COLPEVOLE, FORSE INNOCENTE

COLPEVOLE, FORSE INNOCENTE

Semplice, diretto, sempre sul punto, Sabino Cassese rende comprensibili anche le cose complicate (o che molti, non conoscendole come lui, rendono tali). In poche righe, il giudice emerito della Corte Costituzionale traccia le linee per una riforma radicale della giustizia in Italia. Draghi ne avrà la forza? Glielo permetteranno?

Professor Sabino Cassese, nel suo intervento sul Giornale sul garantismo Silvio Berlusconi sottolinea che la presunzione d’innocenza dev’ essere il cardine di un corretto sistema giudiziario. In Italia questo principio viene rispettato secondo lei?

«Il secondo comma dell’articolo 27 della Costituzione dispone che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Paradossalmente, quindi, la presunzione di innocenza è alla base dello stesso processo e della giustizia. Solo l’ordine giudiziario e solo a mezzo di un processo può dichiarare un accusato colpevole. Questo principio è stato travolto in Italia dall’affermazione di quello che può chiamarsi un vero e proprio quarto potere, le procure.

Sabino Cassese

Queste non si limitano all’accusa ma, sostanzialmente, giudicano. Basti pensare alle conferenze stampa in cui si vedono procuratori circondati da forze dell’ordine, che annunciano, con titoli altisonanti, le accuse. In inglese questo processo si chiama naming and shaming, cioè nominare e svergognare. Vi collaborano le procure perché non rispettano il principio fissato dalla Costituzione nell’articolo 111, per il quale la persona accusata è informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico.

I mezzi di formazione dell’opinione pubblica che danno risalto alle accuse divenute giudizio. I magistrati giudicanti perché, con i loro ritardi, consolidano l’accusa – giudizio (se il processo si concludesse dopo sei mesi, la situazione sarebbe diversa da quella attuale).

La stessa classe politica che ha, da un lato, abbassato tutte le regole di immunità che spettavano agli amministratori pubblici, dall’altro creato complessi normativi (ad esempio, antimafia) affidandone la cura ad una magistratura divenuta il guardiano della virtù (c’è un bel libro di Pizzorno, edito da Laterza su questo tema). Il presidente del tribunale di Torino, qualche anno fa, ha fatto una stima di quante di queste accuse – giudizio sono evaporate, purtroppo dopo molti anni, dopo i regolari processi. Troppo tardi, in qualche caso».

C’è oggi, e soprattutto da Mani pulite in poi, un uso distorto della carcerazione preventiva, come sostiene uno dei quesiti del referendum di Lega e Radicali?

«Non posso dire se l’uso che viene fatto della carcerazione preventiva è corretto o distorto; si può certamente dire, invece, che se ne fa un uso eccessivo e che questo è un sintomo di un possibile uso abusivo o distorto».

Come si garantisce davvero la terzietà del giudice, per limitare al massimo gli errori giudiziari?

«Assicurando una piena indipendenza e imparzialità di quella parte del corpo dei magistrati che fa parte degli organi giudicanti. Questo vuol dire completa impermeabilità, nei due sensi, sia dall’esterno verso l’interno, sia dall’interno verso l’esterno. E questo comporta una separazione tra componenti degli organi di accusa e componenti degli organi giudicanti.

In applicazione di quella norma costituzionale che dispone che il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dall’ordinamento giudiziario. Quindi, rinvia alla legge il compito di stabilire la misura delle garanzie di cui i pubblici ministeri godono, mentre per gli altri magistrati, quelli giudicanti, tali garanzie sono definite direttamente dalla Costituzione. Quindi, una diversità di status definita già dalla Costituzione. A questo si aggiunge il fenomeno che ho rilevato, della costituzione delle procure come un quarto potere dello Stato, che accentua la necessità, prevista dalla Costituzione, di uno status separato dei pubblici ministeri».

Lei crede che ci sia qualcosa di sbagliato nel sistema attuale di arruolamento e di formazione dei giovani magistrati, che nella maggior parte dei casi vengono subito arruolati dalle correnti?

«Il reclutamento dei giovani magistrati In Italia presenta alcuni aspetti positivi. In primo luogo, è avvenuto con una certa continuità e regolarità, a differenza del reclutamento degli altri pubblici dipendenti. In secondo luogo, la diversità di trattamento economico, i privilegi di status e di indipendenza dei magistrati, la stessa severità delle prove, hanno certamente attirato alcuni dei migliori laureati in giurisprudenza verso la magistratura. Tuttavia, il sistema di reclutamento soffre di alcuni difetti.

In primo luogo, si misurano le conoscenze giuridiche, non la capacità di ponderazione, la maturità, la riflessività dei candidati. In secondo luogo, c’è un alto grado di familismo: si può stimare che poco meno del 20% degli attuali magistrati sia figlio o parente di magistrati. Questo segnala un fenomeno che potrebbe chiamarsi di endogamia, che dovrebbe essere ulteriormente approfondito e valutato.

Poi, c’è una scuola della magistratura che non riesce a fornire ai giovani magistrati conoscenze relative alla misurazione dei tempi delle procedure, capacità di analisi dei carichi di lavoro, abilità nell’intendere le implicazioni delle decisioni. Ne deriva, nel corpo dei magistrati, composto di ottimi giuristi ed eccellenti persone, una inconsapevolezza dell’attuale stato della giustizia in Italia.

Un aspetto preoccupante dello stato della giustizia in Italia è proprio questo: come persone tanto preparate, ottimi professionisti, possano essere inconsapevoli di lavorare in una struttura che non risponde alla funzione affidatale dalla Costituzione, quella di dare giustizia. Non c’è bisogno che aggiunga quanti milioni sono le procedure giudiziarie pendenti e quanto sia rilevante la fuga dalla giustizia».

L’autogoverno della magistratura, dice Luciano Violante nell’intervista di martedì al nostro quotidiano, non è scritto in Costituzione ma le toghe se lo sono preso per determinare dal Csm e dal ministero della Giustizia la politica giudiziaria. E così?

«La Costituzione parlava di indipendenza. L’ordine giudiziario l’ha fatto diventare autogoverno. Segnalai già questo singolare abuso della parola indipendenza cinquant’ anni fa a un convegno di magistrati. Aggiungo altre distorsioni tollerate: perché sono magistrati i funzionari del ministero della giustizia, se questo è parte dell’ordine esecutivo? Perché tanti magistrati fuori ruolo, con compiti diversi da quelli giudicanti? Perché magistrati i funzionari del Csm?».

Per Berlusconi un filo rosso lega i valori di garantismo, liberalismo, cristianesimo ed europeismo: il rispetto della persona. Lo vede anche lei?

«C’è certamente un legame tra quelle tre grandi tradizioni storico – culturali e il garantismo. Ma ora non scomoderei cristianesimo, liberalismo ed europeismo. Proverei a correggere quella che è diventata una delle maggiori storture del nostro Stato».

Anna Maria Greco per il Giornale

BAZLEN

BAZLEN

Nell’ultimo suo ultimo libro “Bobi”, Roberto Galasso, morto nel luglio scorso, ricorda la figura di Roberto Bazlen, l’inafferrabile triestino che con lui fondò l’Adelphi e cambiò l’editoria italiana.

