MI SONO RAFFREDDATO

MI SONO RAFFREDDATO

Ci siamo anche noi, i raffreddati vecchia maniera. Una minoranza mal vista.

E’strano: viviamo in una società sempre più attenta a dare diritti e voce a tutti, eppure c’è una minoranza fra noi che oggi non è riconosciuta, è ignorata come se non esistesse, condannata al silenzio e all’invisibilità. Sto parlando di chi ha la tosse, la febbre o il raffreddore – ma non ha il Covid. Esistono: essi vivono, e tossiscono insieme a noi. Sono ancora meno dei negativi ( altra minoranza in via d’estinzione), ma nessuno ne parla. Conosco personalmente gente con sintomi, che s’è fatta il tampone ( badate bene: il molecolare!) certa di risultare positiva, e invece no: è solo influenzata, “alla vecchia maniera”. Il virologo Silvestri afferma che il Covid si sta “raffreddorizzando”, ma nel frattempo esiste ancora il raffreddore “come una volta”, quello tradizionale, reazionario, analogico, “della nonna” insomma; anzi i casi di raffreddamento non pandemico sono in aumento date le finestre aperte per far uscire il Covid – ed entrare l’aria fredda e umida. Il mio primo pensiero per l’entrante 2022 va a loro malaticci, o meglio a tutti noi: dopo due anni spesi a lottare per il sacrosanto diritto alla salute, nel nuovo anno cercherei di spendere un po’ di energia collettiva anche per un sano diritto ad ammalarsi. Ammalarsi in santa pace, senza doversi autodenunciare, mettersi in fila, registrarsi, burocraticizzarsi insomma – che uno già sta male, ci manca solo la burocrazia. Negli ultimi due anni ogni starnuto è stato percepito come uno tsunami, ogni colpo di tosse un meteorite, ogni linea di febbre l’equivalente di una macchia scura su una lastra ai polmoni; e via tracciando ogni “etciù”, ogni “coofcoof”, persino ogni schiarimento di voce. Ci bastava avere il naso che colava per biasimare il nostro stile di vita e provare un senso di colpa cosmico verso la collettività – nean – che fossimo evasori fiscali o mandanti di stragi. Risultato: negli ultimi due anni tutti a ostentare salute e benessere, “BENE!” risponde isterica la gente quando adesso gli chiedi come sta, nessuno che risponda più con quegli assai più credibili “insomma” o “si tira avanti” per paura di finire isolato ai domiciliari in quarantena coatta; e a essere minata è finita la salute mentale di questi “bene- stanti”.

Nel nuovo anno auguro a tutti noi di poterci svegliare con il mal di testa e dolori dappertutto e non per questo essere friendzonati dalla società per quattordici giorni; auguro a me stesso e a ciascuno di voi di non dover chiamare i propri contatti stretti nelle ultime 72 ore solo per aver starnutito; auguro a tutti di poter essere sereni, anzi di più, del tutto indifferenti, quando una persona che abbiamo visto l’altro ieri oggi ha 38 di febbre. Mi/ ci auguro di non fare più caso al vicino che tossisce, all’invitato con la raucedine, al collega con una brutta cera. Godiamoci i nostri mal di schiena, i nostri brividi, la nostra stanchezza immotivata, senza ulteriori ansie, remore o beghe. Torniamo a stare male, per tornare a stare bene.

Saverio Raimondo, Il Foglio Quotidiano

LA MISSIONE DI VIRGINIA

LA MISSIONE DI VIRGINIA

Una nuova biografia pubblicata da Adelphi della leggendaria contessa di Castiglione, spia di Cavour nel letto dei potenti. Sorpresa: era anaffettiva, bellissima ma senza fascino.

Bella era bella Virginia Verasis di Castiglione, anzi bellissima, divina creatura fin da bambina. E sapeva di esserlo, il suo amor proprio non avrebbe tollerato qualcosa di meno. Era così dannatamente vero che sua madre considerò la sua reputazione di adolescente “un affar serio”. Era astuta, anche: dotata di un sicuro istinto per l’ascesa mondana e di un vero talento per la simulazione. Avrebbe potuto essere una grande interprete, fece l’attrice nella vita spaziando dalla commedia al melodramma. Certamente è stata la prima celebrità nel senso moderno del termine. Una che voleva “essere famosa per essere famosa”. Ossessionata dal culto della propria immagine e capace di crearsene una, lavorando la propria icona con i mezzi offerti da un’arte allora in ascesa: la fotografia. I parigini avrebbero pagato volentieri il biglietto per vederla con uno dei suoi favolosi costumi e i giornali potevano attribuirle qualunque indecenza.

Lo racconta Benedetta Craveri in una nuova biografia, pubblicata da Adelphi, che arricchisce la sua straordinaria collezione di ritratti di grandi dame con La Contessa – Virginia Verasis di Castiglione, una storia della Castiglione, la spia che Cavour mise nel letto di Napoleone III, rivisitata grazie alla scoperta di nuovi documenti, diari e corrispondenze di chi le fu vicino e – soprattutto – grazie alle lettere che scrisse lei stessa in una lingua meticcia, italo- francese, al suo solo amico, il principe Giuseppe Poniatowsky, con il quale aveva stretto un patto di complicità ai tempi della sua missione a Parigi. “Duemila pagine di straordinario monologo epistolare”, in cui la Contessa si racconta “all’unica persona con cui poté essere se stessa”.

