METAVERSO

METAVERSO

L’uscita di Marck Zuckerberg sul METAVERSO ha fatto discutere molto nel mondo. Si tratta di un progetto mastodontico e futuribile che pochi hanno capito, ma sul quale forse vale la pena dedicare qualche minuto di approfondimento: non si muovono decine e decine di miliardi di dollari solo per scrollarsi di dosso un periodo assai gramo, fitto di critiche e rimproveri piovuti sul fondatore di Facebook e del suo ruolo di monopolista del web e (in un prossimo futuro) della realtà virtuale. Il tema è stato oggetto di informati articoli apparsi su Il Foglio, il Corriere della Sera e sul Sole 24 Ore, che riassumiamo per i lettori di Ninconanco.

Nessuno sa niente del prossimo, mastodontico progetto di Mark Zuckerberg che dovrebbe cambiare la nostra vita. Per adesso non è niente di più di una partita di poker virtuale e immersiva. Però costa dieci miliardi di dollari

Il video con cui il presidente di Facebook, Mark Zuckerberg, ha cercato di spiegare il Metaverso il 28 ottobre scorso ( Lapresse)

Il video con cui la settimana scorsa il ceo di Facebook, Mark Zuckerberg, ha rivelato che la sua società cambierà nome in Meta e annunciato ambiziosi progetti per la costruzione del metaverso ha tutta una serie di pregi. E’ molto ben prodotto e mostra gli sforzi sovrumani di Zuckerberg, che ha presentato tutto l’evento, nel cercare di apparire una persona affabile e non robotica, com’è sempre in tutte le sue apparizioni pubbliche. Contiene anche una certa autoironia, come quando, nel corso delle varie presentazioni di mondi digitali simili a videogiochi, Zuckerberg parla a un robot e dice: “Ma il robot dovevo essere io!” ( anche qui, accenni alla personalità legnosa del fondatore). Soprattutto, il video rappresenta la prima volta in cui il capo della società che più di ogni altra al mondo ha investito e lavorato nella costruzione del metaverso spiega finalmente cosa sarà, questo metaverso. E’ una gran noia.

Un po’ di storia, per chi non ne avesse sentito parlare: la parola “metaverso” fu inventata nel 1992 dallo scrittore americano Neal Stephenson, che nel suo libro “Snow Crash” la usa per identificare un mondo virtuale in cui i suoi protagonisti si ritrovano per sfuggire alla realtà catastrofica del mondo reale. Concetti simili al metaverso di Stephenson sono stati adottati anche da altri autori fantascientifici ( si pensi a “Ready Player One” di Ernest Cline, da cui Steven Spielberg ha tratto un film), e più o meno da sempre il metaverso è un pallino di tanti imprenditori ed esperti di tecnologia. Gli imprenditori come Zuckerberg che vogliono costruire il metaverso parlano di un mondo virtuale – o di una serie di mondi connessi tra loro – a cui si dovrà accedere tramite dispositivi per la realtà virtuale, e in cui le persone potranno incontrarsi, lavorare e fare varie attività. Come nel mondo reale, ma meglio.

Se ne parla da decenni, ma qualche tempo la discussione è diventata più eccitata, e si è cominciato a dire che il metaverso sarà la nuova “big thing”, la nuova rivoluzione della tecnologia mondiale, capace infine di sostituire internet sia come strumento di comunicazione e svago sia come produttore di eccezionali profitti per le aziende che vi operano. Da ormai oltre un anno vari personaggi centrali del mondo tecnologico parlano in maniera sempre più esaltata e piena di aspettative del metaverso, e della montagna di soldi che sperano di farci investendoci sopra: da Mark Zuckerberg a Tim Sweeney, il capo dell’azienda che produce il videogioco Fortnite, ai dirigenti di Google e Microsoft. L’investitore tecnologico Matthew Ball, che l’anno scorso ha pubblicato un paio di lunghi articoli considerati i migliori sul tema, ha scritto che quando tutto sarà pronto il metaverso frutterà migliaia di miliardi di dollari.

