QUANTO M’E’ DOLCE L’UCRAINA

QUANTO M’E’ DOLCE L’UCRAINA

Il sole di Odessa, i castagni di Kyiv cari a Bulgakov “che per un moscovita erano esotici come palme”. Gli scrittori e l’eterno confronto tra la fredda Madre Russia e l’eccentrica terra affacciata sul Mar Nero

 

 

 

 

 

 

Anna Achmatova ritratta da Nathan Altman, 1914 (foto Olycom)

 

 

 

Com’è fortunata, lei che se ne va in Ucraina! A Kyiv ci sono le paste con la crema…”.

 

 

Mosca, autunno 1918. La scrittrice russa Nadežna Aleksandrovna Buinskaja, in arte Teffi, si ritrova da un giorno all’altro in braghe di tela: “La parola russa”, la rivista da un milione di copie di cui è collaboratrice, viene accusata di antibolscevismo e liquidata. Il clima si sta facendo irrespirabile e anche per lei, pur famosissima e molto letta – balocchi e profumi portavano il suo nome, era un’influencer ante litteram, ma per litteras – non era facile sbarcare il lunario.

 

 

 Aleksandrovna Buinskaja

 I caffè traboccavano di gente con i cappotti laceri e i giovani poeti vagano dall’uno all’altro ululando versi con voci affamate. Per strada, tra case buie e anfratti dove i passanti venivano soffocati e rapinati, sfilavano soldati dell’armata rossa che sospingevano gruppi di arrestati. Il cibo scarseggiava. Urgevano soluzioni.

“Un giorno si presenta Gus’kin”, scrive Teffi nel romanzo Da Mosca al Mar Nero, “un impresario strabico di Odessa che cerca di convincermi ad andare con lui in Ucraina per delle letture pubbliche. Mi dice: ‘Oggi ha mangiato la pagnotta? Bene, perché domani non sarà così. Non lo sa? Tutti quelli che possono vanno in Ucraina. Solo che nessuno può. Mentre lei la porterò io. Ho già prenotato la stanza migliore all’hotel Londra. Là splende il sole. Piglierà i soldi, si comprerà burro e prosciutto. Cos’ha da perdere?’”. Niente. Così Teffi si mette in viaggio. Arrivata a Kyiv, scriverà: “La gente va e viene da un negozio all’altro. I nuovi arrivati si ingozzano coscienziosamente. Tutti sono stracarichi di cibo. Vapore e fumo da tutte le porte. I negozi sono zeppi di prosciutti, salami, tacchini. Non è un sogno. E’ la vita vera”.

Cronaca di un’epoca sepolta, quel 1918 “ricco di sole d’estate e di neve d’inverno”, meteo-descrivendo il quale Michail Bulgakov dà avvio a La guardia bianca. Modello di riferimento per Pasternak, grande romanzo di Kyiv e di un mondo che tramontava mentre Dio “in volo nel cielo screpolato non dava risposte”, racconta le vicissitudini di quei giorni, della famiglia Turbin e di un’intera città che, indipendente dall’anno precedente, occupata prima dai tedeschi e poi dalle truppe del nazionalista Petljura, si preparava a fronteggiare la cupa bordata dei bolscevichi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Michail Bungakov

“La città fu presa e persa dalle truppe più disparate,” rievoca Viktor Sklovskij, che lì si trovava con la quarta divisione corazzata, in Viaggio sentimentale. “Ma i caffé continuavano a lavorare. Nel teatro della città si esibiva Armand Duclos, indovino e chiaroveggente. Indovinava i nomi scritti su un foglietto, ma tutti si interessavano soprattutto alle sue profezie. Ricordo le domande. “Sarà intatta la mia mobilia a Pietroburgo?” E lui, barcollando a occhi bendati sul palcoscenico: “La vedo, sì, la vedo. E’ intatta!”. Una volta gli fu chiesto: “Verranno a Kyiv i bolscevichi?”. E lui promise di no, aggiungendo che i francesi avevano un raggio ultravioletto in grado di accecarli. Lo incontrai mesi dopo a Pietroburgo, lavorava nella sezione culturale di un reparto dell’armata rossa”. E ricordando quella primavera da arruolato: “Quando le donne vestono di leggero, con abiti graziosi, è dura andare per strada con vestiti sudici. A Kyiv era dura camminare tra quella gente elegante trasportando catene d’automobile sulle spalle. A Pietroburgo no, non era dura: a Pietroburgo porti un grosso sacco pieno di legna e senti solo l’orgoglio di essere forte”. Differenza non trascurabile. Differenza essenziale. Non l’unica: era una città vivace, Kyiv, nella quale vivevano etnie diverse – russi, ucraini, ebrei, tedeschi – in perenne zuffa interetnica; l’eterogeneità, insomma, non era un fattore d’ordine come in altre città della Russia. Tuttavia l’effervescenza non pregiudicava la fioritura: presso l’accademia di Teologia in cui insegnava il padre di Bulgakov proliferavano sì circoli impregnati di idee nazionaliste, eppure l’ateneo aveva fama, anche a Pietroburgo, di essere il più lucido e aperto dell’epoca. La città, spazzata da brezze cosmopolite, era ricca di fascino. Lo scrittore Il’ja Erenburg scriveva: “Kyiv aveva parchi enormi, bellissimi, adorni di castagni. Per un moscovita erano esotici come palme”. (Di quei castagni, Bulgakov sentirà la mancanza per tutta la vita. Per non parlare del cioccolato Gala Peter, con la sua punta d’amaro, e degli arcinoti Biscotti del Capitano, tondi, di pasta frolla, con sale e cumino). I bar all’aperto, affacciati su viale Krešatik, straripavano di clienti e la gente “sorrideva per strada”. Lo scrittore de Il Maestro e Margherita, che in gioventù era fissato col biliardo – frequentava gli otto tavoli del polacco Golombeck, annessa birreria – mai sarebbe riuscito a far pace con la “folla lugubre di Mosca”, città estranea al temperamento estroverso dei suoi concittadini, abituati a godersela e a riempire allegramente i teatri per assistere alla “Carmen”, a “Gli ugonotti”, o a un “Barbiere di Siviglia” “con cantanti italiani”. Poi irruppe la Storia, calando la sua mannaia. Improvvisamente, per strada e sui tramvai, si sentiva parlare solo di come scappare. Chi poteva, spediva via i bambini. In stazione la gente stava in fila anche per tre giorni. I binari, le sale d’attesa, i gradini dei sottopassaggi erano invasi da profughi. Bulgakov si ritrovò a prestar servizio nell’ospedale da campo che la Croce Rossa aveva allestito proprio a Kyiv. Poi venne trasferito in Ucraina occidentale. Infine a Cernovcy. “Gli facevo da infermiera”, racconterà la moglie. “Reggevo le gambe che lui amputava. La prima volta mi sono sentita male, poi è passato”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Victor Sklovskij