Eccoci dunque dentro un sontuoso affresco d’epoca, dove la storia europea si intreccia con la vita, con il costume, con la mentalità e con la psicologia dei protagonisti. Tenendo sempre al centro lei, Virginia, Nini, Ninny, Bisisi, Nicchia. La ragazzina di provincia, fiorentina- spezzina, figlia di un diplomatico già deputato del Parlamento subalpino e amico di Massimo D’azeglio, che vediamo farsi largo nei salotti di Firenze, la città più gaia, sostenuta dalla benevolenza di Lady e Lord Holland, ministro del Regno Unito presso il granduca di Toscana. Aveva imparato rapidamente le lingue e a dodici anni padroneggiava il francese, l’inglese e il tedesco; a quindici era già nelle cronache mondane. Quando conquistò Torino, dove giunse nel 1854, sposa diciassettenne del conte di Castiglione, più anziano di lei di undici anni e devoto suddito d’amore, la severa aristocrazia sabauda si affollava a teatro sotto il suo palco per ammirarla. Per il debutto a corte, dove fu accolta grazie ai buoni uffici di Massimo D’azeglio, la nobiltà saliva sulle sedie per poter assistere al suo incedere. Un fenomeno, la cometa di un’epoca. La tappa successiva sarà Parigi, dove Virginia giunse nel 1856 e dove divenne diva mondana, ideatrice di pirotecniche uscite in elaborate mise: abiti eccentrici e parrucche incipriate, cariche di piume e di perle, che fecero di lei una celebrità sempre presente sui giornali. Una meraviglia italiana talvolta velenosamente criticata per cattivo gusto, ma in fondo avvolta da un’aura di ammirato stupore. Qualcosa di cui non si potrebbe capire l’importanza – scrive acutamente Benedetta Craveri – senza considerare che all’epoca del Secondo Impero la moda, il trucco, l’artificio, il travestimento rappresentavano, “non diversamente dalla letteratura”, “un processo artistico che estetizzava la natura, la ‘ ornava’, sottraendo l’uomo alla sua animalità”. La Contessa era insomma lo spirito del tempo: la persona giusta nel posto e al momento giusto.

Contessa di Castiglione

Conquistò Parigi in meno di un mese e la sua irresistibile ascesa la spinse – come si sa – tra le braccia dell’imperatore parvenu, quello che si era messo la corona in testa con un colpo di stato, che invano cercava la legittimazione dell’aristocrazia europea e che, per l’Italia, dove la sua famiglia aveva trovato rifugio, aveva un occhio di riguardo. Erano fatti per incontrarsi, dunque, forse anche perché lui era già in età, aveva cinquant’anni, mentre lei ne aveva solo diciannove: nelle corrispondenze e nei diari, infatti, lo avrebbe sempre chiamato sprezzantemente il Vecchio.

Se al primo incontro lei fu intimidita, e lui la trovò “bella ma priva di esprit”, al secondo giro fece colpo. Si incontrarono sulle scale, la Contessa andava al ballo che l’imperatore stava lasciando. Lui disse: “Arrivate assai tardi, signora”. E lei: “Siete voi, Sire, che andate via assai presto”.

Napoleone III aveva intorno una corte giovane e gaudente, democratica e populista, dall’identità “sommaria e raccogliticcia”. Sua moglie, Eugenia de Montijo, era una grande di Spagna sposata per amore e al momento distratta dalla sua prima maternità. Del resto, era tutt’altro tipo di signora: romantica, utopista, poco interessata al sesso. Quando arrivò Virginia, dal matrimonio, lui non aveva ancora avuto un’amante titolare. Poi ne avrebbe avute altre, ma la Contessa era così provocatoria e incline allo spettacolo da suscitare sicuro imbarazzo. Si capì che l’affare era fatto durante una festa, quando i due si allontanarono in barca, con l’imperatore ai remi, verso un isolotto boscoso dal quale lei tornò spiegazzata. L’imperatrice avrebbe provveduto a farla sorvegliare e brigato nel tempo per favorire l’insediamento di un’altra amante ufficiale, tanto l’italienne le parve politicamente pericolosa e socialmente eccessiva.

Vittorio Emanuele II

Ormai la missione era in corso. La Contessa, che prima di lasciare Torino aveva ceduto a Vittorio Emanuele II, nominato nelle sue carte come “il Porco re” per la brutalità animalesca che esercitava in modo seriale, era stata arruolata da Cavour “nei ranghi della diplomazia” e invitata “a conqueter e a sedurre, ove d’uopo”. Il prezzo pattuito per le informazioni sottratte all’imperatore ( ma questo, mentre annunciava l’avvenuto ingaggio in una lettera al ministro degli esteri Cibrario, Cavour non lo diceva) era un incarico diplomatico di prestigio per il padre di lei, considerato “un imbecille” ma promosso con l’avallo del re. Insomma tutti avevano un tornaconto in quella complessa partita che – vista in prospettiva, dall’alto – aveva il suo grande obiettivo politico: ottenere l’appoggio della Francia in ragione del comune intento di sgretolare l’ordine europeo stabilito con il congresso di Vienna dopo la disfatta di Napoleone. E porre così la questione delle autonomie nazionali. La questione dell’Italia.

