici, compagnie aeree, rientri dall’estero con quarantena incorporata, ecc.

Già visto? Sì, ma evidentemente non è bastata la lunga teoria di camion militari, con le bare dei morti per Covid della Bergamasca, nel marzo del 2020. Il fatto è che non ci siamo più abituati, non dico alla sofferenza, ma ai fastidi. La rinuncia diventa un affronto, la prescrizione di un governatore o del mite ministro Speranza, un soffocamento della Libertà, sì quella con la maiuscola.

Un boccone troppo succulento per la politica (questa con la minuscola, ed è anche troppo). Prendete la Giorgia, quella che si chiama così, è una madre, è una cristiana che scrive,… ma non legge. A cominciare dalla Costituzione. Ha detto che il green pass sarebbe un attentato alla Costituzione. Tuona: il caffè e la matriciana, li devono poter consumare anche i cittadini non vaccinati, comodamente seduti e smascherati nel pubblico locale.

Costituzione italiana-Art. 16.” Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche. Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge” (neretto mio).

Ebbene, questa signora (che i sondaggi e le copie vendute della sua autobiografia dànno col vento in poppa), è in Parlamento da quando Mary Quant inventò le gonne corte, è stata ministro col Berlusca… ma si ostina a non leggere, nemmeno la Costituzione. O non la capisce, il che è peggio.

Delle giravolte di Salvini non riesco a parlare, tanto mi gira la testa. Adesso, alla ricerca di un po’ di simpatie, l’ex Capitano straparla di figli inseguiti da gente armata di siringa (video in fondo). Gli immigrati sono passati di moda, è tempo di green pass, di fare l’occhiolino a baristi e cuochi. Ma è ben accompagnato, ha dei sodali Oltralpe e nel mondo. Anche Boris Johnson non scherza, in Inghilterra decreta che si apre senza limiti, nonostante 54 mila contagi al giorno (dato di ieri). Anche se oggi pare ci stia ripensando, boh.

Ma stiamo in Italia, dove sottili analisti politici sostengono che è un modo per i Dioscuri della destra italiana per leticare le parti basse dei tanti malpancisti, novax e dintorni, delle partite IVA, dei vecchi resi dubbiosi e impauriti da una comunicazione confusa, contraddittoria, ridondante, cui hanno partecipato lloro stiessu alla grande. Le parole che prendono il posto dei fatti e questi ultimi infarciti di fake news, per palati buoni.

“Faccio quello che voglio”, è la versione disinibita della libertà in Italia per chi non vuole vaccinarsi.

Obiezione: e gli altri? Il povero nonno, gli handicappati (si può ancora dire così?), gli ammalati che non possono vaccinarsi? Che si arrangino! Peccato che, solo fra gli over 60, sono ancora 2,4 milioni i non vaccinati, per non contare gli altri (ad oggi solo il 49,55% degli italiani ha ultimato il ciclo). Che facciamo, passiamo di una emergenza all’altra? E nel frattempo andiamo in discoteca?

Uno oggi telefona alla radio per giustificarsi: non mi vaccino perché i vaccini sono sperimentali. Bravo, peccato che tutte le scienze (e quella medica non fa eccezione) è solo e da sempre sperimentale, probabilistica. Senza provarli i vaccini non ci sarebbero stati, eppure hanno salvato milioni, forse miliardi di persone. La medicina non dà vaticini, ma dati statistici: se un vaccino è efficace all’80% perché sollevare un polverone se uno su x già vaccinato si ammala?  

Un altro ancora, con voce tormentata, informa: non mi vaccino perché non è giusto che l’Occidente abbia i vaccini e l’Africa no, lo farò ma per ultimo, balbetta l’anima bella, in piena farsa ideologica. Il detto evangelico rovesciato: i primi saranno gli ultimi.

Giustamente un commentatore ha sottolineato come una cosa è difendere la propria libertà, altra diventare untori consapevoli, seppure involontari.

Prima la salute pubblica e poi quella dei singoli? Certamente, e non solo per obbligo di legge o solidarietà, ma perché la seconda non ci sarebbe senza la prima, e viceversa. Falso dilemma, dunque?

Non proprio, piuttosto l’evidenza che ignoranza e egoismo, e il venir meno del buonsenso, in periodi di crisi sono il preludio di una società senza regole, l’avvio di una decadenza e il tramonto di ogni ideale.

Contact Us