Roberto Bazlen e Roberto Calasso ( Olycom)

La parola cultura ha principalmente due significati, uno individuale e uno collettivo. Da una parte è quell’insieme delle cognizioni intellettuali che acquisiamo attraverso lo studio e l’esperienza ed elaboriamo autonomamente, dall’altra è l’insieme di credenze, simboli, concezioni caratterizzanti il modo di vita di un gruppo sociale. Roberto Calasso, da scrittore e da editore, nel nostro tempo, ha contribuito notevolmente a entrambe. Con la sua morte, avvenuta pochi giorni fa, ci ritroviamo orfani di una Kultur e di un metodo sapienziale che ha pochi epigoni, proprio per la sua complessità. Parte dell’influenza sistemica dell’uomo che è stato per decenni direttore editoriale e poi presidente della casa editrice Adelphi proviene da un altro Roberto, Roberto Bazlen, che tutti chiamavano Bobi. Parallelamente alla sua grande opera, partita con La rovina di Kasch e arrivata pochi mesi fa all’undicesimo volume con La tavoletta dei destini, Calasso ci ha regalato dei racconti che parlano di sé per parlare di libri, o parlano di chi fa i libri per parlare del rapporto che ha l’uomo con la sapienza; spesso sono anche i migliori resoconti ragionati su quella che è stata la vera scena intellettuale in Italia, in Europa. In questi testi possiamo andare a scoprire perché oggi l’editoria, come dicono alcuni, “non è più quella di una volta”, o vedere le stratificazioni, i meccanismi della cultura editoriale e della cura del libro, da Aldo Manuzio a Aby Warburg. In quest’ultimo, pubblicato col semplice titolo di Bobi, capiamo, come in una origin story di un supereroe, la formazione del futuro editore tramite l’esempio di quest’uomo triestino dal cognome tedesco. Non maestro ma iniziatore.

Bazlen è stata una di quelle figure nell’editoria che restano nell’ombra, ma mai ci si sognerebbe di dargli l’epiteto di “eminenza grigia”, come fosse un Père Joseph qualsiasi. Il grigio, poi, non gli si adatta, Bazlen è più un “profilo di luce imprendibile”. Più che una figura oscura, sembrerebbe un seguace di quel lathe biosas, quel vivi nascostamente epicureo, che oggi nel mondo degli schermi parrebbe una pratica impossibile. Dice in una lettera: “Mi sono fatto fotografare innumerevoli volte, nemmeno una è riuscita presentabile. Scusami”.

Roberto Bazlen

Bobi è inafferrabile anche nel tentativo di descriverlo, ma influente. A lui dobbiamo la scoperta di Italo Svevo e l’anima, appunto, della casa editrice più raffinata che esista, Adelphi, di cui Calasso prenderà le redini. Una casa dove i libri, seppur lontani, si parlano tra loro. Il Bhagavadgt e Robert Walser, Lo Hobbit e La via di un pellegrino, Karl Kraus e Artemidoro, Georges Simenon e Max Stirner, Gurdjieff e i quaderni di Simone Weil. A volte basterebbe una lista dei volumi pubblicati, in fondo a un tascabile, per descrivere il mondo. Ma il lavoro per costruire attivamente un’editoria alternativa, con una missione sapienziale, copre solamente l’ultima fase della vita di Bazlen. Chi fu prima è difficile dirlo. Si definiva “un ibrido tra un bourgeois e un outsider, due concetti che sono del tutto inconciliabili”.

La Trieste in cui nasce nel 1902 è austriaca, il padre è tedesco e luterano, muore quando lui ha tre anni, la madre è ebrea e borghese. Trieste è una città ricca e “quasi pantagruelica” con pianoforti Boesendorfer, aristocratici biondi e porcellane viennesi, sotto un impero “equo e tollerante” perché possiede “tutta la dignità dei moribondi e cerimoniosi” e la burocrazia “non commetteva ingiustizie”. Lui fa scuole tedesche, in una città che “parla un dialetto veneto, circondata da una campagna nella quale non si parla che una lingua slava”, e dove la borghesia più intellettuale, staccata dall’Italia, nazione a cui crede di appartenere, è costretta a “ricorrere a un frasario rettorico ottocentesco da Risorgimento” esaltandosi per il Nabucco. Quando a sette anni va in gita nel Regno dei Savoia, sopra Udine, esser di lingua tedesca lo fa vergognare a morte di fronte all’atteggiamento garibaldino e tricolore di altri ospiti dell’albergo. Lo additano come oppressore, così si metterà d’impegno “a diventar un oppresso anch’io, a qualsiasi costo, e credo di esserci riuscito abbastanza bene”.

Ma Trieste, “città musicale” dove tutti cantavano, è stata anche stata “un’ottima cassa armonica”. E’ la città che per Bazlen, mentre nel resto del mondo giravano Van Gogh e Alfred Jarry e Oscar Wilde, ha dato uno dei pochissimi contributi vivi “che la letteratura di lingua italiana abbia dato all’europa di fin de siècle”: Italo Svevo, che non ha ricevuto subito il riconoscimento meritato. Se un giorno lo otterrà è merito di Bazlen, che si opera per farlo leggere, conoscere, tramite l’amico Eugenio Montale; “vorrei far scoppiare la bomba Svevo con molto fracasso”, gli scrive negli anni Venti. E’ a lui se dobbiamo l’ingresso di quel moto di coscienza nella letteratura italiana. Bazlen aveva conosciuto Montale a Genova, dove si era trasferito per lavorare – brevemente – alla Atlantic Refining Co. grazie a un conoscente di origine greca. Montale scriverà in un ricordo: “Quando venne a trovarmi mandatomi non so da chi, egli fu per me una finestra spalancata su un mondo nuovo. Mi fece conoscere molte pagine di Kafka”. Bazlen parla già di Kafka prima che venga pubblicato Il processo. A Montale manda poi la cartolina con gambe di donna che diventerà la lirica Dora Markus. Gli consiglia di tradurre Henry James invece di Conrad. Montale gli dedica la sezione Mediterraneo di Ossi di seppia. Nell’epistolario col poeta ligure vengono a galla scie dell’indole di Bazlen. Quell’esser nato sotto l’influenza dei Gemelli, segno di Mercurio, cosa che spesso ricordava all’interlocutore ( per chi considera gli astri, va ricordato che anche Calasso era gemelli). In una lettera del 1925, annusiamo il carattere di Bobi; invitato a partecipare a una rivista risponde: “siete diventati matti … Io sono una persona per bene che passa tutto il suo tempo a letto, fumando e leggendo, e che esce ogni tanto per far qualche visita o andare al cinematografo. Per di più manco completamente di spirito messianico divulgativo, e non ho mai inteso nessun bisogno di partecipare agli altri le mie idee, tanto meno a lettori di riviste”.

Negli anni Trenta è brevemente milanese, tre anni in cui conosce Gadda e Adriano Olivetti che lo inviterà a vivere a Ivrea. Bazlen non sembra colpito da Milano, e appare strano che questa sia stata l’unica città ad omaggiarlo a livello toponomastico – a metà con Luciano Foà – dedicandogli l’anno scorso un giardinetto dietro via Orti, con un platano centenario e scivoli e altalene.

Le parole scritte da Bazlen sono poche, troppo poche secondo i più. Questa peculiarità diventa il tratto della sua persona: il non aver mai pubblicato nulla in vita. Troppo spesso chi ha voluto creare su di lui un personaggio da feuilleton giornalistico o da racconto salingeriano, l’ha identificato con questa non- attività. Un uomo di lettere, un erudito, un uomo dell’editoria che non scrive! Ci si stranisce per queste cose. Forse adesso più di allora. Nel quader – no E annota: “Io credo che non si possa più scrivere libri. Perciò non scrivo libri. Quasi tutti i libri sono note a piè di pagina gonfiati in volume (volumina). Io scrivo solo note a piè di pagina”. Le parole messe giù, per lavoro e divertimento, Adelphi le ha fatte uscire negli anni, dopo la sua morte, per poi raccoglierle in Scritti: lettere a Montale, schede editoriali, alcune pagine sparse, appunti. Basta sfogliarlo per capire la fibra talentuosa, l’occhio di un lettore eccezionale. C’è anche il suo romanzo, Il capitano di lungo corso, non finito.

