COLTRANE, IL SUONO DELL’UNIVERSO

COLTRANE, IL SUONO DELL’UNIVERSO

LA NOTTE CHE COLTRANE PORTÒ IL SASSOFONO ALLE STELLE

Riscoperti i nastri della straordinaria esibizione del 1965. In un concerto suonò ininterrottamente per settanta minuti. Da “A Love Supreme” in poi ha rotto gli argini della creatività di un’epoca.

John Coltrane.

Un amore supremo, ottima scelta come sempre”, mi dice J vedendo la copertina del vinile in vetrina da “The Sound Of The Universe”, uno dei negozi di dischi più raffinati di Soho, Londra. Sulla finestra spicca un disco appena uscito, “A Love Supreme. Live in Seattle” di John Coltrane, il più grande sassofonista di tutti i tempi, registrato con un semplice registratore a bobine Ampex nel 1965 durante una esibizione live in un piccolo club di Seattle e poi dimenticato per più di cinquant’anni. Accanto ce n’è un altro che ha fatto molto discutere, seppur diversissimo e altrettanto difficilmente etichettabile: “Promises”, il duetto tra il talento dell’elettronica britannica Floating Point e il veterano sassofonista jazz Pharoah Sanders, inciso nel 2019 a Los Angeles, che tratteggia una melodia astrale proveniente direttamente dalla frequentazione del Faraone proprio con Coltrane. Il passato e il futuro del jazz, in un unico soffio ininterrotto.

Un disco postumo di Coltrane è sempre un’occasione unica per un viaggio nell’ignoto e nella meraviglia, e mi ci tuffo immediatamente, con enorme curiosità e molte domande: come è possibile che un documento così prezioso sia rimasto inascoltato fino ai giorni nostri? Se “A Love Supreme” uscisse oggi, avrebbe la stessa accoglienza che ebbe nel 1965? E, soprattutto, perché il suo artefice, dopo averlo composto, non l’ha quasi mai più suonato dal vivo?

Parigi, 1960. Coltrane è in tour con Miles Davis e il suo quintetto all’ Olympia, e suonano la musica più “cool”, più eccitante, più del momento. Miles ha sempre le antenne tese, anticipa le mode e le cavalca piegandole ai propri gusti. Intuisce che questo giovane sassofonista ha stoffa e lo chiama cinque anni prima catapultandolo in breve da palchi anonimi alle platee di mezzo mondo. Soprattutto lo spinge a esplorare il suo sax tenore e a dargli una voce unica e riconoscibile. John lo affianca nel pieno della “fase modale” in cui l’amico trombettista lavora sul minor numero di cambi di accordi possibili ma, allo stesso tempo, con una intensità che fa vibrare ogni nota in modo straordinario. Ma nonostante il successo, in tour in Europa Coltrane è molto stanco e di cattivo umore. Dice che addirittura sia partito con un solo abito sgualcito e una sola camicia di ricambio. Più John si avventura nel viaggio solitario alla ricerca del suo suono personale, più si sente allontanare dall’amico. Da tutti, in verità. Comincia a borbottare e mugugnare in continuazione.

Questa scena e le due seguenti sono tratte dal film Mo’Better Blues, regia di Spike Lee