 Intanto, settecento chilometri più a sud, Odessa: tramonti densi come marmellata, una vivacissima presenza ebraica e, nelle vetrine delle drogherie, rum della Giamaica, olio di Marsiglia, sardine Philippe et Canand, pepe della Caienna, sigari delle piantagioni di Peerpoint Morgan e arance di Gerusalemme. “Ecco che cosa porta sulla spiaggia la schiumosa risacca del mare di Odessa”, scriveva Babel’, canonizzandola per sempre nei suoi voluttuosi racconti e canonizzando anche, in un articolo del 1916, la sua irriducibile originalità. “L’odessita” – sosteneva – “è l’esatto opposto del pietroburghese. Ma Pietroburgo ha trionfato sul governatorato di Poltava”, miagolava rampognando a ritroso Gogol’, reo di abbandono della spensierata Ucraina in favore della spettrale città premeditata. E concludeva: “Odessa è l’unica città dove possa nascere quel Maupassant russo di cui abbiamo tanto bisogno”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Odessa viveva la sua gloria, celebrava la sua epica. Costruita sulle rovine di una fortezza turca, battezzata pensando a Omero e beneficiata da una primavera al profumo di acacia, le scene dei suoi teatri ardevano per Ja Kremer, famosissima cantante specializzata in un repertorio di “canzoni intime” che lei stessa componeva; nel 1916 era già un idolo in tutta la Russia ma nel 1919, via Costantinopoli, inevitabilmente fuggì, sbarcò a Broadway, fece carriera e si ritirò dalle scene negli anni 30, proprio mentre l’ucraina, sottoposta a una tremenda collettivizzazione forzata, registrava la morte per carestia di tre milioni di persone – Kremer romperà il silenzio canoro solo nel 1943, esibendosi alla conferenza di Teheran, alla presenza di Stalin, per il compleanno di Churchill. Ucraino odessita anche uno dei primi aviatori russi, S. I. Utokin: “impavido, elegante, con le braccia lunghe”, così lo raccontano gli articoli dell’epoca; vera rockstar, eroe amato per la spericolatezza delle sue imprese, ebbe un incidente precipitando nelle paludi di Novgorod e non si riprese mai più – curato con massicce dosi di cocaina e morfina, morì di polmonite in un ospedale psichiatrico. Ucraini di Odessa, infine, anche gli scrittori del gruppo “Kollektiv poetov”, stantuffo lirico di una città gaudente e libera, isola d’eccezione in un impero austero e autoritario. Città che, oltre a Isaac Babel’, regalò al mondo la fenomenale coppia di scrittori umoristici Il’f e Petrov, Semyon Gecht, Jurij Oleša, Valentin Kataev, Vera Inber, e il leggendario Eduard Bagrickij, il “François Villon di Odessa”, morto a trentotto anni. “Me lo ricordo da giovane,” scrisse Babel’. “Seppelliva i suoi interlocutori sotto una valanga di versi, indossava un camiciotto e un paio di calzoni alla zuava. Era chiassoso e somigliava solo a se stesso. Ci immaginavamo da vecchi, maliziosi e grassi, che già avevamo abbandonato le fredde città ed eravamo tornati a Odessa, sotto il sole, sul viale in riva al mare, ad accompagnare con uno sguardo insistente le donne che passavano…”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Isaac Babel

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Anche Aleksandr Puškin disse la sua, memorabilmente. Già nel 1831, parlando de Le veglie alla fattoria di Didanka di Nikolaj Gogol’ – opera straordinaria che esplorò le estreme possibilità della lingua russa, lavorando con una libertà “cui forse non era estranea la sua origine ucraina”(serenavitale)–contagiato dal lieto demonismo dei racconti, definì gli ucraini “una tribù che canta e balla”. Nei Viaggi di Onegin, ricordando una visita di qualche anno prima impreziosita da un audace amorazzo con la moglie del governatore, incoronò Odessa coi felicissimi versi: “Lì a lungo resta sereno il cielo / lì tutto respira d’europa / La lingua della dorata Italia risuona per l’elegante strada / dove passano lo slavo / il francese, lo spagnolo, l’armeno e il greco…”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Odessa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Strade, quelle ucraine, lungo le quali hanno camminato scrittori che paiono innegabilmente caratterizzati da un certo tratto indomito, di eccentrica irriducibilità. Quel tratto ce l’aveva Nikolaj Gogol’, genio debordante e piromane incontrollato, che non accettò le sue pagine e nemmeno se stesso, e fece di una crepitante disarmonia il codice armonioso di una bella lingua nuova. Ce l’aveva Michail Arcybašev, autore di Sanin, spigliato romanzone del 1905 accusato di offesa al pudore e con protagonista un uomo “del futuro”, cinico, istintivo, de-ideologizzato e disinvolto scopatore – “la vita non è che una sensazione”. Ce l’aveva Anna Achmatova, odessita di nascita e liceale a Kyiv, che a cinque anni parlava perfettamente il francese, espulsa nel 1946 dall’unione degli Scrittori Sovietici e accusata di estetismo e disimpegno, poi riabilitata ma pubblicata solo parzialmente in Urss. Ce l’aveva Michail Bulgakov, la cui massima opera fu pubblicata postuma e in vita dovette sopportare umiliazioni, interrogatori, perquisizioni e un espatrio che Stalin non gli concesse mai – gli concesse di lavorare al Teatro di Mosca ma non come drammaturgo. Ce l’aveva Jurij Oleša, che nel 1927 pubblicò L’invidia, coraggiosa satira, ambigua e anticipatrice, dello scontro tra mondo vecchio e mondo nuovo – troppo, per l’urss. Ce l’aveva Isaak Babel’, che inviato nel 1920 da Gor’kij al fronte polacco al seguito del generale Budënnyj, scrisse L’armata a cavallo, epopea di portatori di “libertà e sifilide” che conobbe un crescente apprezzamento letterario e una crescente serie di distinguo, fino all’accusa, per Babel’, da parte proprio di Budënnyj, “di appartenere alla vecchia, putrescente intelligencija” e di essere un degenerato calunniatore di eroi – il resto è storia nota, poco allegra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Iza Kremer