La collaborazione da “fantomatico consulente Einaudi” finisce nel 1962. Già alla fine degli anni Cinquanta, Italo Calvino scriveva a Giulio Einaudi della paura di “sconfinamenti spiritualistici” nella collana proposta da Bazlen, poi bocciata.

I tempi sembran maturi, o necessari, per portare in Italia qualcosa che riempia quel vuoto che, per paura politica e identitaria, era stato lasciato appositamente vacante. Non c’era – fino alla nascita di Adelphi – un luogo dove tentare di frammentare il discourse di quegli anni e saziare una sete alternativa. Un tempo in cui Nietzsche spaventava terribilmente, in cui parlare di decadentismo, fantastico o irrazionale faceva storcere nasi o venire la pelle d’oca. Ed è proprio dall’opera critica di Nietzsche che si parte, con l’occhio vigile di Giorgio Colli, filologo di rara abilità, affiancato dal germanista Montinari ( chi non ha in casa quei libricini gialli?). Le loro edizioni cambieranno completamente la percezione di Nietzsche in Europa. Accanto a Bazlen, nell’avventura Adelphi, c’è Luciano Foà, ex- einaudiano; ne L’impronta dell’editore Calasso lo descrive come “intensamente saturnino”, “lo interessava soltanto andare in fondo”. Bazlen poteva finalmente pubblicare quei libri che aveva scovato negli anni e che le case editrici con cui aveva collaborato non reputavano adatti. Si potevano fare dei “libri che allora sembravano arrivati da altri sistemi solari”, ha detto in un’intervista Matteo Codignola (dagli anni Novanta in Adelphi, curatore delle opere di Ian Fleming, di recente in libreria con un divertente e acuto libro sull’editoria: “Cose da fare a Francoforte quando sei morto”).

L’idea di Bazlen, che resterà a lungo un mantra adelphiano, è quella del libro unico. Come scrive Calasso il “libro unico è quello dove subito si riconosce che all’autore è accaduto qualcosa e quel qualcosa ha finito per depositarsi in uno scritto”. I libri sono prodotti, la letteratura è il processo. A Bazlen interessava soprattutto quel processo, e non tutti i processi che portano a un libro possono essere straordinari. Calasso, che farà suo questo mantra, incontra Roberto Bazlen quando sta per nascere questa casa editrice radicale. Ha vent’anni e ha sentito parlare di Bobi in casa, l’amico di famiglia, il pittore Giorgio Settala, era cugino di Bazlen, e quel nome (e quel soprannome poi), ha generato subito una certa curiosità. Informandolo della nascita di questa nuova casa editrice negli anni Sessanta, dice Bobi al giovane: “Faremo solo i libri che ci piacciono molto”. Calasso ricorda esattamente il momento in cui si parlò per la prima volta di Adelphi, nella villa di Ernst Bernhard a Bracciano, il giorno del suo ventunesimo compleanno, nel maggio del 1962. Sono gli anni romani, Bazlen vive in via Margutta 7 e di tanto in tanto frequenta la sala da tè inglese Babington, in piazza di Spagna, accanto alla casa dove era morto John Keats. Tutti fingono di conoscerlo, tra gli onesti ammiratori troviamo Elsa Morante, Elena Croce e Giacomo Debenedetti. Sono stati Elémire Zolla e Cristina Campo a presentarlo a Calasso. Bazlen al giovane parla di libri, che sembrerebbe esser la cosa più cara a entrambi, e di autori allora alieni come René Daumal e Roger Gilbert- Lecomte, che esploravano “il Vedanta accostato a Spinoza, Guénon, lo stato di veglia”. Nomi che poi vedremo nel catalogo. E qui si iniziano a percepire i tasselli dell’impalcatura adelphiana. Il respiro orientale, prima ancora di quello mitteleuropeo. Nella biblioteca appare prima Il monte analogo dell’Andrea di von Hofmannsthal. In Bazlen già da anni hanno rilevanza le influenze dell’est, dell’india, del Tibet, della Cina. Cose impensabili allora. Nell’immediato Dopoguerra aveva proposto per primo la pubblicazione di Freud, di Jung, poi di libri di etnologia, antropologia storia delle religioni. Bobi Bazlen muore in un albergo di Milano nell’estate del 1965. In un taccuino aveva scritto: “Un tempo si nasceva vivi e a poco a poco si moriva. Ora si nasce morti – alcuni riescono a diventare a poco a poco vivi”. Anche Calasso è morto in estate. Due gemelli, due Roberti.

Questo libricino, Bobi, delizioso, profondo, in copertina blu notte e titolo bianco, è un omaggio a quest’uomo “fantomatico” a cui Calasso deve molto. L’occhio del narratore è filtrato dal presente, dalla storia che verrà, ma c’è quella tenerezza da mal d’africa, l’atmosfera del ricordo che arricchisce l’omaggio con sguardi giovanili. Bobi, insieme a Memé Scianca (uscito sempre nella piccola biblioteca in un raffinato lilla- pervinca) è forse il testo più intimo di Calasso. Nelle descrizioni di Bazlen si sente il calore umano, il macinare del cervello e dell’anima di un uomo visto da molti come un ectoplasma inzuppato nell’aneddotica, uomo favoleggiato, rabdomantico scopritore di opere e di autori che non ha voluto lasciare opere. Come scrive Calasso: “L’opera compiuta di Bazlen fu Adelphi”.

Giulio Silvano per il Foglio Quotidiano

POCHE REGOLE PER PRINCIPIANTI FOTOGRAFI

POCHE REGOLE PER PRINCIPIANTI FOTOGRAFI

DAL REPORTAGE AL PAESAGGIO O AL RITRATTO; DAL MICRO PARTICOLARE AGLI SCENARI D’INSIEME, CATTURARE L’IMMAGINE NON GARANTISCE IL RISULTATO SE NON SI INTERPRETA IL SOGGETTO, PRESENTI E INVISIBILI NELLO STESSO TEMPO: I CONSIGLI DELL’ART DIRECTOR GIANLUIGI COLIN.

Nel suo saggio Sulla fotografia Susan Sontag parla dell’eroismo della visione: «Fare una fotografia significa partecipare della mortalità di un’altra persona (o di un’altra cosa) ed è isolando un determinato movimento che tutte le fotografie attestano l’inesorabile azione dissolvente del tempo». Ed è proprio il tempo l’essenza della scrittura fotografica, che insieme alla luce, determinano la materia di cui è fatta la fotografia. Ma intorno al termine «fotografia», forse dovremmo imparare a declinare questa parola al plurale: non esiste «la fotografia» ma «le fotografie», con le loro storie e generi, codici, linguaggi, riferimenti culturali, contenuti e finalità. E cercare di comprendere meglio questi «linguaggi» non significa altro che intraprendere un viaggio in un poliedrico labirinto di autori e visioni. La fotografia, quindi, come scrittura dentro un sistema di scritture. E il soggetto di ogni immagine non può che appartenere all’interno di questo sistema. Un esempio? Se per Henri CartierBresson, Occhio del Novecento, il soggetto risiede nel teatro della vita, per un autore come Man Ray (ma vale anche per Andreas Gursky o Cindy Cherman, per citare due nomi) la fotografia è solo il media per una indagine più strettamente artistica. Evocando un titolo di Achille Bonito Oliva sul mondo dell’arte, dovremmo imparare a conoscere, capire e amare le tante «Tribù della fotografia». Senza dimenticare Mark Twain: «Non potete fare affidamento sui vostri occhi se la vostra immaginazione è fuori fuoco».