Il grande giornalista newyorchese Ashley Kahn, che a entrambi ha dedicato due libri straordinari (“Kind of Blue” e “A Love Supreme”, Il Saggiatore 2000 e 2004), racconta bene che il rapporto tra i due si sta sfaldando: “La brezza esitante e sperimentale degli albori del sodalizio con Miles si stava trasformando in un turbine impetuoso”. Miles suona solo le note necessarie, John, al contrario, cerca di suonare tutte le note possibili. La prima moglie Naima racconta che John si esercitava tutto il giorno addormentandosi sovente con il sax a tracolla dopo quelle che Ashley Kahn definisce “vere e proprie gare di resistenza fisica”: attraverso una complicata e sfiancante tecnica di diteggiatura, e adattando le labbra al bocchino in modo elaborato, Coltrane riesce a trasformare il suono del suo sax, strumento monofonico, in uno polifonico, suonando più note contemporaneamente. Scopre così che anche Ornette Coleman, il fondatore del free jazz, produce con il suo sax urla, squittii, sbuffi e gemiti, e ci si butta a capofitto. L’addio a Miles è definitivo: John suona come se ogni sera fosse l’ultima volta, vuole arrivare ai fondamenti primordiali della musica, è totalmente immerso nella musica che non gliene frega niente del successo, delle donne, delle Ferrari. Miles di lì a poco sposerà la musa funk Betty Mabry, che lo presenterà a Sly Stone e Jimi Hendrix ( con cui fantastica di registrare, cosa che purtroppo non accadrà mai), mentre a John interessa esclusivamente parlare a Dio attraverso la sua musica. Rintraccia i musicisti che fanno per lui e con un nuovo quartetto entra in studio d’incisione il 9 dicembre 1964 per quello che unanimemente è ritenuto il suo capolavoro e uno dei punti più alti della musica del novecento: “A Love Supreme”. “Da un certo punto di vista non è nemmeno jazz”, dichiara il batterista Elvin Jones che lo accompagnerà a lungo, “è un disco che ampliò il concetto di musica di quel periodo. Qualcosa di completamente spirituale, che possono apprezzare sia gli anziani sia i ragazzini senza la minima istruzione musicale”. In quegli anni così intensi, e dopo essere passato dall’inferno dell’eroina, John si separa da Naima e sposa la pianista di Detroit Alice Mcleod, con cui va a vivere nella nuova casa di Long Island, New York, con il primogenito John jr. Sembra stranamente pacificato, studia tutto il giorno, e si chiude in soffitta per cinque giorni per comporre questa suite in quattro movimenti dal titolo così evocativo. Nell’imprescindibile libro di Ashley Kahn, Alice lo descrive come Mosè quando scende dalla montagna. “Una cosa meravigliosa. Venne da basso e sul suo viso scorsi pace, gioia, tranquillità”, perché aveva composto qualcosa che proveniva dal profondo del suo cuore. Lui stesso racconta che, per la prima volta, ha l’ispirazione per “tutta la musica che voglio incidere su un disco. E’ la prima volta che ho tutto, proprio tutto”.

A differenza di altri suoi dischi altrettanto importanti e profondi, “A Love Supreme” è registrato in una unica seduta, ed è un grido disperato che dura solamente 33 minuti, ma che segna in modo indelebile la rottura con la musica tonale: quattro semplici note ( fa, la bemolle, fa, si bemolle) ma un’architettura complessa, una preghiera solenne e universale che condensa tutta la musica che era stata prodotta fino a quel momento e buona parte di quella che verrà prodotta negli anni a venire. Con, all’interno del disco, un’umile offerta a Dio e una lettera al Caro Ascoltatore scritte da John di suo pugno. Con un urlo catartico si libera definitivamente delle catene dello swing, del tempo costante per tutta la durata dei brani, del tipico walking bass al contrabbasso, la spina dorsale della musica fino ad allora prodotta, per improvvisare su una sorta di pulsazione, come alcuni critici definiscono la sua nuova musica. E’ la rivoluzione copernicana del jazz, in un momento storico in cui l’America stessa è in tumulto: l’ombra dell’assassinio di Kennedy è ancora presente, nel febbraio del 1965 anche Malcolm X viene ucciso e un mese dopo Martin Luther King jr guida le marce degli afroamericani a Selma. Bob Dylan, la cui “Blowin’ in the Wind” viene mandata in tutte le radio di continuo, sale sul palco del Newport Folk Festival con la chitarra elettrica e succede il finimondo. Sam Cooke gli fa il verso scrivendo “A Change Is Gonna Come”, che diventa un inno per il movimento per i diritti civili degli afroamericani, e nell’agosto scoppiano le rivolte a Watts, quartiere nero di Los Angeles.

Il 1965, l’anno dell’uscita del suo capolavoro, è anche l’anno della svolta totale: “A Love Supreme” viene nominato “disco dell’anno” dalle prestigiose riviste Down Beat e Jazz, e il suo autore “jazzista dell’anno”. E’ il disco che mette d’accordo sia i colti appassionati di jazz che il pubblico più giovane, sia il mondo della cultura black che quello che ha appena scoperto le religioni orientali ( il secondo figlio di John, non a caso, si chiama Ravi, in onore di Ravi Shankar, il virtuoso indiano suonatore di sitar che ispirò, oltre che Coltrane, anche i Beatles).