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ce l’ha, oggi, Serhij Žadan, lo scrittore ucraino più noto e tradotto. Un romanzo nell’anagrafe: classe 1974, infanzia sovietica nella regione ucraino-orientale del Luhans’k, ora residente a Charkiv. Il convitto e La strada del Donbas (Voland) sono due romanzi bellissimi, che galoppano, con una prosa che si srotola come un nastro, espressiva e ironica, e una rara capacità di raccontare un mondo attonito. Tra posti di blocco che modificano il tempo e asfalti sconquassati che modificano lo spazio, tra città assediate e vite traumatizzate, tra vagoni bruciati e fischi di granate, una speranza c’è, esiste sempre: per esempio un ex alunno che, pur diventato separatista, ti salva da un mercenario, proprio come accade a Paša, il professore de Il convitto .E improvvisamente, dopo tanta morte, la morte scompare. “A casa c’è odore di lenzuola appena lavate”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Marco Archetti per Il Foglio Quotidiano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

https://www.youtube.com/watch?v=DIfQk24ndcQ&ab_channel=mindworks

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DOPO 50 ANNI LA VERA LEZIONE DEL PADRINO, IL FILM CAPOLAVORO DI FRANCIS FORD COPPOLA

DOPO 50 ANNI LA VERA LEZIONE DEL PADRINO, IL FILM CAPOLAVORO DI FRANCIS FORD COPPOLA

Le polemiche sullo stereotipo dell’italoamericano e le critiche negative furono nulla in confronto alla mania che generò, dalla moda alla musica fino al linguaggio. Cinquant’anni fa usciva il mafia- movie di Coppola che emozionò Kissinger

”Il faccione severo di Marlon Brando campeggiava da giorni sulle copertine di Life e Newsweek (“Brando play a Mafia chieftain”). La premiere del film era l’evento più atteso della stagione e per l’esclusiva serata di gala, il 14 marzo del 1972, fu scelto il Loew’s Theatre di Broadway. Quel giorno un’improvvisa tempesta di neve aveva paralizzato New York, ma nessuno, tra la gente importante di Hollywood, voleva mancare all’anteprima del “Padrino”. Erano tutti ansiosi di capire se il successo formidabile del best seller di Mario Puzo, pubblicato tre anni prima e definito dalla critica americana, un “fratelli Karamazov della mafia”, sarebbe stato replicato anche al cinema. Da anni in una grave crisi finanziaria, come del resto gran parte degli studios, la Paramount si giocava tutto o quasi col “Padrino”. Nella sua autobiografia (“The Kid stay in the picture”), Robert Evans, ex attore di scarso talento, gran playboy e in quel momento ai vertici della Paramount, ricorda così quella serata: “Quando si sono spente le luci e è partita la musica di Nino Rota ho visto tutta la vita passarmi davanti”. Coppola, invece, si era ritirato nel frattempo sulla Costa Azzurra, aspettando di capire come si sarebbero messe le cose. Due ore e cinquantasei minuti dopo, quando le luci in sala si riaccendono, Evans si ritrova davanti a un Henry Kissinger commosso, quasi in lacrime: “E’ un capolavoro, è un film che parla a tutti: non è molto diverso da quello che vedo ogni giorno a Washington”. Detto da Kissinger c’era da fidarsi. Il successo del “Padrino”, col suo cumulo di leggende raccontate in libri e documentari, alcune vere, altre verosimili, molte improbabili, comincia proprio quella sera. Per l’after party del film si va a festeggiare al St. Regis Hotel. Le foto immortalano Evans e la sua terza moglie, Ali Macgraw, a dir poco euforici, e poi Al Pacino, James Caan, Raquel Welch, Jack Nicholson, e naturalmente Henry e Nancy Kissinger, tra fiumi di champagne e balli sui tavoli. La mafia era diventata glamour. A Parigi, per il lancio del film, organizzarono una grande spaghettata all’“Opera”, presieduta da Claude Pompidou, coi camerieri che fischiettavano celeberrimi motivi di Donizetti, Rossini, Puccini. Ah les italiens!