Foto di Michele della Palma

La scelta del soggetto è la prima tappa che dà vita alla ricerca e al pensiero di un fotografo. Come qualsiasi altro aspetto della fotografia, deve essere supportata da un’idea compositiva e progettuale. La modalità con cui si sceglie di fotografare un dato soggetto dovrebbe essere frutto di un pensiero, e un ricco bagaglio tecnico-conoscitivo è fondamentale per riuscire a veicolare l’immagine nel modo desiderato. Occorrono poi nozioni di estetica, composizione, gestione della luce e del colore, la capacità di interpretare lo sfondo rispetto al soggetto e saper comporre per sottrazione. Ma un buon soggetto, magari particolarmente fotogenico, non basta a garantire un grande risultato fotografico. Se quel dato soggetto sarà in grado di comunicare qualcosa di significativo, sarà soltanto grazie al modo in cui viene catturato.

Foto di Michele della Palma

Nel campo della fotografia di reportage è essenziale risultare dei fotografi «invisibili», capaci cioè di muoversi anche all’interno di luoghi in cui una presenza estranea potrebbe risultare molto sgradita. È molto importante riuscire a instaurare un rapporto di complicità e fiducia con i soggetti selezionati, così da ottenere anche la massima spontaneità al momento dello scatto.

Può essere utile dotarsi di un teleobiettivo, con il quale cogliere dei soggetti anche a una certa distanza, passare così inosservati e fotografare con tempi piuttosto rapidi per evitare il micromosso. In questo modo il soggetto prescelto risulterebbe l’unico vero fattore di interesse all’interno della composizione, con lo sfondo sfocato che fa risaltare ulteriormente la sua figura. Nel caso in cui si possa fotografare a una distanza più ravvicinata, l’uso del grandangolo consente di valorizzare di più il contesto di riferimento, facendo coesistere più elementi diversi all’interno dell’immagine.

Michele della Palma

Nel genere del ritratto, si consiglia di fotografare con una focale superiore ai 50mm, ponendo la camera ad altezza occhi. In questo modo il soggetto si staglia nitidamente contro lo sfondo e si ha la possibilità di evidenziarne alcune caratteristiche, anche psicologiche, magari con un gioco di ombre.

Allo stesso tempo, utilizzare un obiettivo grandangolare, se non crea delle deformazioni poco gradite, può essere utile per donare una qualità maggiormente immersiva al ritratto prodotto.

Nel caso in cui si stiano fotografando dei bambini, è raccomandabile inquadrarli dal basso verso l’alto, così da evitare un effetto «schiacciato», che poco li valorizzerebbe.

Nell’ambito della fotografia di paesaggio, è sempre molto opportuno conoscere il luogo in cui si andrà a fotografare. Osservare la location in anticipo può aiutare a scoprire dettagli originali, capaci di raccontare davvero l’anima del luogo selezionato. È utile annotarsi quali siano le ore migliori in cui scattare e capire quali condizioni atmosferiche sfruttare. Nel caso in cui si voglia fotografare un fenomeno preciso, qualcosa che dipenda, magari, da un cambio atmosferico particolare e imprevedibile, stabilire in precedenza il punto esatto dove posizionare la camera è sempre un grosso vantaggio. Più si conosce un soggetto e più è probabile riuscire a catturarne un aspetto davvero significativo e originale. Non è poi detto che un determinato luogo debba essere inquadrato nella sua interezza. Concentrarsi su alcuni particolari, selezionando dei dettagli precisi, può essere una strada per ottenere risultati inediti.

Foto di Saul Ripamonti

Ogni professionista deve inoltre curare ogni aspetto della composizione fotografica. Il modo in cui il soggetto ritratto sarà percepito dipenderà moltissimo dalla struttura compositiva che ha predisposto. Utilizzare la regola dei terzi può essere sempre una buona soluzione per collocare gli elementi dell’immagine nelle aree in cui si concentra maggiormente l’attenzione di chi guarda. Ma ciò non toglie che anche un soggetto posto al centro dell’inquadratura possa essere molto interessante.

«Può sembrare un paradosso, ma trovo la mia comfort zone quando intorno a me regna il caos… manifestazioni, mercati affollati, situazioni impreviste, spedizioni in ambienti sociali e naturali estremi. In quelle condizioni, scatta un meccanismo che mi permette di astrarmi totalmente dalla mia emotività per osservare la realtà che mi circonda con distacco assoluto, con tutti i sensi focalizzati a cogliere i segni topici che raccontino, in modo oggettivo, la situazione in cui mi trovo. Si dice che un fotoreporter prima pensi a fotografare e poi a salvarsi la pelle… per me è così!».

Foto di Saul Ripamonti

«In molti si definiscono fotografi solo perché posseggono una fotocamera. Professionista o no, sei fotografo se ce l’hai scritto nel DNA, è una passione senza limiti, un motore inesauribile che spinge a muoverci, prendere la macchina fotografica e scattare in qualsiasi situazione possiamo trovarci, sia fisica sia ambientale. Quando scattiamo una fotografia diamo la nostra personalissima interpretazione della realtà: è la nostra maniera di esprimerci, di comunicare, la capacità di raccontare di parlare al mondo. È stare male se non ci riusciamo. La fotografia come scelta di vita è qualcosa che parte da lontano e per quanto mi riguarda ho assorbito la passione di mio padre Alessandro. Fin da piccolo maneggiavo la sua macchina fotografica ed ero anche interessato alle sue riviste e ai suoi libri sul tema. Ma alla fine continuavo più a essere fotografato che a fotografare. Tutto ciò però era come linfa vitale che inconsapevolmente entrava nelle mie vene e alimentava qualcosa che solo dopo anni si sarebbe concretizzato».

«Per un certo periodo della mia carriera ho fotografato solo in esterno, ma non mi reputavo un fotografo completo senza conoscere la luce artificiale, cioè «fare la luce» per valorizzare al meglio un qualunque oggetto in interno. Ho avuto la fortuna di lavorare a lungo in teatri di posa immensi, dove si potevano fotografare contemporaneamente persino due camion con semirimorchio. Mi sento quindi a mio agio sia in interno sia in esterno, ma oggi mi dedico alle frequentazioni fotografiche: una volta individuato in esterno un soggetto interessante (un albero, un monumento, un ponte), lo seguo con costanza (almeno 3 anni!) nelle più disparate condizioni meteo e di luce».

Foto di Enzo Isaia

«Mi muovo con attenzione al territorio, cercando di scrutare e sfruttare ogni sua specificità (…), luci e ombre, attimi imprevisti o inattesi. Quando sono a mio agio so dove mi trovo, anticipo con il pensiero la risposta tecnica e prevedo il risultato finale, le zone di luce e ombra e le eventuali dominanti colore. Perché la tonalità di ogni immagine è sempre mitigata dal contesto e dalla biodiversità presente, così come la morbidezza del risultato deve corrispondere al momento. Spesso prevedo il limite ove potrò spingermi in post produzione per rispettare la correttezza formale ed etica. Oggi abbiamo il compito di preservare l’originalità di quanto documentiamo, anche per le generazioni a venire».

Gianluigi Colin, art director Corriere della sera. Testi a cura della redazione Eventi da estratti della collana «Master di Fotografia» In copertina un ritratto di Enzo Isaia.