Visto dal basso, invece, tutto suonava piuttosto greve, come da missive inviate la fiduciario di Cavour alla Contessa: “Fatevi bionda, bionda come un campo di grano. E’ necessario, siamo intesi?”. Oppure: “Ricordatevi di tirar fuori il verme dal naso del Vecchio” ( il curioso esercizio sul verme si deve alla mala traduzione di una frase idiomatica francese, che significa spillare informazioni). In fondo, lo sapevamo che questo era stato il compito della contessa di Castiglione e che l’impresa univa interessi di famiglia (la carriera del padre) e questioni di stato. La bellissima Contessa fu usata e poi scaricata quando divenne imbarazzante per tutti. Quello che non conoscevamo, e che questo libro ci svela, è la versione di Virginia.

Non ci sono documenti di pugno della Contessa al tempo della missione e dunque sul suo primo soggiorno a Parigi parlano i contemporanei, tratteggiando il ritratto di una giovane donna tanto bella quanto antipatica. Un’incarnazione del “piacere aristocratico di rendersi sgradevoli”, allora definito da Baudelaire. Un “narciso femmina in adorazione davanti alla propria beltà, senza tenerezza, senza dolcezza nel carattere, ambiziosa senza grazia, sprezzante senza motivo …” e via dicendo, secondo il conte di Fleury. Per madame Carette, dama di Palazzo, era “una bellezza definitiva, fuori del tempo”, ma ” il fascino incredibilmente non c’era. Il bel viso era sempre atteggiato a un’espressione di alterigia, di durezza, che faceva pensare a quelle divinità che gli antichi cercavano di placare con i sacrifici”. Magnifica la descrizione della festa dove Virginia si presentò vestita da dama di cuori, con una chiara allusione alla sua capacità di incatenarli. L’amante dell’uomo più potente del momento non poteva che suscitare malignità. La sorpresa, leggendo le carte di Virginia, è che i maligni non erano poi tanto lontani dal vero: l’unica cosa che sembrava interessarla veramente era il potere che esercitava sugli altri attraverso la bellezza e, al massimo del delirio d’onnipotenza, il suo buon uso per tenere in scacco il mondo. Quando questa forza magnetica cedeva, la Contessa precipitava nel vuoto, nella rabbia, nella malinconia, nello spleen.

Napoleone III

Nel backstage della diva ci sono le angustie di una signora anaffettiva: dietro l’attrice c’era una donna bisognosa dell’adorazione continua per la quale aveva sviluppato una specie di dipendenza fanciullesca, infantile. Era spinta dalla costante necessità di verificare le sue capacità seduttive, perfino con il figlio bambino. Teneva una contabilità amorosa da dongiovanni, adottando un cifrario per annotare il grado di intimità concesso a questo o a quello. Il sesso era un gioco senza importanza, si dava con indifferenza, come una divinità; la freddezza era insieme la sua forza e la sua fragilità estrema. Perché non poteva fare a meno del calore altrui, dell’ammirazione e delle lusinghe. Visse nel culto di sé che, col tempo, l’avrebbe resa patetica. Non riuscì ad accogliere l’affetto dei pochi che l’amarono: il marito, di cui si stancò nel giro di un anno; il figlio, che finì per rivoltarsi contro di lei; o il principe La Tour d’auvergne, il diplomatico francese che usò per tenere sulla corda Napoleone III quando, caduta in disgrazia, dovette lasciare Parigi. Il principe l’amava e con lei aveva stabilito una profonda confidenza: “Tu sei me”. Si sarebbe preso cura di lei e del bambino, visto che ormai si stava separando da Castiglione, in cambio chiedeva una sola cosa, proprio quella che lei non poteva dare: essere corrisposto. “Amare non vuol dire umiliarsi”, le scriveva, “si può confessarlo senza vergogna a qualcuno che vi ama. Tu invece se fossi innamorata non lo diresti…”.

Ma la Contessa era sempre altrove, presa da piani di rivalsa e progetti di conquista un po’ maniacali. Al tempo della relazione con La Tour d’auvergne, le premeva ristabilire il flusso di informazioni che l’imperatore le aveva fornito e che si era interrotto con lo sfratto da Parigi: quello che le avrebbe permesso di continuare ad accedere a speculazioni finanziarie per garantirsi l’indipendenza economica. Per questo era disposta a spingersi al limite del ricatto (usare le lettere che aveva ricevuto da lui) ed era indignata dalla proposta di risarcimento che le era giunta: una liquidazione di appena seimila franchi. Forse Virginia non aveva cuore, ma aveva certamente audacia e fiuto per l’intrigo. Li usò per la cospirazione politica, per procurarsi denaro speculando in Borsa, per ottenere fama e attenzioni. Nei limiti delle condizioni sociali e culturali del tempo, fare l’amante di un uomo potente era uno dei pochi modi con i quali una donna poteva influenzare i grandi traffici del mondo. E questa era la sua ambizione, l’altra metà delle cose. La Contessa, che credeva nell’Italia e nella sua libertà personale, non fu peggiore degli uomini che la usarono. Pagò il prezzo (imperdonabile) di conoscerne le debolezze più intime.

