OSAMA CONTINUA A VINCERE

OSAMA CONTINUA A VINCERE

Domenico Quirico è un vecchio cronista, inviato per anni in Medio e Lontano Oriente da prestigiose testate giornalistiche. Nel 2013 è in Siria, dove viene rapito da terroristi e liberato dopo tre mesi di dura prigionia. Un uomo quindi che conosce profondamente i paesi islamici, la Palestina, sciiti e sunniti, i movimenti terroristici che da decenni insanguinano quelle terre, il lontano Afghanistan, dov’è stato corrispondente di guerra.

L’articolo che riproduco non è di stretta cronaca, non parla di vicende attuali, descritte con la sua prosa scarna ma efficace in quanto vera, ma è una riflessione di più ampio respiro, un invito al lettore a voltarsi indietro per riguardare, trascorso oramai un ventennio, le vicende succedute all’11 settembre 2001, giorno dell’assalto alle Torri gemelle e al Pentagono da parte di Al Qaida.

Domenico Quirico

Affermazioni forti quelle che Quirico scrive, intrise di pessimismo, che dànno una fotografia livida ma precisa, impietosa ma sincera.  Quirico pone domande ed interrogativi che non trovano risposte, né potevano esserci. Alla fine il pezzo lascia in chi legge, come credo in chi l’ha scritto, l’amaro in bocca, il presagio di una paura senza sbocchi, priva com’è di ogni residua speranza.

“In Occidente gli anniversari sono una mitologia di Stato utile a produrre credenze unanimi. La rievocazione a scadenza, gestendo accortamente la sorprendente potenza della chiacchiera, mette assieme una quantità di piccoli ricordi che servono appunto a non ravvivare l’insieme: così la sconfitta, la rivoluzione, il disastro «che ha cambiato il mondo» non fanno più paura, sembrano un vecchio lupo impagliato e rosicchiato dalle tarme che i ragazzi vengono a guardare ghignando. Eppure il fatto resta. Dopo venti anni adesso lo sappiamo: Bin Laden non è morto, Bin Laden ha vinto. È la perfetta circolarità del tempo e la antica unità della tragedia classica che esige il ritorno nello stesso luogo dove tutto è iniziato, l’Afghanistan.

Ci apparecchiamo a rievocare l’Undici Settembre sotto la dimostrazione tristemente matematica di come il suo veleno sia stato ben seminato nel nostro mondo e si sia sparso ovunque. La fuga da Kabul svela il segreto dell’insieme. Il Male esiste, infierisce in permanenza, non siamo affatto garantiti contro le ricadute e i ritorni all’indietro. Per non accorgercene occorrerà un supplemento di ablazione del senso critico. A Washington e province già qualcuno ci lavora. Non parlo certo del ritorno scenografico nella capitale afghana con le fanfare talebane di qualcuno dei suoi fedeli delle grotte di Tora Bora. Uno sberleffo in fondo, la maggior parte degli antemarcia sono stati eliminati come lui. E lo stesso Bin Laden, se lo si evoca con i suoi ambiziosi discepoli, si colloca ormai negli altarini jihadisti più come figura del passato che del presente.

Il problema è che la missione afghana, come ha ricordato Biden per trovar scuse ai suoi pasticci, aveva per scopo ufficiale di ammazzare, soprattutto metafisicamente, Bin Laden e quello che rappresentava. Missione incompiuta. La globalizzazione immaginata e costruita a colpi di attentati-spettacolo dal miliardario del terrore si è rivelata vincente, un mercato dei martiri di successo. Come una impresa ben diretta seleziona e distribuisce miliziani e suicidi in base a capitale umano e produttività. Fino a esser diventata una parte permanente del nostro mondo. L’investimento occidentale nella guerra e nella amministrazione dell’Afghanistan dopo l’Undici Settembre, centinaia di miliardi di dollari per lo più destinati a mantenere le forze di occupazione occidentale e le migliaia di morti della coalizione, era fondamentale perché simbolo della egemonia mondiale degli Stati Uniti. Era la prova della abolizione trionfante del Male terrorista. Invece esisteva troppo per essere percepito. La paura innescata da quell’Undici Settembre ha modificato in modo permanente e sottile la nostra vita di Occidente assai più della pandemia. La sicurezza ha costi a cui nessuno avrà il coraggio di rinunciare, rallenta movimenti di uomini e cose e pesa sull’economia globale, le città sono diventate bunker zeppi di controlli e divieti ben prima del contagio. Il Male di Bin Laden si diluisce e si relativizza. Ma non finirà mai perché la paura non finisce. E poi c’è l’esempio: i successori hanno tecniche diverse, ma hanno imparato che la ragnatela per avvolgere il nemico deve essere globale, stendersi su tutto l’universo islamico in Asia, Africa, Medio Oriente, controllare territori, scambiarsi uomini, armi, denaro. Una strategia coerente che invece continua a mancare agli occidentali che arrampicati sul primato del Bene, cercano di sostituirla in Afghanistan e in altri luoghi, moltiplicando i mezzi e le tecnologie.

La imposizione di una «democrazia del mercato» in Afghanistan e in altri luoghi, puntellata con frodi elettorali sistematiche e l’uso della forza, ha regalato agli jihadisti la interdizione di ogni vero processo democratico nelle terre che ci contendono, le tensioni comunitarie e sociali aumentano per opera nostra come neppure Bin Laden si sognava di attizzare. La indignazione dei popoli contro il furto delle risorse e degli aiuti a favore delle imprese occidentali e delle élite locali da noi insediate è la conseguenza del meccanismo micidiale che l’uomo di Tora Bora ha innescato con l’Undici Settembre. Al progetto dell’eterno ritorno, alla circolarità dell’età dell’oro islamista serviva di nuovo l’Afghanistan, dei taleban e di Bin Laden, mescolati, inseparabili nella Storia. Il fondamentalismo è fatto di simboli, parla con i simboli: il guerriero islamico che sgozza l’occidentale, le bandiere di dio che sventolano nella terra dei due fiumi dove ci sarà la soluzione di ogni enigma, i turbanti neri che passeggiano nelle basi americane costruite per dar la caccia a Bin Laden. Sì, lo sceicco Osama continua a vincere. A noi restano la paura e un mazzo di bugie.”

Domenico Quirico per La Stampa

Contact Us