VECCHIE CARTE INEDITE DEL DR. DESTOUCHES

VECCHIE CARTE INEDITE DEL DR. DESTOUCHES

MISTERIOSO RITROVAMENTO DEL CRITICO JEAN-PIERRE THIBAUDAT DI MIGLIAIA DI PAGINE INEDITE DI CÉLINE, TRAFUGATE NEL 1944, CHE ORA SARANNO PUBBLICATE

Il ritrovamento di migliaia di pagine che sembravano perdute per sempre è un po’ la Pompei del dottor Louis-Ferdinand Destouches, in arte Céline, dal nome di una nonna molto amata e grande affabulatrice. I manoscritti scomparsi erano il suo grande cruccio, la sua ossessione. Alimentavano quel torrente di recriminazioni, rancori, lamenti, invettive che rovesciava su amici e sostenitori, in primis i suoi avvocati, Jean Paulhan, il povero Gaston Gallimard sommerso da scariche di contumelie al vetriolo. Tornato in Francia dall’esilio danese dopo essere stato condannato a morte in contumacia per collaborazionismo, autorecluso in un villino un po’ cadente di Meudon, barbonizzato, circondato da uno stuolo di cani, gatti e pappagalli, assistito amorevolmente dall’eroica moglie Lucette che continuava a dare lezioni di danza, il refrain era sempre quello: i libri che gli avevano portato via quando nel 1944 era fuggito verso nord. Gli avevano devastato l’appartamento al 4 di rue Girardon in cui viveva («Non mi hanno lasciato niente…non un fazzoletto…non una sedia, non un manoscritto…»).

Un lutto che non riusciva a elaborare, che lo rendeva ancora più ringhioso. Era riuscito a salvare Casse-pipe (poi pubblicato nel 1949), un potente torso del romanzo che doveva chiudere, la trilogia autobiografica avviata trionfalmente con il Viaggio al termine della notte (1932) e Morte a credito (1936). Céline lo aveva scritto proprio in rue Girardon (dove non c’è nessuna targa che lo ricordi). Gli era rimasta una combriccola di pochi amici fedeli, pittoreschi bohémiens forti bevitori e svelti di parola. Non parlavano di politica, ma Céline era pur sempre l’autore dell’esagitato pamphlet antisemita Bagatelle per un massacro. Così lo scrittore Roger Vailland, che frequentava al piano di sotto una cellula della resistenza (che Céline si era ben guardato dal denunciare), aveva pensato a un attentato. Il gruppo era stato poi fermato dai dubbi: come si fa ad ammazzare l’autore del Voyage, che piace tanto a Trotzkij? Le cento pagine di Casse-pipe, che ho avuto l’onore di tradurre, bastano a se stesse, perfettamente compiute e autonome come sono.

Raccontano potentemente la notte in cui il giovane Destousches si presenta alla caserma dei corazzieri di Rambouillet per arruolarsi come corazziere, tra cavalli che scappano e le crisi epilettiche che travolge il maresciallo d’alloggio Le Meheu e i suoi tonitruanti monologhi. La follia della grande guerra è già annunciata e condensata lì. Adesso apprendiamo che il benemerito archeologo delle carte céliniane, il critico teatrale Jean-Pierre Thibaudat, ha trovato le seicento pagine del seguito, che portano il protagonista Ferdinand, ferito al braccio in una missione di collegamento, in un ospedale del Belgio in si cui aggira una perversa infermiera erotomane. Insieme a quelle, Thibaudat ha decifrato altre migliaia di pagine, dedicate tra l’altro al soggiorno londinese che seguì l’esperienza della guerra. Una manna, una miniera da esplorare. Si è sempre vantato, Céline, di quella montagna di fogli su cui si continuava a dannare con la furia insoddisfatta di un artigiano maniacale, sempre alla ricerca ossessiva della parola giusta, dei ritmi martellanti, della petite musique che era il suo marchio di fabbrica. In molti hanno creduto che fossero un po’ le vanterie di un disperato, che ancora fremeva di rabbia quando ripensava ai pillards, agli infami saccheggiatori che gli avevano devastato l’appartamento. Evidentemente non erano solo dei vandali o dei rozzi epuratori accecati dall’odio. La storia del trafugamento di queste carte ha l’aria di essere un capitolo avventuroso dei disastri della guerra che Céline ha poi raccontato in un delirio sempre più allucinato e quasi jazzistico. Gli inediti non cambieranno di sicuro l’interpretazione della sua opera, come qualcuno ha già scritto, ma questa inattesa, miracolosa resurrezione, in tutto degna del dottor Destousches, ci promette grandi emozioni.

Articolo di Luigi Ambrosio, La Stampa

Di seguito alcuni stralci dell’intervista di Madeleine Chapsal a Louis-ferdinand Céline (1957), edita ora in Italia da Stampa alternativa e apparsa sul Fatto Quotidiano il 6 agosto scorso.

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“Scrivo così pago l’affitto: trama da fruttivendole. Mi fido solo degli astemi. In guerra non stavo in fuga come Malraux… Questione di fegato, altro che dire ‘bellaciao’”

Bagatelle domestiche L’attrice Arletty con l’amico Céline

Allora vuol dirci come scrive?

Sono uno stilista… diciamo… un maniaco dello stile… Mi diverto a fare piccole cose… A un uomo si chiede moltissimo, ma lui non può fare molto… Enorme illusione del mondo moderno chiedere a uno d’essere ora un Lavoisier… ora un Pasteur… di far tornare sempre i conti. Uno che trova qualcosina nuova è già tanto… già completamente sfinito! Ne ha per una vita!… Si parla di “messaggi”: mica mando messaggi alla gente, io. L’enciclopedia è stracolma di messaggi… niente di più volgare, a chilometri e tonnellate… e via con le filosofie, le visioni del mondo!

Come definirebbe ciò che ha inventato?

Come una musica… una musichetta calata nello stile, e basta. Tutto qui… La trama, perdio, è cosa secondaria… roba da fruttivendola… se non arrivi alla fruttivendola, manco arrivi alle grandi tirature… È questo che interessa al pubblico… che vuole l’automobile, gli alcolici e le ferie… Oggi, mica vai a leggere Balzac per sapere chi è un avaro o un medico condotto. Le trovi nei vostri giornali, nelle riviste, al cinema! E allora a chi importa un libro?… Una volta s’imparava a vivere, da un libro… Ma che belle trame, ora… pieni i giornali: ce n’è sulle carceri, sui manicomi!

Quando i lettori hanno comprato il Voyage hanno comprato una trama, non solo un nuovo stile.

Macché! Hanno comprato uno scandalo. Oggi invece chiunque ha facoltà o licenza per scrivere un romanzo… Lettere alla cuginetta, formato gigante!… Uguali dappertutto… né c’è medico o notaio senza il suo bel romanzo nel cassetto!

Ciò forse vuol dire che scrivere è un bisogno.

Sì, ma per colpa della… lavatrice… La moglie pensa: “Una lavatrice, che funzioni, costa 200.000 franchi…”. Il marito, lui, sa scrivere… articoli qua e là… Lei pensa sempre alla lavatrice… e un bel giorno… davanti alla vetrina fa: “Guarda un po’, è uscito l’ultimo libro della Sagan, se ne parla molto. Lo vendono a cinquecento franchi. Quant’è che s’incassa a copia? 20%?… Ah, 100 franchi a libro?”… Pensa sempre alla famosa lavatrice, lei!… e dice a lui: “Senti, tu non potresti?”… “Oh, io no, lo sai bene”… “Oh, ma sì che lo potresti fare un romanzo come quella lì. Non è così straordinario… io l’ho letto”… Allora, via! ecco che arriva un altro romanzo!… spedito a Gallimard… Ogni anno si zavorra di quattrocento romanzi, Gallimard… li butta nella Senna!… non li legge nessuno!… Il lettore vuol mangiare la verdura ben cotta e presentata… il piatto ben guarnito, con dentro la buona solita pappa!