Appaiono ridicoli i potenti che si piegano alle sue grazie. Rimasta vedova a soli trent’anni, Virginia intuì di non avere ancora troppo tempo davanti e giocò la carta del re d’italia, il noto predatore sessuale di cui aveva subito la prepotenza da ragazza e con il quale aveva poi mantenuto rapporti occasionali. Seppe tenergli testa, subissandolo di continue pressanti richieste e obbligandolo a trattarla da signora. Davanti a lei, Vittorio Emanuele si piegò in goffe movenze galanti: “L’infelice Padrone bacia le mani alla carissima Nicchia, 28 luglio 1867”. Oppure: “Signora contessa Verasis, stasera mi avete lasciato senza fiato per l’emozione”.

Annamaria Guadagni per il Foglio Quotidiano

ALVAR

ALVAR

IL VASTO MONDO DI ALVAR: Una vita “prazzesca”. Opere, memorie e incontri di Alvar González- Palacios, storico dell’arte e molto altro

González- Palacios alla Frick Collection di New York, 2018 ( foto cortesia Frick. org)

Alvar González- Palacios è uno degli ultimi campioni di una razza in estinzione, una genia di storici dell’arte che però scrivono come ai romanzieri italiani non riesce quasi mai. Scrittori più “a punto” dei prosatori, come se la precisione richiesta per decifrare un’opera, per trovare un’attribuzione, richiedesse la perfezione dello sguardo e poi della parola esatta. Gentiluomini dentro o più spesso fuori dall’accademia, più a loro agio tra principesse e musei che non in università scrostate. González riceve in un palazzo romano pieno di terrazzi, torrette, quadri e libri, sopra un’ambasciata sudamericana con bandiere e viavai anche in ascensore plurilingue e profumi fuorimoda. Sta lavorando a un nuovo fondamentale libro sul mobile romano, dopo aver scritto opere definitive sul Valadier, come su molti altri temi, e salta da una mostra curata alla Frick Collection a una al Getty, però il posto dove sta bene più di tutti è qui, in questa Roma rallentata, fuori tempo massimo, eterna e tropicale. Quale posto migliore, effettivamente, per uno scrittore d’antichità nato a Cuba? In realtà Roma non era prevista, la mamma voleva che studiasse a Yale, “ma sa, io ho sempre odiato gli Stati Uniti, non so bene per quale motivo, ma proprio detestati. Anche mio padre era così. Per farmi apprendere l’inglese ci portò quindi in Canada”. Il padre “veniva da una vecchia famiglia cubana, da giovane era stato comunista, aveva sempre combattuto Batista e poi incomprensibilmente accettò di fargli da ministro della Cultura alla fine, e poi morì poco dopo. Non l’ho mai compreso. Ma io del resto la politica non l’ho mai capita, non mi interessa”, dice González- Palacios sorseggiando un Tio Pepe. “A me piacevano piuttosto le principesse. E’ un po’ ridicolo? Forse. Ma che ci posso fare?” Lui, il piccolo, sognava quindi Roma, la Roma degli anni Cinquanta, che però alla mamma sembra troppo piena di distrazioni e tentazioni. “Per fortuna sulla nave che ci porta in Italia, la Cristoforo Colombo, mamma fa amicizia con questa famiglia fiorentina, i Magrini. Li trovò talmente noiosi e quindi rassicuranti che decise: andrai a Firenze. Così vado a Firenze, ma i Magrini non li ho mai visti, e ne ho fatte di tutti i colori”.

Gonzàles-Palacios discendente di un’influente famiglia locale, si trovava in Europa al momento della presa del poter di Fidel Castro e scelse di non far ritorno nel proprio paese, stabilendosi poi in Italia: a Firenze, a Milano e quindi a Roma, dove vive attualmente. Ha studiato nelle università dell’Avana, di Parigi e di Firenze; in quest’ultima è stato allievo di Roberto Longhi e si è laureato con una tesi sull’arte di corte a Napoli. Si segnala come uno dei massimi storici delle arti decorative, con una predilezione per l’area italiana, francese e spagnola; numerose sono le sue pubblicazioni in questo campo. Intellettuale e uomo di mondo, ha narrato le proprie vicende biografiche in due volumi: Le tre età (Longanesi1998) e Un anno di meno. Diario del 2006. Case, musei, incontri, viaggi (Skira, 2007).

Al posto dei Magrini un mondo ancora incapsulato nel suo sortilegio: la grande Firenze anglo- aristo- artistica. Incappa in Longhi, il gran maestro della prosa antiquaria e non, che lo fa desistere dagli studi letterari, e gli apre gli occhi sulla pittura. Longhi dalla sigaretta pendula alla Jean Gabin, Longhi “che mi stupì per la conoscenza dell’arte messicana”, Longhi soprattutto protagonista di una colossale guerra delle ville. In un determinato momento storico infatti insieme a Harold Acton e a Bernard Berenson quei tre numi della storia dell’arte si contendono il primato intellettuale- aristocratico- immobiliare sulla città. “Quella di Acton era una vera gran villa, poi quella di Berenson una villa normale, quella di Longhi piuttosto un casale”. Com’erano i rapporti? “Tutti nemici di tutti. Da Acton, con la vecchia mamma che leggeva diversi saggi, anche cinque o sei alla settimana, in altrettante lingue, passavano i Sitwell, le sorelle Mitford, Evelyn Waugh”. E il padrone di casa, forse non imparentato con i veri Acton inglesi o napoletani, c’era un mistero su questo, però con la mamma di Chicago certamente ricchissima, “più smaltata che truccata”. E si lamentava, “ah, beato te che sei qui, leggero, senza famiglia. Non sai che noia, gestire le quattordici persone di servizio. A me, che ero senza una lira, con la rivoluzione di Castro in corso”.