Ma quando Ball tenta di spiegare cos’è per davvero, questo metaverso che genererà ricchezze indescrivibili e rivoluzionerà il mondo, le cose si fanno confuse. Ball elenca alcune caratteristiche basilari e dice, per esempio, che il metaverso dovrà essere “persistente”, cioè dovrà rimanere online anche quando l’utente si disconnette e torna nel mondo reale; dovrà essere “in sincrono e dal vivo”, che significa che tutte le persone che vi partecipano dovranno fare esperienza delle stesse cose allo stesso tempo, e non dovrà mettere limiti al numero di persone che vi possono partecipare. Il problema, dice Ball, è che il metaverso è difficile da descrivere e anche da immaginare: non lo si può paragonare a nessuna delle tecnologie attualmente esistenti, e anche sulla terminologia Ball è piuttosto puntiglioso. Consiglia di non definirlo come un “mondo virtuale”, uno “spazio virtuale” o una “realtà virtuale” ( benché l’unico modo per esperire il metaverso sia tramite dispositivi per la realtà virtuale, come occhiali e caschetti), perché il metaverso è qualcosa di più ampio e complesso – cosa, esattamente, è difficile dirlo. Questo perché il metaverso ancora non esiste. E’ un’idea concepita da alcuni scrittori di fantascienza e accarezzata da decenni da imprenditori tecnologici molto entusiasti che da qualche tempo hanno cominciato a parlarne come di una rivoluzione imminente. La rivoluzione, tuttavia, è ancora lontana dal realizzarsi, anche perché, come abbiamo visto, nessuno sa descriverla in maniera concreta. Poi è arrivato Mark Zuckerberg, che per primo, la settimana scorsa, ha presentato un progetto abbastanza concreto, e mostrato cosa dovrebbe essere il metaverso per lui.

Eliminiamo subito alcuni fraintendimenti: Zuckerberg non ha annunciato il cambio di nome della sua società e i suoi progetti per il metaverso per distogliere l’attenzione dai recenti scandali di Facebook dopo la pubblicazione dei cosiddetti “Facebook Papers”. Facebook ha acquisito Oculus, azienda che produce dispositivi per la realtà virtuale, nel 2014, e da allora Zuckerberg ha continuato a investire costantemente nel settore. I progetti sul metaverso non sembrano nemmeno un bluff, a giudicare almeno dai dati ufficiali: come ha scritto il New York Times, Facebook intende spendere soltanto quest’anno 10 miliardi di dollari in investimenti relativi al metaverso, e 10 mila suoi dipendenti stanno già lavorando a progetti legati alla realtà virtuale. E’ probabile, dunque, che Zuckerberg sia davvero convinto che il metaverso sarà la prossima grande rivoluzione tecnologica e che sostituirà internet, e che si stia muovendo con forza per essere tra i primi a controllare questa nuova tecnologia e godere delle sue presunte ed enormi possibilità di guadagno.

La ricerca della prossima tecnologia rivoluzionaria, della “next big thing”, è un tema frequente nell’industria tecnologica, specie quella americana. I grossi imprenditori e investitori americani entrano periodicamente in fibrillazione per ogni nuova tecnologia che promette di cambiare il mondo e aprire mercati nuovi e sterminati: se ne parla per qualche tempo come di una grande rivoluzione, si fanno ambiziosi progetti, si fondano nuove società e poi dopo un po’ si passa alla novità successiva. Soltanto negli ultimi tre- quattro anni, quest’enorme eccitazione del mondo tecnologico americano ha riguardato, a ondate successive, l’intelligenza artificiale, il 5G, le criptovalute, il cloud computing e altro ancora. Queste tecnologie hanno un enorme valore, hanno cambiato e cambieranno interi settori industriali, ma sono ben lontane dall’essere la rivoluzione planetaria descritta dai tecnocrati sovreccitati nei loro momenti di maggiore entusiasmo. Ora l’eccitazione è tutta concentrata sul metaverso, ed è tale che una delle aziende più ricche e potenti del mondo, Facebook, ha deciso di cambiare nome in suo onore, e diventare Meta. Zuckerberg e i suoi colleghi sono convinti che il metaverso sostituirà l’internet, e che quindi il suo impatto sarà enorme e globale: non soltanto cambierà l’industria tecnologica, ma influenzerà radicalmente gli stili di vita di miliardi di persone in tutto il mondo. Secondo Zuckerberg, presto tutto il mondo trascorrerà gran parte delle sue giornate con un caschetto per la realtà virtuale in testa, dentro a una realtà digitale costruita per noi.