Lei comunque si rivolge ai lettori…

È un artificio… Invece li disprezzo… quel che pensano e che non pensano!… Se ti preoccupi di quel che pensano, stai fresco!… No, non ce n’è bisogno: se legge, bene; se no, peggio per lui!… Il Voyage l’ho scritto per pagarmi un appartamento… semplicemente… Se no, giammai l’avrei pubblicato… Avessi una rendita, non pubblicherei nemmeno adesso… rinuncerei a tutto questo impiccio, e mi riposerei… Tutti parlano di pensione a quarantacinque anni… Ne ho sessantatré, io! Ho un proiettile nella testa e un braccio a pezzi… sono invalido al 75%. Forse basta… Mi son fatto due guerre.

Lei si definisce pacifista?

Contro la guerra da capo ai piedi, io che l’ho fatta… Una cosa diversa, la Francia: tutti sonnambuli prima del ’14, tutti filosofi dopo. Tutti impegolati nella critica con Sartre, Camus: loro credono che sia meglio “pensare”!… Io l’ho visto l’esercito, so cosa dico. Non stavo a correre dietro alla divisione in fuga, come Malraux!… Stavo davanti ai tedeschi, io… per fermarli. Questione di fegato: non è come dire “bellaciao”.

Lei crede che tutto finirà con la catastrofe atomica?

Non ce n’è bisogno. I cinesi non hanno che da farsi avanti, armi in spalla. Hanno dalla loro l’idra viva, la natalità… Scomparirà, la razza bianca… Il bianco non è un colore, ma un fondotinta! È il giallo, il colore vero.

Dopo il ’14 tutto è degenerato? Che spiegazione dà?

L’alcolismo, prima di tutto…: i milleduecento miliardi in alcolici che si bevono in Francia ogni anno… gran belle spugne!… Le so bene le virtù alcoliche… illusione di potenza… pericolosissima… illusione di forza… Parole e pretese a vanvera… Poi il fumo…: settecento miliardi l’anno. Ti dà sensazioni pseudopoetiche e apparentemente profonde, il fumo… e pure false idee… Io mi fiderei solo di uno che beve acqua… e che non è sempre lì a ruttare e a digerire! Cose che te l’abbrutiscono, l’uomo… Muore, e non ha mai pensato… però ha partecipato!… per cosa, ci si chiede… ma non importa!

UNA DONNA COSI’

UNA DONNA COSI’

Oltre a portarci libri imperdibili e ad aprirci l’America, quindi il mondo, Fernanda Pivano è stata una straordinaria donna del Novecento che ha amato un uomo, ne ha ammirati tanti, ne ha rimpianto qualcuno, ma è soprattutto alle donne che, da maestra riluttante, ha mostrato la libertà, la sua fatica quotidiana, la sua meraviglia complicata e necessaria, il suo essere orizzonte irraggiungibile ma a cui non vanno mai voltate le spalle.

«Sono stata una scema a non scoparmi Hemingway». Di Fernanda Pivano dovremmo sapere tutto, e quel “dovremmo” possiamo intenderlo almeno in un paio di modi. Se si è attraversato in parte il suo secolo lungo, un’idea del suo lascito la si ha. Se invece si è troppo giovani per averla potuta incrociare, è un concentrato di Novecento che può far capire molte cose di questi nostri anni – anche se lei non li ha visti.

Fernanda Pivano giovane

In questa estate di legge Zan, di libertà messe in discussione, di MeToo sommerso o riaffiorante, di differenza tra sesso, genere e identità di genere da imparare per poi magari subito di nuovo confondere, lei — anche se era arrivata molte estati fa, il 18 luglio 1917, e se n’è andata qualche estate fa, il 18 agosto 2009 — ci avrebbe forse sciolto qualche dubbio. Oppure ci avrebbe spiazzato ancora di più, con una sorprendente mancanza di verità, col suo essere lei stessa una contraddizione, e quindi stimolandoci a vigilare sulle nostre certezze, anche le più fresche.

Fernanda Pivano

Probabilmente ci saremmo accostati a lei come a un oracolo laico, in lei identificando giustamente il prototipo dell’indipendenza e dell’emancipazione e della cultura femminili. Lei che fu l’interfaccia ineludibile dei più grandi intellettuali dei suoi decenni. Lei che fu decisiva nella sprovincializzazione dell’Italia, aiutata a smaltire la sbornia ventennale del «popolo guerriero» con l’ideale opposizione dei poveri diavoli di Spoon River, antieroi stanchi, quindi eroi autentici. Pivano fu centrale in tutto questo, ponte tra almeno due generazioni di italiani e il mondo, lei a riconnetterci con la civiltà.

Ma una donna così, forgiata dall’avere ascoltato — di nascosto, alla radio, accanto a Pavese e Vittorini — il discorso sulle Quattro Libertà di Roosevelt, non fu mai completamente libera. E una donna così, che pure conobbe uomini eccezionali e avrebbe potuto averli con uno sguardo, amò incondizionatamente un uomo solo, che inseguì e poi ebbe e poi perse, soffrendone fino alla fine. E fino alla fine chiamò disperatamente a sé.

Fernanda con Ettore Sottsass

Ettorino Sottsass e il marchio del padre

Quell’uomo fu Ettore Sottsass, per Nanda “Ettorino” ma in pubblico “Sottsàss”, con l’accento rigorosamente sulla “a”, il contraltare materiale e fattuale della curiosità intellettuale di lei, il grande designer, o “controdesigner”, che tanto contribuì a riaprire gli occhi del mondo sulla bellezza italiana, con mille oggetti diventati icone e quella facilità di tratto che la incantava, mai avrebbe smesso di osservarlo con la matita in mano.

Nanda Pivano fu prigioniera per scelta — l’ossimoro è voluto, e riassume questa storia — di quell’amore e di un’educazione altoborghese, e non si liberò mai né dell’uno né dell’altra. Per questo rimpianse gli anni con lui, tantissimi — rimpianse di averli perduti, rimpianse che fossero finiti — ma anche il fatto di essere stata «una scema a non scoparmi Hemingway».

Quella frase Enrico Rotelli la rivela dopo qualche istante di concentrazione, perché una delle cose che ha imparato da lei, lavorandole accanto negli ultimi anni, è scegliere bene le parole, capire chi ti ascolta e cosa ti sta chiedendo.

«Nanda ha lavorato molto per la libertà sessuale, ma quella degli altri. Lei libera non lo era, non c’è mai riuscita. Era vincolata al suo retaggio vittoriano, come diceva lei stessa».

Un retaggio che veniva da lontano, le origini scozzesi, la scuola svizzera, il padre banchiere genovese. Ecco, il padre: una figura che l’ha marchiata, un uomo dominante, «un possessore compulsivo di donne, che incontrava quotidianamente nel suo ufficio», spiega Enrico. Quel modello l’ha segnata e quel modello l’ha indirizzata inesorabilmente nel rapporto con gli uomini. «L’uomo ci prova, la donna sceglie se resistergli».

Vai a capire se poi è davvero una scelta o l’effetto di un tabù schiacciante: il punto è che possono esistere accanto, resistere entrambe le cose: per Fernanda Pivano tutta la vita fu così. E quindi la ragazza che aveva sfidato un interrogatorio nazista per aver tradotto di nascosto Addio alle armi, e che «fu tra le prime — fin dagli anni 40 — a portare i pantaloni e i capelli corti, tra le prime a divorziare e a tradurre testi stranieri», incarnò per tutta la vita anche la visione opposta, quella della «donna sottomessa», che accetta i tradimenti dell’uomo che ama e mai lo tradisce, che è corteggiata da seduttori saltuari o seriali con ottimi argomenti — belli, intelligenti, spesso entrambe le cose — ma a nessuno cede.