E Coltrane che fa? Rompe definitivamente gli argini della sua creatività per intraprendere un viaggio verso una musica nuova, in totale comunione con Dio, e prova, attraverso la musica, ad innalzare i livelli di coscienza: è all’apice della carriera, ma questo non sembra essere il suo obiettivo principale. Anzi, nonostante il successo raggiunto dalla suite, non solo questa non viene quasi mai suonata dal vivo, ma già nel giugno del 1965 Coltrane richiama i suoi in sala d’incisione per un’altra opera sconvolgente: “Ascension”. Il quartetto che aveva forgiato quel selvaggio suono profondamente afrocentrico ma intriso di magia era composto, oltre che da John al sax tenore, dal raffinatissimo pianista Mccoy Tyner, dal minuto ma possente contrabbassista Jimmy Garrison e dal tentacolare batterista Elvin Jones. Per l’occasione John allarga addirittura la band a ben dieci elementi, tra cui spiccano il trombettista Freddie Hubbard e il giovanissimo Farrell Sanders, meglio conosciuto come Pharoah, al sax tenore. Crea un tema di cinque note, un po’ come fatto con la suite precedente, e ai compagni d’avventura dà solo degli appunti con, sorprendentemente, “accordi facoltativi”: il resto lo avrebbe tirato fuori ognuno di loro dal fondo della propria anima per un’incisione di quaranta minuti che era quasi figlia di “A Love Supreme”.

Nel luglio del 1965 viene invitato nuovamente in Europa, all’international Jazz Festival di Antibes, e, a sorpresa, il quartetto propone “A Love Supreme” in una forma e in un modo molto fedele all’originale, tanto da farla durare 49 minuti, 15 in più dell’originale. Dice che i critici jazz sono a conoscenza solo di un’altra esecuzione dal vivo della suite, presso una chiesa di Brooklyn, a quanto pare mai registrata, e poi su quell’opera così intensa cala il sipario. Il pianista, compositore e scrittore Lewis Porter, autore del mastodontico “Blue Trane”, (Minimum fax, 2006) ha ipotizzato che, vista la sua grande religiosità, e l’esigua lunghezza della composizione, Coltrane la ritenesse inadatta al pubblico dei club. La registrazione live di Antibes (circolata prima come bootleg, è stata poi “ripulita” e inserita come disco extra della “Platinum Collection” della Impulse) è molto fedele all’originale. Nel bel libro di interviste “Coltrane secondo Coltrane” (EDT, 2012) la giornalista Randi Hultin racconta dell’atmosfera simile a un concerto dei Beatles, con il pubblico che applaude un’esibizione intensa ma anche aggressiva: “Suonava in modo evidentemente ispirato alla musica indiana, ma a volte sembrava di sentire il muggito di una mandria o l’abbaiare dei cani rabbiosi”. In realtà, tornato a casa, a fine settembre viene invitato a Seattle per una settimana di concerti al Penthouse, un piccolo club da 225 posti. Suonano come pazzi e, a sorpresa, l’ultimo giorno ripropongono di nuovo “A Love Supreme”, ma stavolta il concerto lascia il segno nell’esistenza di più di una persona.

La copertina di questa nuova versione di “A Love Supreme”, coloratissima rispetto all’originale del 1965 in bianco e nero, ritrae un Coltrane distratto da qualcosa che attira la sua attenzione alla sua destra. Fisso i suoi occhi nella copertina vagamente psichedelica cercando di acchiapparne l’anima immortale e mi ributto nella furia del disco: la sera del 2 ottobre 1965 il Penthouse è stipato al massimo e il suo proprietario, un certo Charlie Puzzo, pensa giustamente di guadagnarci più possibile. Non sa che quella sarà una notte davvero speciale che per cinquant’anni verrà prima dimenticata, poi ricordata come mitica. Coltrane ha invitato a unirsi alla band anche altri musicisti, proprio per esplorare al massimo le possibilità sonore di ogni singolo strumento suonato da due musicisti diversi contemporaneamente. Chiede anche all’amico Joe Brazil, sassofonista originario di Detroit e appassionato di registrazioni amatoriali, di registrare tutto il concerto. Vicino al palco c’è anche il dj Jim Wilke, che deve mandarne in onda sulla stazione kingam la prima mezzora, al quale John bisbiglia, prima di cominciare, che sarebbe durato sicuramente più di mezzora.

Un accordo di piano, il tema al sassofono, ma già subito qualcosa di inedito: Donald Garrett, il contrabbassista aggiunto, suona il suo strumento con l’archetto e sembra quasi un violoncello, mentre Jimmy Garrison, il bassista storico del quartetto, produce grappoli di note sparse. Elvin Jones si sistema alla batteria. Coltrane sembra essere scomparso, ed entra un campanaccio che segna il tempo (probabilmente suonato da lui), e poi la batteria si accende, vivissima, ma ognuno sembra procedere nella propria dimensione sonora. Garrison intona il tema delle quattro note, Jones comincia a scaldarsi, Mccoy Tyner suona il piano ancora più forte per sovrastarli e vanno avanti così, come se stessero aspettando un segnale ultraterreno.