Eppure l’eccitazione dei tecnocrati nei confronti del metaverso, sotto molti punti di vista, è meno giustificata di quelle per altre tecnologie. Per avere successo, una tecnologia ( ma un qualsiasi prodotto) deve soddisfare due requisiti minimi: deve funzionare, e quindi essere utilizzabile e fruibile, e deve soddisfare un bisogno reale, o comunque proporre un’esperienza a tal punto nuova o migliore da generare domanda nei consumatori e utenti. Il metaverso, almeno per ora, non soddisfa nessuno dei requisiti.

Partiamo dal “funzionare”. Il metaverso attualmente non esiste perché non esistono ancora le tecnologie per costruirlo, o sono estremamente immature. Lo mostra molto bene il video di Facebook in cui Zuckerberg ha presentato la sua idea di metaverso: tutte le dimostrazioni contenute nel video erano effetti speciali cinematografici. Di solito, quando si presenta un nuovo prodotto o progetto se ne mostra il funzionamento, almeno in parte: quando Steve Jobs presentò il primo iphone, ce l’aveva in mano perché tutti lo potessero vedere. Ma il metaverso è ancora così lontano che per provare a farcelo vedere Zuckerberg ha dovuto recitare davanti a un green screen. Attualmente, è di fatto impossibile costruire mondi digitali con le caratteristiche e il livello di dettaglio immaginati da Zuckerberg. Anche le tecnologie che già esistono sono rudimentali. Per entrare nel metaverso, è necessario utilizzare dispositivi per la realtà virtuale. Ma questi dispositivi, grossi caschetti o occhialoni, sono scomodi, farraginosi e spesso devono rimanere collegati a computer per funzionare. I computer, per altro, devono essere molto più potenti di quelli usati dalla maggior parte delle persone, specie per gestire la grafica dettagliata del metaverso di Zuckerberg. Come ha scritto sull’atlantic Ethan Zuckerman, un noto esperto di informatica, Zuckerberg promette tecnologie che non saranno disponibili ancora per i prossimi cinquedieci anni. Non è improbabile che un giorno avremo mezzi sufficienti, e che i dispositivi per la realtà virtuale evolveranno a tal punto da diventare piccoli come un chicco di riso. Ma mancano ancora molti anni.

Il secondo requisito per il successo del metaverso è che risponda a un bisogno degli utenti, o che li attragga a tal punto da diventare una parte importante delle loro vite. E’ qui che la grande presentazione di Facebook mostra i problemi più gravi, più ancora dell’assenza di tecnologia. La settimana scorsa, Zuckerberg aveva la possibilità di mostrare al mondo l’ampiez – za della sua visione, di renderla evidente con dimostrazioni spettacolari che avrebbero reso chiaro perché il metaverso sarà rivoluzionario. Ecco invece una lista non esaustiva delle cose che secondo Facebook si faranno nel metaverso, e che sono state mostrate da Zuckerberg: fare una partita di scacchi online, fare una partita di poker online, fare una videochat con amici, condividere dei videomessaggi, fare una lezione di yoga a distanza, fare una riunione di lavoro a distanza, lavorare su una scrivania digitale che simula la propria, e che anche nella presentazione sembra eccezionalmente poco efficiente. Questa è tutta roba che si fa già da anni, in alcuni casi da decenni. E certo, con un grosso casco per la realtà virtuale sulla testa tutte queste attività saranno immersive, realistiche e piene di vita, se e quando avremo la tecnologia per renderle tali. Ma davvero il mondo dovrebbe essere esaltato dall’idea di fare una partita di poker online molto immersiva? Ancora Ethan Zuckerman ha scritto sull’atlantic che il gran problema del metaverso proposto da Facebook è che “è noioso. Il futuro che immagina è già stato immaginato migliaia di volte prima, e di solito in maniera migliore”. Wes Fenlon, un giornalista che si occupa di tecnologia, è stato un po’ più brusco e ha scritto che “il metaverso è una stronzata perché nessuno sa davvero spiegare perché sarebbe meglio” della vita reale.

Molti altri critici del metaverso si sono concentrati su questioni ulteriori. Per esempio, alcuni si sono chiesti chi lo controllerà, una volta che sarà costruito. Ma questi sono questioni a cui pensare più avanti. Il problema, adesso, è che non siamo sicuri che il metaverso sia tecnicamente fattibile, e soprattutto non siamo sicuri che serva a qualcosa.