Cesare Pavese

«O scrivo o faccio la puttana. insieme è troppo faticoso»

Giovanissima, per esempio, si era fatta sedurre solo intellettualmente dal suo maestro Cesare Pavese, che «in lei sperava per avere una casa e un amore», scrisse Davide Lajolo. Celebre è la sua risposta a Neal Cassady, il classico bel tomo tra gli scrittori Beat, che dopo averci provato e riprovato le chiese frustrato «non bevi, non fumi, non scopi, ma allora cosa sei venuta a fare?» e si beccò una frase folgorante, che andrebbe analizzata parola per parola: «O scrivo o faccio la puttana. Insieme è troppo faticoso».

Ma perché Fernanda, verrebbe da chiederle oggi, perché loro, quei grandi uomini, potevano fare gli scrittori e i puttanieri e tutti ad applaudirli, e tu invece dovevi scegliere se lavorare o divertirti, salvo poi pentirti in tarda età di «non aver scopato Hemingway»?

Fernanda con Jack Kerouac

La risposta la dà Antonio Troiano, il capo della Cultura del Corriere, memoria storica di questo giornale e che con Rotelli è l’altro testimone perfetto della grandezza e delle contraddizioni pivaniane, essendole stato amico per decenni.

«Nanda era bella e ha difeso la sua integrità. Voleva essere riconosciuta per quello che era, una studiosa di letteratura americana», dice Antonio. La presunta auto-repressione sessuale, insomma, era un retaggio ma anche una necessità, perché se fosse finita sui giornali come preda/predatrice di scrittori anziché loro intervistatrice e basta, sarebbe fallita la doppia missione che si era data: portare la loro (contro)cultura in quel villaggio che era l’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, e farlo nonostante fosse una donna, perché per le donne quel mestiere semplicemente non era previsto: e infatti, spiega Antonio, «Nanda ha fatto una fatica enorme a difendere la sua professionalità, si è dovuta impegnare quattro volte gli altri», quando «gli altri» erano un plurale rigorosamente maschile.

Fernanda con Fabrizio De Andrè

Ed è con questa credibilità — conquistata «con chilometri di libri e di viaggi, leggendo tutto e andando a incontrare di persona tutti» — che «ha messo il Corriere al centro del dibattito culturale, dandogli l’immagine di giornale libero e rispettoso del lavoro degli scrittori». Il tutto «con un’umiltà e una gratitudine continue verso il giornale: era una che ti ringraziava — lei, Fernanda Pivano — per averle pubblicato un pezzo, senza mai pressarti prima. Non era consapevole di quanto fosse brava».

Quanto alla libertà, Antonio ricorda il racconto di una telefonata tra Allen Ginsberg e una giornalista cui Nanda aveva assistito, e in cui «l’aveva visto alterarsi a poco a poco, lui così mite e gentile. Alla fine era sbottato, “lei non ha capito che io ho lottato tutta la vita per l’affermazione della libertà, ma mi sono reso conto di aver perso”. Nanda aveva poi provato a consolarlo ricordandogli le cose meravigliose che aveva scritto e fatto da poeta e campione dei diritti gay, ma lui le aveva risposto che la strada era più lunga di quanto potesse immaginare». Valeva per un omosessuale, e valeva per una donna.

Ogni consolazione fisica dell’esistenza

In una ricognizione dell’animo pivaniano attraverso uomini che l’hanno conosciuta bene, non può però mancare lui, Ettore Sottsass, che prima di morire — la precedette di un anno, nel 2007 — ha lasciato un’autobiografia magnifica, scritta di notte, in cui la loro storia è raccontata nell’essenza, con frammenti che sembrano lampi.

Lui, Sottsass, l’apparente elisione tra donna libera e vincolata la spiega coi concetti di indipendenza e controllo, architravi dell’esistenza di ogni italiana audace dal Dopoguerra in poi: «Nella rivoluzione culturale nella quale Fernanda era immersa anima e corpo esisteva un postulato che era, come tutti i postulati, indiscutibile. Anzitutto prevedeva un nuovo stato indipendente della donna nella società, non conquistato con i sistemi della seduzione arcaica, ma con una specie di continuo controllo e invenzione della propria condizione etica. Un atteggiamento del genere, basato appunto sul controllo, significava tenere la distanza, una vasta distanza, da ogni partecipazione o consolazione fisica dell’esistenza».

Si erano conosciuti per telefono

Insomma, Ettore l’aveva capita perfettamente, e per questo non sorprende che nella loro storia durissima e meravigliosa si concentrino tutte le lacerazioni di Nanda, la libertà come cifra di una vita e la sua irraggiungibilità.

Si erano conosciuti prima della guerra, con una telefonata che lui racconta così: «Buongiorno. Mi chiamo Fernanda Pivano, sono laureata in lettere e filosofia, ho studiato pianoforte per otto anni, ho preso il diploma e adesso organizzo i concerti del GVF al conservatorio. Vorrei mettere in scena un’opera del Cinquecento. Poi le spiego meglio. Mi hanno detto che lei è molto bravo a disegnare scenografie e volevo sapere se le poteva interessare».

Si videro e lei non smise più di amarlo, lui ci mise un po’ a cominciare. Lei ad accoglierlo al rientro dal fronte jugoslavo e a nasconderlo nella casa del suo medico di famiglia. Lei a chiedergli due volte di sposarla, dopo la guerra. La prima lo trova «totalmente impreparato». Lei gli spiega: «I miei vogliono che io mi sposi. Sposerò un ufficiale americano che conosco. Lavorava con me alla radio. Andrò a vivere a Roma». Lui: «Non ho detto niente. Non avevo niente da dire. Una pietra mi è caduta addosso».

Il segreto di una vita

Quel primo matrimonio resta un mistero per tutti, perché lei non ne ha mai più parlato. Un mistero il marito, un mistero il divorzio. «Sacra Rota», immagina Enrico Rotelli, anche perché altri modi non c’erano. Sottsass racconta il nuovo incontro così: «Mi ha detto che stava divorziando e che sarebbe tornata a casa a Torino e se avevo ancora voglia di stare con lei. Le ho detto che mi sarebbe piaciuto molto, e dopo qualche mese è stato così».

Nel 1949, il matrimonio con rito civile a Torino, poi in treno a Milano, «il nostro viaggio di nozze» nella città che sarebbe diventata la loro base per il mondo.

Fernanda con Enrico Rotelli, al fianco della scrittrice negli ultimi anni, fino alla morte nell’agosto del 2009

Ma, fin dal primo momento, entrambi hanno l’esatta percezione di cosa li attendeva. Il racconto di Sottsass trasmette una lucidità brutale: «Sono entrato nell’ingresso blu e rosso della nuova casa tenendo in braccio la sposa Fernanda, poi l’ho fatta scivolare adagio perché mettesse i piedi per terra. “Eccoci qui” le ho detto, e senza neanche accorgermene mi sono messo a piangere. Fernanda mi ha chiesto: “Perché piangi?”. Non sapevo, o forse sì.

Le ho risposto: “Mi è entrato di colpo nella testa il pensiero che adesso dovrò vivere con te tutta la vita. Scusami”. Scusarsi non serviva. Fernanda non ha detto niente, ha sorriso. Era un bel sorriso, ma penso che stesse molto male, malissimo. Così, con un sotterraneo, inconscio, impercettibile senso di claustrofobia è cominciata la mia vita con Fernanda. Una vita fantastica, alta, senza cadute nel bene e nel male, andando di qua e di là curiosi e sempre sperando».

