AHI, AHI….CARLETTO

3 Lug 2019 | 0 commenti

QUI SI NARRA L’AVVENTURA DEL SIGNORE DELLE LANGHE, INGEGNERE SVIZZERINO E ROMANO D’ADOZIONE, PER L’AFFILATA E VELENOSA PENNA DI GIANCARLO PERNA

La vita avventurosa di Carlo De Benedetti si è arricchita di un nuovo episodio, tipico del personaggio. Sotto Natale, la magistratura ha incriminato il commercialista dell’ Ingegnere per un investimento a suo nome nelle Banche popolari. Il fatto risale a 4 anni fa, con Matteo Renzi a Palazzo Chigi.

L’ Ingegnere, che di Matteo potrebbe essere nonno, aveva preso a benvolere l’ allora promettente fiorentino. Gli faceva da consulente economico e si vedevano di continuo. Per caso, diciamo così, seppe dal nipotino che la riforma delle banche popolari era in dirittura d’ arrivo. Ebbe la notizia il 16 gennaio 2015. Il 20 fu emanato il decreto.

Nelle more, si precipitò al telefono e ordinò al trader: «Compri azioni delle popolari per 5 milioni di euro», confidandogli che la dritta era del premier. Varata la riforma, i titoli si impennarono e l’ Ingegnere guadagnò, pare, 600.000 euro. Poiché aveva l’ aria di un insider trading – il guadagno di chi profitta di informazioni privilegiate – la magistratura s’ insospettì.

BInterrogati, i due fecero il gatto e la volpe. Renzi negò di avere dato indicazioni, De Bendetti di averne ricevute. Così, il rinvio a giudizio è toccato al povero commercialista per non avere denunciato l’ operazione alla Consob, pur sapendola «sospetta». Ora, è lui nelle peste. Domani, chissà. Nella vicenda, c’ è molto dell’ ottantaquattrenne De Benedetti. Il fiuto negli affari, l’ uso della politica, il gusto dell’ azzardo, l’ anguillismo giudiziario.

Berluscono e De Benedetti

TRA LANGHE E SVIZZERA

Da mezzo secolo, l’ Ingegnere – detto così per la laurea al Politecnico di Torino, sua città natale – è protagonista della società italiana. Anche se è un po’ svizzero. Nella Confederazione sfollò con la famiglia durante la guerra per sfuggire all’ ondata antiebraica. Si trasferì di nuovo negli anni Sessanta, avendo tre ragazzi, Rodolfo, Marco, Edoardo, che erano un’ esca ghiotta per i sequestratori che allora imperversavano da noi.

In seguito, ha fatto la spola tra le Langhe, dove ha un villone, e Sankt Moritz dove ne ha un altro. Attualmente, ha doppio passaporto. De Benedetti ha costruito un impero miscellaneo. Ha un’ holding, la Cir, che contiene tante matrioske, nei più svariati ambiti: energia (Sorgenia), giornali (Gedi), componenti auto (Sogefi), sanità (Kos), finanza.

All’ ingrosso, 13.000 dipendenti. Ma tutto è ballerino nel mondo di De Benedetti. Negli anni, è entrato e uscito dalle aziende, ha comprato e venduto, riempito, svuotato, trasformato, assunto e licenziato in una specie di inesauribile fregolismo finanziario. L’ Ing. non ha fatto fabbriche ma affari. La sua vocazione non è industriale ma finanziaria. Lo scopo non è il prodotto ma i soldi.

LO CHIAMAVANO IL TIGRE

Tra gli emblemi del capitalismo italico, Gianni Agnelli, ricco di famiglia, e Silvio Berlusconi, l’ uomo che si è fatto da sé, De Benedetti rappresenta l’ irrequieto capitano di ventura. Un giorno nella polvere, l’ altro sull’ altare. Dal padre, Rodolfo, ereditò una fabbrichetta di tubi flessibili con 80 operai nella quale già lavorava il fratello maggiore, Franco, poi senatore del Pds. I due sono sempre andati d’ amore e d’ accordo ma essendo Carlo preponderante, Franco fu detto «il resto del Carlino».