C’è un altro elemento non tecnologico che i critici citano di frequente: nei racconti di fantascienza che Zuckerberg e gli altri hanno usato come ispirazione, il metaverso è sempre inserito in orribili distopie. In “Snow Crash” di Stephenson, il libro che ha introdotto il termine, la società e l’ordine mondiali sono crollati, l’econo – mia è in mano a gruppi mafiosi o a losche corporation, e lo “snow crash” è il nome di una droga. In “Ready Player One”, le persone entrano nel metaverso ( che nel libro si chiama Oasis) per sfuggire a un mondo in cui la maggior parte della popolazione vive in baraccopoli degradate. Sui libri di fantascienza, il mondo virtuale diventa apprezzato e accettabile soltanto quando il mondo reale è diventato insostenibile.

Articolo di Eugenio Cau Il Foglio Quotidiano

METAVERSO: ecco cosa c’è di concreto nei mondi virtuali. Al di là degli annunci di Facebook (ora Meta) e Microsoft qualcosa si può già toccare. Ma ci sono da risolvere i limiti dell’hardware e il rebus di un ecosistema di contenuti plurale (e tutto da costruire).

Ci vorranno cinque anni, 10 miliardi all’anno, 50 milioni solo di sviluppo e almeno 10mila nuovi posti lavoro prima che il metaverso concepito da Mark Zuckerberg sia usato da milioni o miliardi di persone. Nell’attesa è già possibile accedere a pillole, piccoli frammenti su cui già stanno lavorando e che andranno forse ad animare la visione un po’ antica alla Ready Player One che il fondatore di Facebook ha voluto comunicare per generare interesse nel mercato degli sviluppatori. Diciamo subito che se vi aspettate i Fantasmi della forza di Guerre Stellari che si sono visti nei video di presentazione di Meta rimarrete delusi. Di concreto nel disegno virtuale di Meta c’è la piattaforma per la realtà virtuale di Oculus acquisita nel 2014 per due miliardi di dollari. In sette anni gli ingegneri hanno lavorato di innovazione incrementale sul visore, adattando i contenuti ai limiti hardware della tecnologia. L’ultimo nato uscito nell’ottobre dell’anno scorso si chiama Oculus Quest 2: è un “all in one“ (non necessita di altro hardware e può essere utilizzato senza un computer o altro dispositivo che lo comandi) e senza dubbio è il miglior visore di realtà virtuale che potete trovare a un prezzo non proibitivo (349 euro per il caschetto e due controller). È più leggero, più stabile e l’immagine è finalmente più nitida. La latenza è uno dei maggiori problemi che causano la motion sickness (o chinetosi) quel senso di nausea che ha sempre minato l’introduzione di questa tecnologia. Per ridurla i caschetti devono avere una frequenza di aggiornamento almeno di 90 Hz (Quest 2 supporta i 120Hz). Il problema sono i contenuti non sempre all’altezza. Vuole dire avere tempi lunghi, permettere al giocatore di prendere confidenza con i controlli, per esempio, se l’ambiente virtuale si muove in modo diverso da ciò che il cervello si aspetta, ci sarà un conflitto fra quelle che sono le aspettative e ciò che l’occhio vede effettivamente. Nel tempo Oculus e chi progetta esperienze in 3D sono riuscita a ridurre i malesseri da chinetosi ma non li hanno eliminati del tutto

E comunque parliamo di mascheroni lontani dagli occhiali alla moda mostrati nel video di Metaverso. Mentre l’app store di Oculus che è ad oggi la metafora interpretativa per intuire quello che ha in mente Zuck è già popolata di giochi, video a 360 gradi ed esperienze più o meno interattive come l’esplorazione di luoghi d’arte e gli spettacoli. In ambito aziendale invece la Vr trova applicazioni in alcuni settore come la manutenzione, formazione e comunicazione.

A partire dal 2022 Oculus Quest 2 si chiamerà Meta Quest e conterrà le Meta App. Detto altrimenti, il brand Oculus sparirà. L’applicativo che forse è più interessante è Horizon Workrooms, lanciato in agosto, che vuole essere una nuova piattaforma per fare smart working in VR. Non sarà un servizio di videoconferenza con gli avatar ma vuole essere un nuovo modo di lavorare nel quale si potranno condividere file e progetti, replicare desktop. La gestione dello spazio con i controller e quindi l’interfaccia è forse l’aspetto più critico del progetto insieme a quello legato alla produzione di contenuti da parte dei concorrenti o di sviluppatori indipendenti.