Marlon Brando

Un film che si apre con un uomo che dice, “I believe in America”, pronunciando la frase come un atto di fede, nell’oscurità di una stanza buia, prima di chiedere il favore di un omicidio, non poteva che toccare le corde profonde del segretario di stato americano. Kissinger fu tra i primi a cogliere nel “Padrino” non tanto o non solo una saga sulla mafia, ma una trasparente metafora dell’America. Subito Coppola gli faceva eco: “E’ un errore pensare che sia un film sulla mafia. ‘ Il padrino’ è un romance su un re con tre figli. E un film sul potere. Si sarebbe potuto trattare dei Kennedy”. Ma che al posto dei Kennedy ci fossero i Corleone era secondo Marlon Brando una dimostrazione lampante del fatto che “la mafia è il miglior capitalismo che abbiamo”, come andava ripetendo sui giornali. La vera lezione del “Padrino”, casomai, è che la più grande minaccia per un uomo che accumula una fortuna sono i figli deficienti, ma all’epoca la lettura anticapitalista era assai convincente. In polemica con Hollywood, che pure gli aveva regalato una seconda chance, nonostante nessuno avrebbe voluto ingaggiarlo, Brando preparava il terreno per il gran rifiuto del premio Oscar come miglior attore. Al suo posto manderà, Sacheen Littlefeather, nome d’arte di Marie Louise Cruz, attivista per i diritti civili dei nativi americani che promise a Brando di leggere la sua arringa, senza neanche sfiorare la statuetta, e così fece.

Al Pacino con Coppola

Cinquant’anni dopo, in piena cancel culture, “diversity” e “inclusività”, la scena funziona ancora meglio: Roger Moore in smoking e Liv Ullman in abito da sera annunciano il premio. Parte il tema del “Padrino”, ma al posto di Brando, sale sul palco un’indiana americana che con gesto plateale rifiuta la statuetta, “in nome del discutibile trattamento riservato agli Indiani d’America nell’industria del cinema e nel mondo della televisione” ( non poté leggere il lungo testo che aveva con sé perché gli organizzatori, conoscendo le sbrodolate del divo, le avevano tassativamente vietato di superare il minuto). John Wayne in platea mugugnava insofferente e dovettero calmarlo. Subito dopo, salì sul palco Clint Eastwood per presentare i candidati alla miglior fotografia e alleggerì la tensione: “Bisognerebbe tutelare anche tutti quei cowboy bianchi uccisi nei western di John Ford”. Una battuta che oggi potrebbe rifare solo lui, anche se in sala non riderebbe nessuno. Nel frattempo, protestava in quei giorni anche la “Lega per la difesa dei diritti civili degli italoamericani”. “Abbiamo fatto tanto per l’integrazione degli italiani in America, credevamo di esserci finalmente liberati di certi stereotipi”, diceva Anthony Colombo, “ma ‘ Il Padrino’, col suo cumulo di falsità e invenzioni, ci riporta al punto di partenza” ( Anthony Colombo era figlio di Joe Colombo, fondatore della Lega alla fine degli anni sessanta, capomafia della potente famiglia Procaci: finì crivellato di colpi da un killer afroamericano al “Columbus Circle” di Manhattan poco prima dell’uscita del film). Mentre Brando lottava contro Hollywood per una più corretta rappresentazione degli indiani d’America, gli italoamericani si indignavano per tutti quei picciotti sullo schermo.

Diane Keaton con Al Pacino

Quando si parla del “Padrino” si comincia sempre con la sfilza di nomi di registi che si rifiutarono di girarlo. L’elenco si arricchisce ogni volta: Richard Brooks, Elia Kazan, Arthur Penn, Costa- Gavras, Peter Bogdanovich, Sam Peckimpah, Sergio Leone, persino Franco Zeffirelli, magari con musiche di Mascagni al posto di Nino Rota. Ma, com’è noto, proprio l’idea di farlo girare a Coppola si rivelerà una mossa decisiva.

De Niro

Oggi è difficile da credere, ma prima del “Padrino” la mafia non era un buon affare per Hollywood. Nel 1968, poco prima che la saga dei Corleone catapultasse al cinema milioni di persone, la Paramount aveva prodotto “The Brotherwood”, un poliziesco ambientato nel mondo della mafia italoamericana che si rivelò un disastro. Kirk Douglas nei panni del capomafia Frank Ginetti, con penosi baffoni neri posticci, tipo emigrato italiano in Germania, era assai poco credibile agli occhi degli spettatori. Anche tutti gli altri attori del film avevano facce wasp o da ebrei americani, nulla insomma di italiano. Il pubblico era cambiato, voleva il “realismo”, e Hollywood era rimasta indietro. Col “Padrino” inizia quella politica editoriale dell’“appartenenza” ( non puoi dire nulla sulla mafia se non sei italiano) che sarebbe poi degenerata nella nostra epoca, dove un autore bianco, ancorché nonbinary, non può tradurre le poesie dell’afroamericana Amanda Gorman, e Helen Mirren viene rimproverata per aver accettato di interpretare Golda Meir perché non ebrea e priva di “jewface” ( del resto, anche Camilleri scriveva che “l’unica letteratura autorizzata a parlare di Mafia dovrebbe essere quella dei verbali di polizia e carabinieri”, ma per fortuna non gli si dà retta). Bob Evans, insomma, aveva captato il revival etnico che stava attraversando la società americana. Le rivendicazioni identitarie della “jewishness”, della “blackness”, della “italianness”, reclamavano un nuovo tipo di film, quantomeno nuovi registi e attori. E qui entra in gioco Coppola. Trasformando un film su committenza in un prodotto personale, pieno di riferimenti alla propria infanzia a Little Italy, Coppola realizza il primo blockbuster “identitario” della storia del cinema, oltre che un campione di incassi che strappa il primato a “Via col vento”. In omaggio alla propria “italianità”, “Il Padrino” è poi anche uno dei più straordinari esempi di nepotismo cinematografico.