Bernard Berenson

E poi c’era Berenson, animale guida di González: un lituano che era emigrato ragazzino negli Stati Uniti, che aveva studiato ad Harvard, e che è stato il primo di una razza, “avendo inventato quel prototipo di critico d’arte-guru-connoisseur-esperto-santone-esteta-esegeta-entità morale proprietario di villa, giardino, biblioteca”. Un mondo di intellettuali capaci di stare a tavola in più lingue, che non avevano abbracciato il pauperismo ma avevano scelto il grande stile, coadiuvati talvolta dai commerci, piuttosto fiorenti. “Chi non commerciava era perché non lo sapeva fare. Gli altri semplicemente mentivano”. Dunque ecco Berenson che scrive alla favolosa committente Isabella Stewart Gardner lettere collaudatissime: prima “un commento lirico sul tempo, poi qualche informazione sulla vita delle aristocratiche dame che ammaliavano ambedue i personaggi ( quante principesse!), poi una smaltata descrizione di fiori e tramonti cui fa seguire i rapporti sulla propria fragile salute. Poi arriva al mezza pagina orchestrata alla perfezione sulla storia dell’arte attorno a un dipinto in vendita, un capolavoro che era sempre un’occasione irripetibile ( con istruzioni dettagliate su prezzo, luogo di pagamento e codice per il telegramma di – si sperava – fervida accettazione”). E madonne duecentesche che passano le dogane nei sottofondi di bauli pieni ufficialmente di bambole. Anche Longhi commerciava? “

Anna Banti

Ma certo”, dice González sotto un quadro “di scuola settecentesca bolognese”, “vede? E’ perfettamente intatto, e questa è la cosa che più conta alla fine”. “E giocatore d’azzardo, Longhi”. E oltretutto: sadico con gli studenti: “Mandava in giro uno a portare a mano un invito a cena per un altro, cena alla quale l’altro non era stato invitato. Alla fine tutti odiavano tutti”. Longhi però “grazia demoniaca”, uno dei più gran prosatori del Dopoguerra, il più gran maestro di Arbasino, per quanto ci riguarda, più di Gadda. “Ma anche, rispetto al Berenson più internazionale, goffaggine sociale. Invitava casual, e poi si presentava in smoking”. Un altro smoking andava magari regalato a uno studente povero, e però la moglie Anna Banti, la leggendaria Banteuse, celebre per caratteraccio, lo tagliava piuttosto a pezzi. E poi tante cortesie per gli ospiti: a una cena di riconciliazione, dopo molti anni di concorrenza e astio, Berenson chiede a Longhi: cosa si prova a essere sposati a un genio?”. Silenzio a tavola, la Banteuse per una volta protagonista.

Harold Acton

Erano tutti vecchi o vecchissimi, “e sì, mi son sempre piaciuti i vecchi, mi rassicuravano. Io collezionavo vecchi. Piacevano a me e io piacevo a loro”, dice di quel mondo lontano. A Firenze oltre ai vecchi leggendari e fuori dalle ville c’è la fame (“fame vera, quella che ti svegli di notte coi crampi nello stomaco”. Da Cuba non arrivava più un centesimo). Poi per fortuna González capisce che l’arte può non essere povera, altri mondi sono possibili. Va a lavorare con Dino Fabbri, fondatore della Fratelli Fabbri editore, inventore geniale dei Maestri del colore, “una collana di libri d’arte economici ma che avevano fotografie migliori dei volumi di lusso. Tutti ne avevano uno in casa. L’idea era che con cento lire tu potessi avere un’opera d’arte in casa”. Fabbri, abbronzato, in forma, sembrava “più rilegato che vestito”, scrive González in una delle sue raccolte, “Persona e maschera”, Archinto editrice. Ed era lui la famosa vittima degli scherzi agnelleschi, quello che chiamava l’Avvocato sul telefono in macchina e si sentiva dire “è sull’altra linea”, che comprava la Rolls e Gianni gli diceva che una Rolls senza sedili Luigi XV era niente, e via a metter su poltrone.

“Moltissimo tempo fa mi capitò di incontrare Ernest Hemingway; vivevo ancora nella mia città, L’Avana, e non avevo vent’anni. Non so più da chi gli fui presentato ma ricordo bene l’uomo e soprattutto il suo volto e l’aura che lo circondava.La sua faccia squadrata era ben protetta da una barba nera e bianca ma lo sguardo era velato dagli occhiali, aveva più forza che autorevolezza. Sembrava un giornalista a caccia di notizie, più seccato che interessato a quel che sentiva; vagamente sensuale, un po’ ambiguo. Si diceva che beveva molto e quella sera (o furono due?) gli piacque molto quel che gli offrivano – rum bianco, zucchero, limone, ghiaccio tritato – e mandò giù con gran disinvoltura una dozzina di Daiquirì. Faceva il he man ma non appariva più virile di Gertrude Stein, sua amica non sempre devota, nella Parigi degli anni trenta. Hemingway sembrava impersonare un ruolo – un regista cinematografico, un inviato speciale in tempo di guerra, un leone ruggente. O forse avevo deciso io di vederlo così come volevano il tempo e le circostanze.”( Il Manifesto-magazine , 2 agosto 2011)