Meno immaginifica, più concreta nelle applicazione ma non meno complicata è invece la sfida di Project Aria: niente visore chiusi su mondi sintetici ma occhiali “normali” capace di inviare e ricevere informazioni dal web, registrare video, scattare foto e accedere a ologrammi e artefatti digitali. Di concreto Facebook ha lanciato i Ray-ban Stories con Essilor Luxottica che si limitano però all’aspetto social (video e foto). Esistono però altre esperienze di smart glass. La più convincente è la piattaforma Windows Mixed Reality (prima chiamata Windows Holographic). A Ignite 2021 Satya Nadella ha rilanciato il suo metaverso per le aziende che sembra meno ambizioso ma più realistico. Ma nonostante i numerosi smart glasses in circolazione manca un ecosistema di riferimento di applicazioni. Facebook ha lanciato la sua candidatura. Per ora di concreto c’è solo quello.

Articolo di Luca Tremolada, il Sole 24 Ore

Il mondo parallelo di Zuckerberg: alla conquista dello spazio virtuale. L’annuncio del nuovo Metaverse e la crisi del vecchio Facebook: l’universo-oltre del social network potrebbe cambiare la nostra vita?

Mark Zuckerberg aveva vent’anni quando nel pensionato universitario di Harvard immaginò il social network. Era il 2004, non esistevano ancora gli smartphone. Pochi lo presero sul serio.

Tre miliardi di utenti dopo, Zuckerberg ha una nuova visione. Cambia nome a Facebook che diventa Meta (dal greco «oltre»), sdoppia la sua creatura, e punta a dominare il mondo del futuro: la realtà virtuale. «Metaverse» è l’universo-oltre. Ce lo descrive come «un luogo dove giocare, comprare beni virtuali, collezionare arte virtuale, trascorrere il tempo libero con i sosia virtuali (avatar) degli altri, e partecipare a riunioni di lavoro sempre virtuali». L’annuncio coincide con una grave crisi d’immagine di Facebook, bombardata di accuse per non aver vigilato abbastanza contro fake news, ideologie violente, aggressioni e odio che dilagano sul social media. Nelle rivelazioni che intitola Facebook Files, il Wall Street Journal riferisce anche di uno studio interno all’azienda secondo cui «un utente su otto fa un uso compulsivo del social media con effetti sul sonno, il lavoro, i rapporti con i figli o le relazioni sociali». Sui media americani un coro di scettici ha liquidato la metamorfosi come un trucco per distogliere l’attenzione dalle polemiche. Però sulla realtà virtuale il 37enne miliardario più famoso del pianeta aveva già messo al lavoro da tempo diecimila ingegneri. Ora ne assumerà altrettanti (gran parte in Europa), e investirà dieci miliardi di dollari. Facebook stava già conducendo una campagna acquisti in questo settore, assicurandosi il controllo di molte startup innovative. Una occupazione del territorio, in vista della prossima rivoluzione digitale? «Realtà virtuale»: immaginarne l’espansione evoca una distopia post Covid, un mondo asettico che cancella ogni contatto fisico. O magari una utopia ambientalista che elimini ogni mobilità fisica per azzerare le emissioni carboniche. In alcuni scenari estremi affiora la pulsione verso qualche forma di immortalità: trasferendo caratteri e funzioni ai nostri avatar, riusciremo a custodire in queste creature virtuali ciò che il deperimento fisico distrugge? La fantascienza gioca con queste visioni da decenni.

Di fatto la tecnologia che crea un ambiente virtuale è già onnipresente. Un avatar (termine preso in prestito dall’incarnazione delle divinità induiste), è la rappresentazione grafica di noi stessi, proiettata nel mondo digitale. Architetti e costruttori fanno ampio ricorso a un mondo virtuale per progettare edifici. I militari combattono guerre simulate, wargame. Le applicazioni della realtà virtuale alla cura dell’Alzheimer sono in corso da anni. Il cinema sostituisce comparse e figuranti con dei sosia grafici (costano meno) e il film ibrido «Avatar» (regia di James Cameron, 2009) appartiene alla preistoria di questo genere. Las Vegas ha inaugurato i concerti «live» di Whitney Houston, in scena si esibisce l’ologramma tridimensionale della cantante morta nove anni fa. Per gli appassionati di videogame incarnarsi nella propria identità digitale è parte del gioco. Il boom delle criptovalute che non hanno incarnazione materiale, asseconda lo sviluppo di un universo parallelo a quello fisico.