De Niro

Nella scena del matrimonio iniziale, il padre di Coppola, Carmine, dirige l’orchestra, un cugino canta, vari parenti fanno le comparse. La sorella di Michael Corleone è interpretata da Talia Shire, sorella di Coppola, e c’è anche la figlia Sofia, appena nata, battezzata nel finale del film. La saga dei Coppola al cinema non sarà meno epica di quella dei Corleone. Ma questo effetto “famiglia italiana” faceva la differenza rispetto a tutto ciò che era stato prodotto sin lì a Hollywood in fatto di mafia. Sammy Gravano, detto “The Bull”, braccio destro di John Gotti, ricordava così l’incontro col “Padrino”: “Forse era una finzione, ma non per me. Era la nostra vita… E non solo i delinquenti, gli omicidi e tutte quelle cazzate, ma quel matrimonio all’inizio, la musica e il ballo, eravamo noi, gli italiani!”. “Il padrino”, insomma, era un riferimento per tutti gli italo- americani in cerca di un’identità. Quando in una scuola di Providence, Rhode Island, si celebrarono i giorni dedicati alle etnie, gli studenti italoamericani si presentarono vestiti come i membri del clan Corleone. Da lì a bar, caffè, ristoranti, catene di negozi e pizzerie “Padrino” il passo era breve. Alle feste e ai matrimoni ormai suonavano ininterrottamente la colonna sonora del film, come un nuovo inno nazionale, più struggente, romantico, più vicino alla sensibilità degli italoamericani rispetto alla marcetta di Mameli. Allo stesso tempo, il film di Coppola aveva introdotto un nuovo gergo. Come diceva Puzo, “prima che la usassi io, nessun mafioso aveva mai usato la parola ‘ padrino’ in quel senso, ora la mafia la usa, la usano tutti”. La padrinomania scoppiò subito, ben al di là del circuito italoamericano, e coinvolse anche la moda. Andava a ruba il cappello “Stetson” indossato da Marlon Brando, si rivedevano le giacche a due o tre pezzi. Uscì anche e ebbe un certo successo, “Il gioco del Padrino”, una specie di mercante in fiera con la pianta di New York, carte, dadi, pedine, chiusi in una scatola a forma di mitraglietta. Oggi invece abbiamo i Sauvignon fatti con l’uva mafiosa dei terreni confiscati e il “miele della legalità”. Se Coppola ha inventato il “mafia- movie”, noi abbiamo inventato l’antimafia- movie, una serie interminabile di film e fiction a base istituzionale e finanziamento statale con la verità insabbiata, le infiltrazioni, le trattative, le procure, le madri coraggio e tutta l’“alluvione di retorica” di cui parlava Sciascia nel suo celebre articolo. Se dobbiamo immaginare qualcosa capace di tenere testa al “Padrino”, pensiamo casomai ai nostri grandi drammoni famigliari, a “Rocco e i suoi fratelli” o al “Gattopardo”, con tutto il problema del mondo vecchio costretto a fare spazio al nuovo ( del resto, il matrimonio all’inizio del “Padrino” evoca il ballo finale del film di Visconti). Anche in Italia il successo del film fu enorme, ma la critica alzò subito il sopracciglio. Si portava molto la lettura politica, l’analisi dell’“ambiente” e dello “sfondo sociale”. Come se “Il padrino” fosse, anziché un’epica hollywoodiana, un romanzo di Zola. Per Alberto Moravia il film era “sul piano documentario e sociologico, una completa e sfacciata falsificazione”. Per “L’unità” era invece “una sfacciata apologia della famiglia”, intendendo non solo quella dei picciotti, ma l’“istituzione”, la famiglia borghese o, come si dice oggi, “tradizionale”.

Il cast del Padrino con il regista, prima e dopo

Per il Corriere della Sera, “Il padrino” era “un film di modesta qualità, in qualche parte addirittura mediocre”. Un “rosario di ammazzamenti recitato tenendo d’occhio il fascino che il male esercita sulle folle”. Un film “sbagliato” che non aveva il “sapore di inchiesta sociale sulla mafia del romanzo” ( anche se di inchiesta sociale, nel libro di Puzo, non c’era traccia). Secondo Tullio Kezich, “esaminato al di fuori del cancan pubblicitario che ne ha fatto un avvenimento mondiale”, ‘ Il Padrino” non era che un “condensato di luoghi comuni sui gangster italo- americani virtuosi in famiglia e feroci sul lavoro”. Era “fiacco nel ritmo”, era “sceneggiato in maniera confusa, reticente”. Soprattutto, non nominava mai la mafia, né Cosa Nostra, né le coperture politiche del protagonista, “e spara bordate solo contro Frank Sinatra”. Kezich però non sapeva che l’assenza della parola “mafia” era frutto di un accordo tra la Paramount e la Lega di Colombo, siglato prima del film.

Ma questo mezzo secolo del “Padrino” è anche l’occasione per riflettere sulla sua debordante eredità che ormai è anche molto televisiva. I “Soprano”, naturalmente, ma anche intere puntate dei “Simpson”, “South Park”, i “Griffin”, “Law and Order” prolungano il mito della saga dei Corleone. Inutile ricordare che metà della filmografia di Martin Scorsese è un reboot del “Padrino” con gli Stones al posto di Nino Rota e molto più sangue, ritmo, esplosioni. Notissima poi la passione di Nora Ephron che infila citazioni del “Padrino” anche in una commedia romantica come “C’è posta per te”. Del resto, “leave the gun take the cannoli”, la “line” più bella della storia del cinema, forse anche più bella di “We’ll always have Paris”, l’avrebbe potuta scrivere anche lei.

Articolo di Andrea Minuz per Il Foglio Quotidiano

POTERE ASSOLUTO

POTERE ASSOLUTO

Il fantasma di Attilio Brunialti non ha mai smesso, in fondo, di turbare i sonni dei suoi successori. Con la sua aura di astuzia e competenza, certo, qualità principali anche delle generazioni di consiglieri dopo di lui: le stesse doti che lo portarono a dirimere magistralmente, nel lontano 1907 (ancora in tempi di Non expedit e mangiapreti), una questione esplosiva sui crocefissi, da rimuovere o meno nelle scuole, grazie a un memorabile «escamotage evasivo» (il crocefisso, come la lavagna, «è suppellettile essenziale» in aula); ma anche col suo fardello di spregiudicatezza, che lo trascinò nel 1913 sotto accusa davanti ai suoi colleghi, per arbitrati opachi.