Dopo Firenze arriva Milano, alla Feltrinelli con Giangiacomo sognante e Mario Spagnol specie di editore geniale e diabolico (“trasformò la moglie Elena, inappetente e astemia, in un’autorità come autrice di un sacco di libri enogastronomici”). E però non ama Milano: “Lì è tutto diverso, tutto più borghese”. Insomma niente principesse. “Ma che ci posso fare io se una principessa generalmente è più divertente di una signora Rossi? A me non è che piacciano le principesse in quanto tali. Ma i posti che abitano…

Giangiacomo Feltrinelli

Quale altra città oltre a Roma ti offriva ancora questi mondi intatti? A Londra, a Parigi, anche a Madrid, erano finiti da un bel po’. E poi gli spagnoli sono così cattivi. Lo spagnolo se ti può dire una cattiveria è tutto contento. Gli italiani sono cinici, ma cattivi no”. Dunque ecco Roma, “la città più bella del mondo”. E principesse a mazzi: Elvina Pallavicini detta Ninni, la leggendaria papessa nera, capa dell’aristocrazia romana, che a un certo punto gli commissiona il catalogo di tutti gli immani beni artistici del palazzo di fronte al Quirinale, ma prima vuole assolutamente conoscere meglio chi lo farà, dunque manda un impiegato, tale Fiore, a misurare l’ascensore di casa González, per verificare se la sedia a rotelle su cui è costretta da anni l’anziana principessa entrerà, ‘ per lei verrei ovunque’, e si presenta dunque finalmente con dama di compagnia, a vedere “dove scrive”. E Domietta del Drago, invece mobilissima, divertente e colta e quindi considerata una stramba nel suo ambiente, che poi passerà pari pari in “Fratelli d’italia”, dell’amico Arbasino, appellata “eccellenza, perché fino a non troppi anni fa ai principi romani si dava dell’eccellenza”, nel suo palazzo alle Quattro Fontane dove un tempo era stato bibliotecario un certo Winckelmann (” che poi finirà malissimo, assassinato da una marchetta, però a Trieste”). E giù imitazioni perfette dei vocioni principeschi (“prontooo, qui parla Elvina Pallavicini”, per la prima; “che nnnoiaaaa”, per la seconda. Anche le imitazioni del resto erano prerogativa longhiana e actoniana). Ma Alberto, con cui ci si vedeva da Bianca Riccio a San Salvatore in Lauro di tanto in tanto? Lì, Alvar: “Lo chiamavamo Sisal, perché di qualunque opera parlassimo, lui l’aveva già vista, mettiamo, nel ’ 58, nel ’ 64 e nel ’ 73. Una memoria prodigiosa, aveva, anche. Capace di ricordare tutte le edizioni del ‘ Parsifal’ o del ‘ Rosenkavalier’, con tutti i direttori d’orchestra, soprani, bassi e tenori”.

A Roma, ancora, leggende come Mario Praz (https://www.ninconanco.it/wp-admin/post.php?post=5228&action=edit), un altro che si era messo a studiare cose che tutti all’epoca ritenevano bizzarre o inutili, come l’antiquariato o l’arredamento. Col professore, vanno a vedere “Gruppo di famiglia in un interno”, a lui ispirato. “Volle che fossi io a pagare tutto, il biglietto, la trattoria prima, e il taxi, forse stizzito. ‘ Ma non mi somiglia per niente’, dirà poi; e ci credo, era bruttissimo rispetto al Burt Lancaster della pellicola. ‘ E poi io non ho quadri falsi alle pareti, e in quella casa sono tutti falsi! E non ho nessuna inquilina che canta’. L’aveva presa come una biografia sua, non capiva che era un gioco letterario. E però accanto a lui, a via Giulia, c’era Schifano, con un andirivieni, e insomma, quella modernità arrembante c’era”. Col professore, anche, qualche inconveniente. “Mi mandò a vedere la casa che Natalino Sapegno, uno dei massimi italianisti viventi, si era fatto e di cui era molto orgoglioso. ‘ Ti sono piaciuti i mobili? Glieli ho consigliati quasi tutti io, erano o troppo cari o non abbastanza belli per me’. Il giovane González risponde: ‘ Sì, bello, sembra però un albergo, un albergo dove vorresti andare tu, un Praz- Hilton’”.

Mario Praz

La storia del Praz- Hilton dilaga e giunge infine agli italianisti- hotelier, e si chiudono i rapporti. “Però non era uno iettatore. La prima volta che lo vidi e lo abbracciai mi disse che nessuno lo abbracciava da quarant’anni. Quella dello iettatore era una diceria. A me anzi ha sempre portato bene”. Insomma niente poteri paranormali. Chi li aveva, invece, sostiene González- Palacios, era Federico Zeri, e qui nel salone c’è una sua gran foto sorridente e benaugurante. “Aveva la capacità di leggere nel pensiero. Dopo un po’ lo sapevi e in sua presenza cercavi di pensare a cose buffe, ma lui se ne accorgeva e si infuriava moltissimo”.