La banalizzazione della realtà virtuale è a portata di mano nel commercio: per acquistare abbigliamento e calzature online, faremo provare i prodotti al nostro avatar, che ha le nostre misure fisiche. In America i consumatori Millennial hanno imparato a decidere l’acquisto di un mobile, un arredo, una cucina, simulandone il montaggio dentro la copia virtuale della propria abitazione. Una ricerca compiuta in Germania elenca settori pronti ad essere trasformati dalla realtà virtuale: commercio, manifattura (in particolare l’industria dell’auto), servizi informatici, spettacoli, istruzione. A scuola si può immaginare un corso di storia in cui i ragazzi manovrano i loro sosia digitali in una replica dell’antica Roma; imparano la geografia grazie ai loro avatar che viaggiano virtualmente. Per adesso vediamo frammenti sparsi di quello che potrà diventare un meta-universo onnicomprensivo. Zuckerberg vuole comporre il mosaico intero, e padroneggiarne gli accessi.

Quando Zuckerberg esalta il Nuovo Mondo dove potremo lavorare, fare acquisti, giocare come in quello reale», sorvola sui rischi. La sua Meta incontrerà gli stessi problemi di Facebook. Come tutelare la privacy e la sicurezza dei dati. Se la realtà virtuale diventa un luogo di fuga, un videogame moltiplicato all’infinito, fino a risucchiare buona parte delle nostre vite, altri pericoli balzeranno in primo piano: come i danni alla salute mentale.

Il fondatore di Facebook si concentra sulle opportunità. Nella costruzione di questo nuovo ecosistema, di questo Internet parallelo, può venderci già una parte dell’hardware, strumenti ottici come l’headset Oculus per farci trasportare nella realtà virtuale. Sotto la denominazione Meta potrebbero nascere presto negozi fisici che venderanno apparecchi ottici elaborati dalla divisione Reality Labs, per assuefarci a frequentare l’universo «oltre». Zuckerberg assegna a Meta una missione strategica: fermare l’esodo dei giovani, problema esistenziale che affligge Facebook. Proiettato verso il successo iniziale da adolescenti e ventenni, oggi il social media vive su un pubblico sempre più maturo mentre le nuove generazioni migrano verso TikTok, Snapchat. Un’altra chiave di lettura dietro la nascita di Meta è tecnologica. Oggi il social media dipende da piattaforme digitali concorrenti, cioè Apple per gli iPhone e il software Android per tutto l’ecosistema Google. Si è visto il prezzo di questa dipendenza: quando Apple ha cambiato le regole sulla privacy, ha limitato la capacità di Facebook di raccogliere dati sugli utenti. Invitandoci dentro la realtà virtuale, Zuckerberg ci sposta nell’universo di cui vuole controllare standard tecnici e coordinate. Il suo business principale resta la pubblicità (98% del fatturato) e la realtà virtuale è un nuovo spazio per la vendita. Né si può escludere una mossa difensiva verso l’antitrust. La sinistra democratica è favorevole a uno smembramento dei colossi digitali. Zuckerberg ha già sdoppiato il suo.

La critica prevalente liquida Meta come una fuga in avanti dettata dalla strategia di relazioni pubbliche. Frances Haugen, ex manager del social media, è la fonte di una valanga di rivelazioni. Al centro c’è la débâcle di Zuckerberg nella prevenzione di false notizie e aggressioni. I sistemi di intelligenza artificiale usati a questo fine hanno funzionato poco e male. Facebook ha investito col contagocce in questo campo, la manodopera umana che ha adibito a vigilanza e censura sui contenuti è insufficiente. «Ha dato la priorità ai profitti rispetto alla sicurezza delle persone e del Paese», è l’accusa risuonata nelle audizioni al Congresso. Ma uno studioso di social media, Nicholas Carr, prende le distanze dall’ossessione sul loro ruolo nella lacerazione della società: è illusorio attribuirgli il compito di disciplinare il discorso pubblico, quando l’America ha perso il senso del bene comune. Un altro autore che analizza la polarizzazione culturale, David French, ricorda che gli americani non ebbero bisogno dei social per massacrarsi fra loro durante la guerra civile o per spaccarsi nelle contese valoriali degli anni Sessanta. In quanto al sogno di traghettarci dentro un meta-universo virtuale, l’esperta di tecnologie del New York Times, Shira Ovide, invita a non sottovalutarlo: «Nell’indovinare il futuro, Zuckerberg ha già avuto ragione una volta».

Articolo di Federico Rampini per il Corriere della Sera

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