Sergio Rizzo

La medesima spregiudicatezza che, nella sua ultima fatica saggistica, Sergio Rizzo pare attribuire a una parte non proprio minore di chi riempie oggi (e ha riempito in tempi recenti) le stanze ovattate di Palazzo Spada, nella Roma antica del rione Regola. Un edificio cinquecentesco ignoto a tanti, eppure sede di un vero gnommero di poteri e sottopoteri incrociati in modo quasi mai illegale ma spesso e volentieri incestuoso, tra coincidenze di controllori e controllati, generose prebende e dorate remunerazioni: il Consiglio di Stato, organo decisivo nella risoluzione dei rapporti, talora assai conflittuali, tra Stato, amministrazioni pubbliche e privati.

Potere Assoluto mette così a fuoco (e sul fuoco, nel senso di… graticola) « i cento magistrati che comandano in Italia »: e, comandando davvero, lontano dai riflettori della pubblica vanità, sono dunque spesso sconosciuti, tranne che agli addetti ai lavori. Rizzo ce li svela nella loro umanissima natura.

Palazzo Spada

A quindici anni da La Casta che, scritto con Gian Antonio Stella, gli valse la notorietà (denunciando come certa politica caricaturale fosse diventata oligarchia insaziabile) e, forse non casualmente, nel trentennale di Mani pulite, ci racconta come chi decide sul serio nel Belpaese non siano né i politici né i pubblici ministeri, tanto spesso in conflitto tra loro, ma quei dotti mandarini che alla politica sono assai prossimi e rappresentano «la scheggia più autoreferenziale della magistratura».

Quelli che scrivono leggi e decretano come applicarle. Hanno «in mano i ministeri», «che i ministri gli danno volentieri in gestione chiamandoli a fare i capi di gabinetto» grazie agli «incarichi fuori ruolo». Quelli che possono cambiare con una sentenza il destino di interi settori dell’economia nazionale, far decadere un presidente di Regione, annullare la nomina di un procuratore. Che arbitrano lucrosi arbitrati. E governano persino l’insopprimibile passione italica del calcio, tramite incarichi nelle corti federali. «Il Consiglio di Stato», sostiene Rizzo, «è il nocciolo duro del potere».

La volta sala udienze Palazzo Spada

Intendiamoci: in sé non c’è nulla di esecrabile nell’essere un fuoriclasse della dottrina e nello scalare, perciò, più in fretta i gradini che conducono a uno status di grand commis e perfino di riserva della Repubblica. E sarebbe puerile descrivere un ganglio essenziale dello Stato come una compatta consorteria di colendissimi furbacchioni.

Dunque, si tratta di capire e distinguere. Più ancora che in altri saggi di denuncia, Rizzo pare affrontare qui la questione soprattutto in termini di inopportunità e cortocircuito del potere: «La giustizia italiana ha un problema grande come una casa e fa finta di non vederlo… L’autoreferenzialità, è questo il problema, ha infettato in profondità tutte le magistrature mortificando l’efficienza e il merito. Con il paradosso che è la degenerazione di un principio sano, quello della separazione dei poteri e dell’autonomia dei magistrati».

Seduta del Consiglio di Stato, al centro il presidente Frattini

E i più autoreferenziali di tutti (anche grazie al loro «Csm» ad hoc, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa) ci appaiono qui gli illustri inquilini di Palazzo Spada. Nel sostenerlo, Rizzo concede come di consueto pochissimo alla seduzione narrativa e offre invece al lettore tanta sostanza di cifre, sentenze e circostanze che, se pazientemente seguite, disegnano un ordito di grande efficacia. Senza rinunciare a qualche target maggiore, s’ intende.

Come nel caso di Franco Frattini, già enfant prodige di lunghissimo corso della politica nazionale, fresco presidente del Consiglio di Stato e soprattutto fresco «quirinabile» caduto nella settimana rovente della rielezione di Mattarella soprattutto a causa di qualche vecchia dichiarazione russofila (piuttosto improvvida se riletta in costanza di crisi dell’Ucraina).

Rizzo ne viviseziona carriera, promozioni e arbitrati, ponendo in questione il criterio stesso di anzianità alla base della progressione di ruolo: «Dei trentatré anni e mezzo trascorsi dal giuramento come consigliere di Stato () ne ha passati decisamente più della metà in aspettativa, a fare politica».

E che politica: già celebrato ispiratore di quella «pistola caricata a salve» che fu nel 2004 la legge sul conflitto d’interessi così sensibile per Berlusconi, il nostro ottiene «la promozione in magistratura» (nel 2009, a presidente di sezione del Consiglio di Stato), mentre ne è fuori, essendo deputato del Popolo della Libertà e ministro degli Esteri nell’ultimo governo del Cavaliere. Con buona pace «per la separazione dei poteri».

Non si pensi tuttavia che tanta attenzione sul dottor Sottile del berlusconismo sia dettata da malanimo. Sarà opportuno rammentare che Frattini sconta a Palazzo Spada il successo (che, come sempre predica Berlusconi, attira «invidia sociale», spesso tra colleghi e ricorrenti) e la notorietà, in una confraternita di potenti quasi sempre senza volto. Ma Rizzo è bipartisan, ne ha per tutti e per tante tristi vicende della nostra Italia.

Dallo scandalo della P2, coi suoi diciotto magistrati irretiti da Gelli (di cui uno del Consiglio di Stato), alle più recenti imprese dell’avvocato Amara (pietra dello scandalo di innumerevoli fascicoli giudiziari); dalle cene di qualche giureconsulto rampante con l’immancabile Luca Palamara e col lobbista Fabrizio Centofanti, alle relazioni pericolose tra il penale e l’inopportuno che s’ infilano nella carne viva di Palazzo Spada, fino (poteva mancare?) alla gara Consip che è una specie di sacro Graal dei trafficanti d’influenze italici.