Col più bizzarro di questa genia di connoisseur, rapporti non facili, silenzi di anni, ma poi “ci si voleva bene”. Zeri accusava Longhi di avergli sbarrato il cammino universitario, “ma non fu un male, dato che l’università in questo paese è abbastanza un luogo oscuro. A lei piace insegnare?”, chiede González sornione. Gli si risponde che si era persino pensato di studiare storia dell’arte, ma si rinunciò, perché daltonici. “Ah, ma non fa niente, tanto la maggior parte degli studiosi è cieca. E poi il gusto: generalmente molti storici dell’arte non ne hanno… Io detesto insegnare, tutti lo vedono come punto d’arrivo, uno status. Ma a me piace andare in giro per musei, far vedere un quadro, spiegarlo, tenerlo in mano, e poi per me l’accademia era un punto di partenza, metà della mia famiglia italiana insegnava all’università, non certo di arrivo”.

Meglio il gran mondo dei collezionisti. Il conte Vittorio Cini che a Venezia teneva decine di foto della moglie, ex star del muto, Lyda Borelli, tutte con la stessa dedica, “tua”, e opere mirabili anche in ascensore, “così me le guardo tutti i giorni”. John Paul Getty, l’uomo più ricco dell’epoca sua, leggendaria avarizia, che nel suo castello del Surrey avverte l’ospite prestigioso: “Se deve telefonare, il maggiordomo le porterà i gettoni per la cabina all’ingresso”. John Pope-Hennessy, il “papa” degli storici dell’arte, il direttore del British Museum, dalla voce talmente acuta, dalle frasi talmente spezzettate, che lo rendeva incomprensibile in ogni lingua. “Le prime volte pensavo fosse il mio inglese insufficiente, poi capii che era così per tutti”. Pope-Hennessy mediamente sadomasochista come tutti gli inglesi un po’ che va a riconoscere il cadavere del fratello morto invece in un festino sessuale troppo spinto, e prepara martini “brutali” nella casa con opere d’arte incomparabili ma senza riscaldamento, dunque gelida, a Notting Hill.

Vittorio Cini con Berenson e Banti

Tutte queste storie González- Palacios le scrive in un italiano luminoso come una terracotta dei Della Robbia e affilato come un Mantegna. “Oh, ma io non ho neanche una mia lingua, ormai neanche lo spagnolo lo è più”, dice, forse civettando o forse sincero, invece ha uno stile cesellato e secco, non rovinato dall’accademia e rispondente ai doveri di precisione che il lettore medio non pretende ma il magnate evidentemente sì. Ecco come descrive la casa di Sandro Orsi, antiquario milanese: “la ricerca del senso di un paese provinciale fra il ritmo compassato del Settecento e quello più sognante del romanticismo si percepiva ancora di più nell’appartamento vicino a San Babila. Non so se esista ancora quell’interno composto di piccoli ambienti per poche persone. Ricordo un’armonia di tinte sabbiose, di legni levigati, tutta misura ridotta come si confà ai soffitti un po’ bassi dei piani alti di una casa milanese che non intendeva diventare palazzo. Pochi ritratti veneziani di signori azzimati e un po’ limitati, il fiore leggermente appassito di una provincia civile lontana da Parigi e da Vienna con un suo carattere originale qua noiosetto là personale. Questa era la scenografia. Il presente erano tre bambini timidi, un paio di cani da caccia annoiati in città, pochi oggetti, cibi odorosi. Lidia materna e riservata poi Sandro polemico e contraddittorio, arguto e poi seccato di sembrare arguto e poi affettuoso”. Ma qui siamo già a un altro gruppo, un’altra famiglia, un altro interno.

Michele Masneri per il Figlio Quotidiano

SI SA TUTTO E NON SI SA NIENTE

SI SA TUTTO E NON SI SA NIENTE

PER SCUDARSI DAL COVID NON BISOGNA CEDERE ALLA PAURA IRRAZIONALE, AVERE FIDUCIA NELLA SCIENZA, MA SOPRATTUTTO DARSI UNA CALMATA.

Credo di aver trovato lo scudo protettivo contro lo sconforto da variante più recente, più trasmissibile, più letale, più elusiva dei vaccini, una tale rottura che non la nomino nemmeno: si sa tutto e non si sa niente. In Giappone le varianti si sono eliminate tra loro, pare, con risultati benedetti di virtuale, dico virtuale, scomparsa del virus nel collasso mutazionale. Ma non è sicuro perché i giapponesi, nonostante il professor Cacciari, si sono fortemente vaccinati e osservano scrupolosamente le norme antivirali, da sempre portano la mascherina e da sempre si inchinano a distanza tra loro. Forse la virtuale, dico virtuale, scomparsa della variante Delta dipende da questo e non dal collasso. Chissà.

Si sa tutto e non si sa niente. Le Borse sono credulone, crollano per via della sudafricana. Ma quante volte si sbagliano, e quanti sono diventati ricchi contando sulla credulità delle Borse. Il carattere sperimentale della scienza epidemiologica, che si avvale di modelli, statistiche, tracciamenti e ricerca biologica molecolare, è per essenza un metodo flessibile, che evolve, presenta sorprese, si autocontrolla. Enciclopedia Treccani, dunque. “Sperimentale, mètodo. Procedimento che si affermò nell’indagine scientifica a partire dagli inizi del 17° secolo. Consiste nel sottoporre le ipotesi scientifiche a procedure di controllo sperimentale, che servono a confermarle ( nel qual caso le ipotesi si trasformano in leggi scientifiche) o a confutarle”.