La registrazione, nonostante l’eccellente lavoro di pulizia fatto dalla casa discografica, riproduce il rimbombo tipico di un piccolo locale affollato, in sala si sentono rumori di fondo, legni, campanelle, percussioni che si sovrappongono al ritmo della batteria. Dopo cinque minuti esatti entra il tema originale di “Un amore supremo”, il sax tenore riconoscibilissimo di Coltrane, ma a questo punto gli strumenti si rincorrono a velocità forsennata. Elvin Jones suona tamburi e piatti come una tempesta, il piano di Mccoy Tyner è quasi percosso, i sax urlano note mai sentite prima. Gli originali 7 minuti e 43 secondi del primo movimento “Acknowledgement” qui diventano 21 minuti e 53 secondi, e quando John e Pharoah Sanders non suonano i sax afferrano le percussioni e si sovrappongono al batterista indiavolato. Ma quando suonano insieme, il Maestro e l’allievo più promettente si rincorrono e si sostengono, urlano a vicenda e si aggrappano l’un l’altro per dieci interminabili minuti. E’ l’apoteosi, l’estasi suprema, o forse il paradiso perduto.

Si quietano lentamente, lasciando spazio alla batteria inventiva di Jones, alle raffinatezze del pianoforte di Tyner, ai continui rimandi tra i due contrabbassi, di nuovo ai sonagli e alle campanelle in mano a John e al Faraone. Vorrebbero fermarsi, dovrebbero forse, ma non ce la fanno. Dilatano il tempo e lo spazio attingendo ognuno al proprio immaginario sonoro interiore, e quando tutti e sei ricominciano insieme, come nella meravigliosa “Pursuance”, il secondo movimento della suite, ricomincia l’inferno. Ed è un inferno bellissimo, con un assolo strozzato di Pharoah Sanders che fa venire i brividi pur ascoltandolo dopo cinquant’anni.

Il pubblico applaude con grande partecipazione prima che Coltrane soffi la sua preghiera finale di “Psalm”, il quarto e ultimo movimento. Suonano tutti e sei un lunghissimo straziante finale in Do, cristallino, terso, come una lode a Dio. La comunione spirituale e musicale tra Coltrane e Sanders è totale e produce i momenti più esaltanti dell’intero concerto. Tutti i musicisti sembrano risvegliarsi da un viaggio astrale, con John che fa planare la sua navicella al sicuro, di nuovo sul pianeta terra. Si sente Donald Garrett, il secondo contrabbassista, chiedere “è la fine?”, e nell’imbarazzo del momento Coltrane risponde “meglio di sì, baby, meglio di sì”, e scoppiano tutti a ridere.

Il concerto dura ben 75 minuti, più del doppio dell’incisione originale, e dà filo da torcere al povero fonico che passa la serata a cambiare i nastri del registratore Ampex.

Dice che, il giorno prima, 1° ottobre 1965, sempre Joe Brazil accompagna la band in studio per registrare un’altra session improvvisata di 29 minuti a cui partecipa suonando il flauto. Coltrane si presenta in sala con pochi appunti e recita alcuni passi del “Bhagavadgita”, il testo sacro dell’induismo, e attacca a suonare quella che, dopo la sua morte, verrà pubblicata nel 1968 come “Om”. In “Blue Trane” Lewis Porter avanza l’ipotesi che quel giorno Coltrane fosse sotto l’effetto di lsd, che in quel periodo comincia ad assumere con regolarità. E chissà che anche il giorno dopo al Penthouse non lo fosse. Ma il critico specifica che è irragionevole pensare che suonasse in quel modo così estremo a causa dell’lsd: “Tutt’al più forse sentiva o sperava che l’lsd potesse aiutarlo a procedere nella direzione che aveva già deciso di prendere”.