Antonio Troiano

Un impercettibile senso di claustrofobia

È così che due persone eccezionali comunicano in modo trasparente le difficoltà classiche di una coppia, nel 1949, l’indisponibilità di lui alla monogamia, la disponibilità di lei a subire anche i tradimenti. Il modello è rovesciato dal fatto che è lei il pilastro materiale, lei a mantenerlo mentre lui si avventura nel mondo del design industriale, lei a sgrezzarlo nei circoli culturali milanesi e con la passione dei viaggi. Prima Parigi, dove da sconosciuti vanno da chiunque — la moglie di Kandinsky, Brancusi, Kenzo, Paco Rabanne, tutti ad accogliere nei loro studi quei due giovani italiani pieni di vita — poi finalmente l’America, dove Nanda incontra gli scrittori, Faulkner, Carver, Dos Passos, Miller, Mailer e soprattutto quelli della Beat che segneranno la sua vita, Ginsberg e Kerouac su tutti. In quella fase, «in fondo la vita era bella. Stavamo penetrandola, eravamo forti, luminosi, contenti e non avevamo paura di niente; forse avevamo paura soltanto della nostra fortuna di essere giovani».

Ecco, quella fortuna, consumandosi nel tempo, li avrebbe divisi, la gioventù si sarebbe trasformata in rimpianto e maledizione. Un giorno, molti anni dopo, incrociano una coppia giovane in aeroporto, «e Nanda ha detto: “Che bella ragazza”. Ero soprappensiero, forse pensavo a lei o forse pensavo nel vuoto e credo di aver risposto: “Beato lui”. Mi era sfuggito, non lo pensavo, ma per il cuore di Nanda deve essere stato come una pugnalata». Il racconto della fine è altrettanto tagliente: leggerlo è soffrire.

Nanda, malata di polmonite, «è molto pallida nel letto, stanca, e piange, piange disperata quando le viene addosso la certezza che la felicità passata, la dolcezza, la speranza, la voglia di fare, le parole, i viaggi, i sorrisi, e tutto il toccarsi, aspettarsi, cercarsi, dirsi, confessarsi, domandare, subire, rinunciare, dare, sentirsi insieme, è tutto finito, non tornerà più, svanito, svanito come un profumo svanisce nell’aria». Nei litigi, «mi rovescia addosso un muro di accuse, mattone su mattone, per colpe antiche, recenti, grandi e piccole. Resto senza parole, resto immobile con le mie colpe da un lato e con il paesaggio della sua vita devastato per sempre e — questo lei, Fernanda, non lo accetta — anche quello della mia».

A sconvolgerli, i due paesaggi, è il fatto che lui, a 57 anni, è capace di «innamorarsi come un cretino» e la lascia per una giovane artista catalana. Il divorzio arriva dopo 27 anni di matrimonio quando non c’è più bisogno della Sacra Rota, è diventato legge per le battaglie di donne come Nanda. Da quel momento, lei sviluppa una sorta di misoginia intermittente. Ma la parte più importante è «intermittente». Racconta Rotelli: «A parole odiava tutte le donne, ma quando le conosceva le ammirava moltissimo. Più giovani e carine erano, più la facevano soffrire perché le ricordavano le donne che le avevano tolto Ettorino. Ma poi spesso ne diventava amica e consigliera».

Fernanda con Allen Ginsberg

Il sentimento era sempre ambivalente. Ancora Rotelli: «Quando arrivavano giovani colleghe a intervistarla, lei non mancava di ricordare a tutte che la loro libertà era il frutto delle sue lotte e del suo lavoro: “Se potete vestirvi così, in jeans o in minigonna, se potete scopare — sì, è un verbo che usava spesso — lo dovete ai miei amici scrittori, alla rivoluzione dei costumi e del sesso che hanno portato nel mondo”. E poi aggiungeva puntualmente: “Voi non dovete avere i rimpianti che ho avuto io, come con Hemingway”». Però mai debordare, e pazienza se il problema è proprio capire qual è, il bordo. Quello che non le piaceva era «l’atteggiamento esageratamente provocante. Non lo considerava autentico. Aveva adorato e praticato il teasing americano», l’ammiccamento misurato, il flirtare raffinato.

Il dito bagnato di whisky sul bordo del bicchiere

Insomma, questa donna che «preferiva la compagnia maschile», che per tutta la vita aveva conosciuto, accettato e considerato la norma «il modello del maschio che ci prova, perché così erano stati tutti i maschi della sua vita, il padre, il marito, gli amici», e che del Bukowski da tutti descritto come un arrapato impunito diceva «a me ha regalato una rosa», probabilmente, dice Enrico, non avrebbe capito il MeToo (mentre non avrebbe esitato a sostenere Black Lives Matter (le vite dei neri contano, ndr).

Allen Ginsberg e Kerouac ai tempi di On the road

Non avrebbe forse raggiunto i livelli espressivi di un’altra grandissima come Natalia Aspesi — «Se si incontra un maschio femminista, tirare su le mutande e scappare» — però «le avrebbe dato fastidio l’estremismo», come le aveva dato fastidio certo «femminismo rancoroso» degli anni Settanta. Una femminista classica, d’altronde, non avrebbe forse capito lei, il suo amore infinito e incondizionato per “Ettorino”, l’averlo aspettato sempre, nonostante tutto. Ancora nel 2004, da una stanza del San Raffaele dov’era stata ricoverata precipitosamente dopo un viaggio a New York, gli diceva «quando vuoi tornare io sono qui, ti aspetto», e l’ha aspettato fino all’ultimo giorno. Lui non è tornato «ma l’ha sempre aiutata, anche dopo la separazione», ricordano sia Troiano sia Rotelli, andando oltre gli alimenti, a sua insaputa.

Ma è possibile che nessun altro uomo sia riuscito a prendersi spazio in quell’anima? «Io credo che fosse innamorata di un amore tenero per Jack Kerouac», rivela Antonio Troiano. Un amore protettivo, che anche nelle pagine più impervie di On the Road vedeva «cose meravigliose, perle». E quando tutti lo facevano bere lei gli prendeva il bicchiere e glielo riempiva d’acqua, «e gli passava il dito bagnato di whisky sul bordo», aggiunge Enrico, in un inganno fatto di premura. Premura materna, certo: «Lo chiamava Ti Jean, come lo chiamava sua madre».

Alla fine, l’amore unico è stato quello in cui si è autoreclusa. Ma è stata una scelta, che come ogni scelta combatte coi retaggi e convive coi rimpianti: non per questo è meno libera. Ha i limiti che ogni libertà umana incontra o si dà. Tutti abbiamo una parte d’identità ereditaria e una elettiva. L’amore di Nanda per Ettore fu frutto di entrambe.

Ecco, oltre a portarci libri imperdibili e ad aprirci l’America, quindi il mondo, Fernanda Pivano è stata tutto questo, una straordinaria donna del Novecento che ha amato un uomo, ne ha ammirati tanti, ne ha rimpianto qualcuno, ma è soprattutto alle donne che, da maestra riluttante, ha mostrato la libertà, la sua fatica quotidiana, la sua meraviglia complicata e necessaria, il suo essere orizzonte irraggiungibile ma a cui non vanno mai voltate le spalle.

Articolo di Gianluca Mercuri per Sette del Corriere della Sera

Segue il video dell’intervista di Fernanda a Kerouac. Lo scrittore americano è visibilmente “bevuto”. Il video è, a suo modo, un documento di quell’epoca in cui spesso infelicità personale e ribellione sociale annegavano in un bicchiere di alcool. Ecco un commento che potrete leggere anche su Youtube: “Eccoli qua: il signor libertà e la signorina anarchia. Che bello quando la poesia non prendeva il potere ma ci sputava sopra! Kerouac, il magnifico e struggente disperato e la Pivano, la ribelle con grazia.”

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