Il Covid, sotto Natale, come tante palline colorate appese all’albero

E’ un metodo induttivo, che parte dal caso particolare e cerca, dico cerca, di stabilire una costante o legge invariabilmente universale. Invece, sempre Treccani, la deduzione è “il processo logico nel quale, date certe premesse e certe regole che ne garantiscono la correttezza, una conclusione consegue come logicamente necessaria”. Due più due fa quattro, ma le varianti vanno studiate, sono la base di una ricerca sperimentale dalla quale si possono evincere alla fine ipotesi e anche leggi, ma alla fine di un percorso che in fondo, quanto al virus in circolazione, è appena cominciato. Quindi si sa molto, moltissimo, e si sa quasi niente. Si cerca, per lo più.

Eluderà i vaccini? Non si sa. Boh. Forse sì, forse no. Faranno altri vaccini idonei a contrastarla e in tempo utile a risparmiarci ulteriori disastri per la vita e l’economia? Probabilmente sì, ma probabilmente. Questione di sperimentazione. Dovremo ricominciare con i lockdown e le quarantene urbane? Chissà. Quel che è sicuro è che dobbiamo evitare il nostro collasso mutazionale, l’irruzione della sfiducia, appunto, dello sconforto, della paura irrazionale. Per ogni ipotesi o mezza ipotesi fin qui emersa quanto alle cause e agli sviluppi della pandemia, salvo l’utilità sociale accertata dei vaccini della mascherina e delle altre procedure igieniche di distanziamento, ruotano nell’aria altre ipotesi o mezze ipotesi, e da questo guazzabuglio emerge l’opinionismo maniacale del complotto e la coltivazione altrettanto maniacale della diffidenza. Siccome si sa molto ma alla fine si sa niente di definitivo, tutti pensano che si possa dire tutto. E’ un errore, bisogna scudarsi.

E allora la sola cosa che davvero si capisce, chi la vuole capire, è come ci si deve comportare, per sé e per gli altri: vaccinarsi, distanziarsi, mascherarsi, in generale darsi una calmata. La pazienza di accettare un’epoca virale è l’unico rimedio non fatalista e non nichilista, è appunto lo scudo, la ricerca della normalità nell’eccezione, che deriva dal sapere di non sapere, una saggezza superiore a ogni possibile panico.

Giuliano Ferrara, il Foglio Quotidiano

DE SENECTUTE E PANDEMIA

DE SENECTUTE E PANDEMIA

Si dice, a ragione, che la vecchiaia è il momento del ritiro, un tornare alle origini. Ricordo una zia, malata di vecchiaia, da tempo allettata. Si chiamava Teresa, vestiva sempre di nero. Nei suoi ultimi giorni, solo i suoi occhi, divenuti sbarrati ed enormi, davano segni di vita; il corpo, invece, era immoto, inerte, rannicchiato e come raccolto in una placenta. Un viaggio a ritroso, appunto.

Il male oscuro non sta però nel corpo dei vecchi, la malattia vera è un’altra e consiste nella rarefazione dei legami, dei desideri, dei ricordi che ti lasciano. Non solo il telefono è muto, o le stanze deserte, o l’agenda desolatamente vuota, e non vale appuntarti un nome, i pochi rimasti, se poi dall’altra parte nessuno ti risponde. E’ che un mondo ti ha lasciato, senza nemmeno salutarti, svanito come svanisce un sogno al risveglio. E tu non te ne sei accorto, anzi ancora rifiuti ad accettare che sei solo, comunque, anche in famiglia, o quello che ne resta.

Norberto Bobbio, ha scritto una biografia dal titolo De Senectute, sui passi di Cicerone

Ostentatamente, giorni fa sono rimasto in piazza grande, fermo, senza mascherina, le gambe aperte. Qualcuno mi riconoscerà, o lo riconoscerò io, mi dicevo. Una buona mezzora. Nel via vai, tanti volti sconosciuti, che interrogavo con lo sguardo, già atteggiandomi ad un sorriso o a una esclamazione, ma niente. Non sei nessuno e tutti sono nessuno. Ritornando a casa, sentivo il mondo così cambiato, che quasi non riconoscevo le strade, le insegne del solito bar, il portiere che non saluta. Questo prolungamento degli anni di vita è una terra ancora sconosciuta, da sperimentare, carica di incognite.

Gli effetti del Covid sui giovani li vedremo più avanti. Ma sui vecchi i suoi effetti li ha già avuti, irreversibili: ha reso più rapida e evidente la solitudine, fatto cadere progetti e velleità, propositi e rivincite, rubato il tempo, quel poco che era rimasto e che nessuno potrà restituirti. Ti senti profanato, derubato di qualcosa che ti apparteneva ma di cui non credevi di avere bisogno.

Marco Tullio Cicerone

E’ difficile cambiare obiettivi in limine temporis, l’abitudine prevale, il ragionamento nasce dogmatico, la novità è una scocciatura che va eliminata. Dov’è la tua apertura mentale, il tuo ragionamento tollerante, sei in un corpo una volta plasmato e duttile, ora irrigidito fino a soffocarti….  Anche la parola ti ha lasciato, non ne capisci più il significato, guardi il mondo come fossi in un acquario, dove capovolto stai sul fondo. Questa la “fine attiva” che Marco Tullio esaltava?

        

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