Il viaggio alla ricerca di nuove idee musicali, nuove sonorità, sfida però le orecchie del suo pubblico. E’ un viaggio straordinario, ma con biglietto di sola andata: il pubblico che lo ama alla follia si spacca ed entro la fine dell’anno perde sia il fidato batterista Elvin Jones che il brillante pianista Mccoy Tyner. “Certe volte non riuscivo a sentire cosa suonavo”, dichiara in seguito Elvin Jones, “e anzi, non riuscivo a sentire cosa suonava nessuno. Sentivo solo un gran fracasso”

John si ritrova ad affrontare il suo periodo più controverso. “Vogliono tutti sentire le cose che ho fatto in passato. Nessuno vuole sentire quello che sto facendo ora”, dice in un’intervista in quegli anni “è una strana carriera la mia. Non ho ancora capito del tutto com’è che voglio suonare. In questi ultimi anni ci sono state perlopiù domande. Un giorno troveremo le risposte”.

Incide nuove composizioni, fa tour in Giappone, progetta di trasferirsi in New Jersey, di fondare una casa discografica e addirittura di aprire un locale tutto suo, ma nella primavera del 1967 comincia ad avere dolori lancinanti allo stomaco. Il 14 luglio incontra il produttore Bob Thiele, con cui concorda la pubblicazione del nuovo disco “Expression” ( che uscirà postumo), e due giorni dopo torna in ospedale camminando sulle sue possenti gambe. Muore il 17 luglio 1967, due mesi prima di compiere quarantuno anni, di tumore al fegato.

La morte del Messia, per tutta la comunità black e non solo, è uno choc. Miles Davis, sconvolto, dice che è morto perché aveva preso troppo Lsd. Elvin Jones, invece, dice “sono convinto che fosse un angelo”. “Per alcuni la furia con cui Coltrane suonava negli ultimi anni di vita era innescata da una crescente consapevolezza di mortalità che stimolava ulteriormente la sua rapidità di esecuzione”, scrive Ashley Kahn nel suo bel libro. Gli fa eco l’amico fraterno Sonny Rollins, straordinario sassofonista oggi novantunenne: “Secondo me aveva capito che la sua vita su questa terra stava terminando e si sforzava di oltrepassare i limiti fisici”.

Dopo la sua morte la moglie Alice porta avanti l’eredità musicale, e molti dischi postumi cominciano a essere pubblicati. Ma di quel “Live in Seattle” si perde ogni traccia per più di cinquant’anni.

Dopo tutto questo tempo è difficile dipanare il fitto mistero che aleggia intorno a quei nastri dimenticati. Di sicuro c’è che il sassofonista Stephen Griggs, ora anche scrittore, dopo anni di ricerche e interviste con tutti quelli che erano presenti quella notte mitica, riesce a convincere la moglie di Joe Brazil, morto nel 2008, a fargli masterizzare il materiale che si pensava perduto, prima che il tempo lo danneggi definitivamente, per poi offrirli alla Resonance Records, un’etichetta indipendente legata a un’associazione no profit per la salvaguardia e la conservazione del jazz, e infine alla Impulse, la storica casa discografica di Coltrane.

“Non c’è mai una fine” dichiara lui nel 1966, “ci sono sempre nuovi suoni da immaginare, nuove sensazioni da scoprire. E c’è il bisogno di continuare a purificare questi suoni e queste sensazioni per riuscire a vedere nella forma più limpida ciò che abbiamo scoperto. Per poter vedere con chiarezza sempre maggiore che cosa siamo… bisogna continuare a pulire lo specchio”.

Intervistato nel documentario “Chasing Trane”, Sonny Rollins lo definisce un genio: “Beethoven sopravvive. Bach sopravvive. Non credo che dovremmo aver paura di porre John almeno al loro livello. Qualsiasi cosa John suoni, qualunque cosa John scriva è oltre, indiscutibilmente oltre”. “Non ho paura che la mia musica sia troppo fuori luogo” dice Coltrane alla fine del film per voce di Danzel Washington, che ha interpretato un trombettista jazz ispirato chiaramente a lui in “Mo’ Better Blues” di Spike Lee “i miei obiettivi rimangono gli stessi e cioè elevare le persone il più possibile, per ispirarle a realizzare sempre di più le loro capacità di vivere vite significative, perché c’è certamente un significato alla vita”.

Da anni gli scienziati di tutto il mondo cercano di catturare il “suono dell’universo” registrando buchi neri che collidono e galassie che implodono. Fisso la copertina del disco fuori dal negozio di Londra, fisso gli occhi di J, sento la voce di Coltrane che sussurra “a love supreme… a love supreme…” come un mantra. E se fosse questo il suono dell’universo?

Articolo di Vittorio Buongiorno per Il Foglio Quotidiano

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