Poiché non tutto può essere indignazione, non manca un sorriso triste, infine, di fronte all’impresa da maratoneta di quel consigliere che corre la Roma-Ostia in un’ora e quaranta poco dopo aver proposto causa di servizio per un’ernia del disco provocata, a suo dire, «dall’aver sollevato pesanti fascicoli processuali». Fra tanti scranni occupati da terga autorevoli, uno strapuntino per Totò non poteva mancare.

Goffredo Buccini per il “Corriere della Sera”

CAPOLAVORI DELLA FOTOGRAFIA IN MOSTRA A TORINO PRESSO CAMERA-Centro italiano fotografia.

CAPOLAVORI DELLA FOTOGRAFIA IN MOSTRA A TORINO PRESSO CAMERA-Centro italiano fotografia.

CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia presenta, per la prima volta in Italia, la mostra “Capolavori della fotografia moderna 1900-1940. La collezione Thomas Walther del Museum of Modern Art, New York”: a Torino dal 3 marzo al 26 giugno 2022 una straordinaria selezione di oltre 230 opere fotografiche della prima metà del XX secolocapolavori assoluti della storia della fotografia realizzati dai grandi maestri dell’obiettivo, le cui immagini appaiono innovative ancora oggi. Come i contemporanei Matisse, Picasso e Duchamp hanno saputo rivoluzionare linguaggi delle arti plastiche, così gli autori in mostra, una nutrita selezione di fotografi famosi e altri nomi meno noti, hanno ridefinito i canoni della fotografia facendole assumere un ruolo assolutamente centrale nello sviluppo delle avanguardie di inizio secolo.

Burchartz 1646.2001 , 5/30/06, 10:33 AM, 8C, 5647×7244 (90+593), 100%, Default Setting, 1/8 s, R53.3, G25.0, B32.1 HMI ISO-356 PHOTO>Thomas Griesel Betterlight Super 6K-2

Un fermento creativo che prende avvio in Europa per arrivare infine negli Stati Uniti, che accolgono in misura sempre maggiore gli intellettuali in fuga dalla guerra, arrivando a diventare negli anni Quaranta il principale centro di produzione artistica mondiale. Accanto ad immagini iconiche di fotografi americani come Alfred Stieglitz, Edward Steichen, Paul Strand, Walker Evans o Edward Weston e europei come Karl BlossfeldtBrassaï, Henri Cartier-Bresson, André Kertész e August Sander, la collezione Walther valorizza il ruolo centrale delle donne nella prima fotografia moderna, con opere di Berenice Abbott, Marianne Breslauer, Claude Cahun, Lore Feininger, Florence Henri, Irene Hoffmann, Lotte Jocobi, Lee Miller, Tina Modotti, Germaine Krull, Lucia Moholy, Leni Riefenstahl e molte altre. Oltre ai capolavori della fotografia del Bauhaus (László Moholy-Nagy, Iwao Yamawaki), del costruttivismo (El Lissitzky, Aleksandr Rodčenko, Gustav Klutsis), del surrealismo (Man Ray, Maurice Tabard, Raoul Ubac) troviamo anche le sperimentazioni futuriste di Anton Giulio Bragaglia e le composizioni astratte di Luigi Veronesi, due fra gli italiani presenti in mostra insieme a Wanda Wulz e Tina Modotti.

CAMERA ha organizzato la mostra in modo tale che il visitatore potesse avere un primo assaggio e una prima spiegazione del periodo storico coperto. Questo è reso possibile dalla prima parte dell’esibizione, puramente introduttiva, che si svolge nel corridoio della galleria, dove è presentata una timeline che inizia con l’anno 1900 e termina con il 1940. Inoltre, il percorso è arricchito dalla presenza di teche, nelle quali sono esposte alcune prime edizioni di volumi e riviste, essenziali per la narrazione della storia della fotografia di quegli anni.

Umbo (Otto Umbehr), Mystery of the Street, 1928, Gelatin silver print, 29 x 23.5 cm, The Museum of Modern Art, New York, Thomas Walther Collection.

Scattate in città, in campagna, in studio oppure realizzate per le esposizioni storicamente più significative o per pubblicazioni d’avanguardia, queste opere hanno un unico comune denominatore: le radicali innovazioni con le quali i più importanti fotografi del tempo hanno definito e esplorato le loro visioni moderniste. (Citazione tratta da lifestar.it )

Continuando, la mostra è organizzata in aree tematiche. Il primo capitolo è diviso in due sottocategorie; Vita d’artista, che si concentra sul tema della ritrattistica, e Il mondo moderno, che cerca di cogliere l’essenza della vita moderna in quegli anni. Il secondo capitolo si intitola Sinfonia di una grande città; infatti, sotto la spinta della Seconda rivoluzione industriale alla fine del 1800 e il conseguente aumento demografico, i principali centri urbani occidentali cambiano drasticamente il loro assetto. Gli abitanti delle città si trovano sempre di più fagocitati all’interno di un ambiente che impone loro nuovi ritmi di vita.

Segue Purismi, capitolo che rievoca la scelta di alcuni fotografi “d’arte” nell’adottare un approccio “pittorialista”, per dimostrare le qualità artistiche di un linguaggio visto come puramente meccanico. Il percorso passa poi per il capitolo Realismi magici, che raccoglie tutti quei fotografi che, influenzati dalle affermazioni di Freud e dalle spinte del Surrealismo, hanno voluto giocare sul confine tra vivente e inerte, animato e inanimato. Infine, chiude la mostra Esperimenti nella forma, dove le sperimentazioni della macchina fotografica arrivano a toccare nuove e importanti possibilità estetiche.

