PERE UBU IN SICILIA

19 Ott 2016 | 0 commenti

 

FULVIO ABBATE NOVELLO PERE UBU DISSACRA CAMILLERI – UNO SCRITTORE, SUCCEDANEO DI SCIASCIA, CHE DESCRIVE UNA SICILIA DA SOUVENIR, UNO SCRITTORE BOZZETTISTICO BUONO PER LE PRO LOCO – PERCHE’ VENDE TANTO? BIZZARRIE DELLA STORIA E DELLA BANALITA’.

 

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Fulvio Abbate, giornalista, critico d’arte

Fulvio Abbate, è il non più giovanisimo girovago de la plume di redazione, estroso e controcorrente, come si addice ad un cultore di Louis Ferdinand Céline, insignito de l’Ordre de la Grade Gidouille. Termine, quest’ultimo, inventato dal fondatore della Patafisica (misteriosa disciplina) Alfred Jarry allo scadere dell’800 e che vede fra gli insigniti italiani Ugo Nespoli, il pittore che ha illustrato le stazioni del Metro di Torino).

Succede ai “pensatori laterali”, immaginifici e dalla penna sulfurea, che le loro esagerazioni siano spesso programmaticamente trasgressive, col risultato di essere ammosciate e risultare indigeribili ai stomaci fini. Ma Abbate ci sa fare, si fa leggere, anche quando è apodittico e la sua vis polemica rimane appesa al soffitto come i salami . La critica severa ad un “mito” letterario come Camilleri è sacrosanta, ma forse necessiterebbe di maggior spazio e riflessione che non un articolo di giornale, se non altro per il lavoro che richiedono le “sudate carte”. Perchè  Abbate, da siciliano a siciliano, non ci prova?

   

 

Camilleri, sia detto in termini di mera constatazione, è un succedaneo di Sciascia. Per essere più esatti uno Sciascia “Hag”. Uno Sciascia depotenziato, senza gli acidi e il vero fiele di Trinacria.

 Tutto ciò che nello scrittore di “Todo modo” e di “Nero su nero” lasciava intravedere lo spettacolo mortuario delle abissali palermitane Catacombe dei Cappuccini, le stesse che aprono “Cadaveri eccellenti” di Francesco Rosi come necrologio letterario sulla sostanza dell’anima profonda indigena e della mafia, in Camilleri diventa invece quadruccio farsesco da tinello o, perché no, da tavernetta, piazzato accanto alla bottiglia di Marsala, alla collezione di “Storia Illustrata” e al posacenere pubblicitario rubato alle terme di Sciacca, come certe decorazioni di carretto siciliano che a Taormina fanno la felicità del tedesco di passaggio: pupi e compari.

In questo senso, il commissario Montalbano è musica letteraria leggera, incapace di giungere alle vette wagneriane del già citato racalmutese. Vagner in luogo di Wagner, Vagner così come in Sicilia talvolta viene interpretato l’autore della “Cavalcata delle Valchirie”.abbate-filvio1

 Diceva uno scrittore francese tra i più grandi del secolo trascorso, Louis-Ferdnand Céline, che il dialetto “nasce dall’odio” (lui in verità si riferiva agli argot, ovvero alle forme gergali, da quello dei macellai a quello dei muratori o degli scaricatori delle antiche Halles parigine), e lo stesso si può dire del dialetto siciliano, nel quale c’è sempre modo di intravedere unghie e pugnali, sputi e sangue; al contrario, il dialetto di Camilleri è un dialetto da pro-loco, da ente provinciale del turismo, un dialetto, l’ho già detto, depotenziato, buono anche per il cabaret “Madison” di piazza Don Bosco, dove le signore si brillano tra visoni e Chivas Regal, e tra il primo e il secondo tempo ecco veder brillare fuori dalle tasche i Dupont e le Muratti. Il resto dello scenario è a una fila di Porsche parcheggiate da uomini che hanno cura di tenere il maglione annodato sulle spalle.

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Lo scrittore Andrea Camilleri

 Mi direte: come è stato allora possibile il suo successo? Come è possibile che fino a un mese fa fosse ancora tra i più letti d’Italia col suo ultimo libro (L’altro capo del filo) e sia già pronto, per non perder l’abitudine, con una nuova formidabile uscita (La cappella di famiglia e altre storia di Vigàta)?

 Semplice, Camilleri è il prodotto perfetto per restituire una Sicilia di genere, lompo in luogo del caviale, un’isola da sarde a beccafico, degna di colui che anni addietro, sapendomi palermitano e già impegnato nell’avventura straordinaria del quotidiano “L’Ora”, così chiese: “Dottore Abbate, ma se vengo a Palermo, lei me lo fa conoscere un mafioso?” Bizzarrie della storia e della banalità. Anni dopo seppi che queste identiche parole erano state spese da Gianni Agnelli verso un direttore de “La Stampa” mio conterraneo. Perfino la mafia nei suoi libri diventa un souvenir, come il carrettino o la coppola o il grembiule con l’effigie di Brando nei panni del Padrino. Souvenir de Sicile.

Articolo di Fulvio Abbate per http://www.linkiesta.it

 

 

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