Testi tratti del comunicato stampa di Camera e dal sito ARTSLIFE https://artslife.com/2022/03/03/la-maestosa-collezione-di-fotografia-di-thomas-walter-in-mostra-a-camera-prima-del-loro-ritorno-al-moma/

PRUNUS

PRUNUS

Nel freddo i profumi si possono distinguere meglio di quando fa caldo. L’effluvio è un bene effimero da cogliere come un privilegio nel giardino ancora in letargo, dove però le piante sentono già la primavera

Nell’aria tersa di questi giorni tutto si staglia più cristallino e definito: perfino i profumi sono quasi materici: se abbiamo la fortuna di incrociarli, ci possiamo immergere nel loro alveo etereo. Col freddo si possono distinguere i profumi uno per uno: sono puri e diversi rispetto a quando fa più caldo. Mi ci immergo e ne seguo la scia nei parchi di Milano ritrovando pensieri che avevo lasciato altrove in giardino.

Prunus mune

Qualche giorno fa ho postato su Instagram la foto di un Prunus mume in piena fioritura nel mio giardino di Piuca: le poche parole che accompagnano la foto avrebbero dovuto poter condividerne il profumo speziato e tenace. Questo precocissimo albicocco giapponese ha fiori stupendi che sanno un aroma intenso che non si altera durante la loro intera fioritura. Penso sappiano di chiodi di garofano e mandorle: un sentore da percepire con discrezione, un bene effimero da saper cogliere come un privilegio in anticipo sul giardino ancora in letargo.

Non riusciamo a fare molto caso alla qualità della luce naturale, ma le piante, ovunque si trovino, non perdono mai la loro capacità di riconoscere i cambiamenti delle ore di sole e questo prunus vede già la primavera. Ci sono fiori belli che però hanno fragranze inconsistenti se comparate alla loro perfezione, poi ci sono fiori che cambiano odore nel tempo effimero della loro vita. La percezione degli aromi non è un dato universale e dipende dallo stato d’animo, oltre che da quello di salute.

Lonicera fragrantissima

Temperatura e umidità dell’aria influiscono sulla percezione olfattiva, è per questo che alcuni profumi si sono evoluti con le piante per rendere più efficace la fioritura. Come percepiscono il profumo gli insetti impollinatori? Quando all’inizio dell’inverno fiorisce l’edera dei boschi le api impazziscono, sarà perché quell’odore evoca già di per sé una fragranza cerosa, quasi di miele. Il calicanto, o meglio il Chimonanthus, invece attira bombi e mosche malgrado se io fossi un ape penso non saprei starne lontano. La Lonicera fragrantissima fiorisce tutto l’inverno e sa lo stesso profumo del caprifoglio primaverile ma con un tocco di limone in più.

Tra le piante che preferisco invece per gli ingressi c’è la Daphne odora, perché emana onde di profumo persistenti che dal giardino riescono a seguirci dentro casa. È una pianta nata per darci il benvenuto: è sempreverde, discreta, ama crescere in posizioni riparate: fiorendo per mesi seduce chiunque le passi vicino. Nei giardini il profumo rappresenta un effetto sorpresa che segna la memoria quanto l’immagine di una fioritura appariscente: ognuno di noi associa la memoria di un luogo a un odore o un profumo più che a un colore.

Daphne

Il ricordo della casa dei miei nonni sa di foglie di bosso, l’inizio delle vacanze estive di fiori di ligustro, il mio compleanno odora di fiori di nespolo, quello di mia figlia Bianca di rose muschiate e di erba tagliata. La Sicilia d’inverno sa di foglie macerate di Jacaranda lo stesso gusto delle caramelle di zucchero della mia infanzia. Le foglie di Escallonia illinita odorano di curry, qualcosa di simile all’estate del Mediterraneo, anche se l’Helicrisum italicum ha un accento più amaro. Per me la fragranza di questo cespuglio anonimo è la “colonna sonora” dei giardini di Kew Gardens nelle mattine tiepide e umide di fine primavera. Invece il profumo erboso e dolce dei fiori di Petasites fragrans che sbocciano a febbraio tra i fili d’erba congelati, sarà per tutta la vita il ricordo dell’amica che me ne ha regalato una zolla. Le Camellia sasanqua bianche hanno odore dei tè cinesi fermentati, di che vengono venduti in formelle stampate. Mentre i fiori invisibili dell’Osmanthus fragrans sono seducenti come una bella ragazza senza trucco.

Escallonia illinita

In giardino ci sono tanti profumi di piante che rimangono nascoste allo sguardo di chi non le conosce. Nei giorni tersi d’inverno, in cui il termometro fluttua sopra e sotto lo zero, i raggi di sole debole muovono l’aria che porta con sé un odore di caffè tostato che evoca un tepore caldo: sono gli steli di Euphorbia characias pieni di mazzi di fiori verdi. È una pianta che appartiene all’ambiente delle piante argentate mediterranee che invece fanno pausa. Almeno fino a quando, con una fiammata color ruggine, i dolci fiori di violacciocca non riaprono le danze primaverili.

Euphorbia characias

Nei passaggi stretti del giardino ci dovrebbe essere sempre una pianta di limoncina, perché è impossibile resistere a strusciarsi le mani sopra le sue foglie che, anche quando sono secche, conservano il loro fenomenale aroma citrino. Di solito non raccolgo i fiori del giardino ma, in questa stagione non so resistere ai Narcissus tazetta: un bulbo spregiudicato che con indomito coraggio sfida l’inverno. In giardino è facile trovarne steli abbattuti dal freddo, allora ne faccio un mazzo che metto in casa. Qualche giorno e l’aroma fresco di questo narciso si trasforma in odore di urina di cavallo: uno scherzo della natura che mi fa sempre sorridere un po’.

Antonio Perazzi , botanico e paesagista, per Il Foglio Quotidiano

Contact Us