Carlo, invece, fu detto il «Tigre». Nel 1972, acquistò una società immobiliare, quotata in borsa, la Gilardini. La svuotò e ne fece un’ azienda metalmeccanica. Gli Agnelli, poiché il lavoro era affine, spiarono le mosse di De Benedetti e videro che ci sapeva fare. Le due famiglie si conoscevano da una vita. A Torino abitavano nello stesso palazzo, poi furono vicini nelle ville in collina, in più Carlo era stato al ginnasio con Umberto Agnelli.

Elkann, Calabresi e De Benedetti

Fu così che nel 1976, Umberto offrì al compagno di classe di fare l’ ad in Fiat. Carlo accettò, conferendo la Gilardini in cambio di azioni. Restò però solo 100 giorni, perché si sentiva a disagio. Gli Agnelli, diffidandone, l’ avevano infatti isolato. Il Tigre fece solo in tempo a silurare Gianmarco Rossignolo, capo della componentistica, liquidando come «aria fritta» le sue teorie. Si fece fama di arrogante.

L’ INTUIZIONE DELLA PANDA

A suo merito, invece, la rottamazione delle 126 e 127, utilitarie obsolete, in cambio di una novità. Andò dal designer Giorgetto Giugiaro e gli disse: «Voglio una vettura-jeans». Giugiaro buttò giù uno schizzo e nacque la Panda. Un altro mordi e fuggi fu nel 1981 l’ avventura del Banco Ambrosiano.

Era una banca cattolica in cattive acque guidata da Roberto Calvi, che l’ anno dopo finirà impiccato su un’ arcata del Ponte dei Frati neri a Londra. De Benedetti, non si è mai capito perché, ci entrò come vicepresidente portando in dote 52 miliardi di lire. Ne uscì 60 giorni dopo, forse avendo visto troppo, con tutti i suoi soldi, più una regalia di 2,5 miliardi.

Di lì a poco, la banca fallì. La capatina fu giudicata sospetta e, anni dopo, l’ Ing riportò 2 condanne per bancarotta fraudolenta. In primo grado e in Appello. La Cassazione però lo assolse per un vizio procedurale.

Gianni Agnelli e De Benedetti

Com’ è, come non è, nei primi anni Ottanta troviamo De Benedetti alla testa della leggendaria Olivetti di Ivrea. Era il gioiello dell’ elettronica italiana in lenta decadenza. Il Nostro la rassettò. Poiché la branca Usa dell’ azienda zoppicava, licenziò la responsabile Marisa Bellisario (dopo la morte, divenne simbolo dell’ imprenditoria femminile) dicendole: «Lei è un’ oca».

LA CRISI DELL’ OLIVETTI

Mario Calabresi

Nei lustri successivi, il Tigre fece strame. Negli anni ’90, perse l’ aggancio con lo sviluppo tumultuoso dei computer e l’ Olivetti uscì dal mercato. Licenziò migliaia di maestranze e fu ribattezzato De Maledetti. Tutto l’ indotto del Canavese retrocesse di mezzo secolo. Per fare cassa, De Benedetti rifilò alle Poste paccottiglie per 600 miliardi – telescriventi vetuste, software megalitici, ecc. -, dando mazzette a un alto funzionario.

De Benedetti con Eugenio Scalfari

Nel processo per corruzione, se la cavò per il rotto della cuffia con la prescrizione. Fu anche arrestato ma rilasciato dopo 13 ore. Il giudice che lo liberò, Augusta Iannini (moglie di Bruno Vespa) si dichiarò anni dopo pentita di averlo fatto così in fretta. Gli è andata però male con una condanna a 3 mesi, l’ unica passata in giudicato anche se poi convertita in pena pecuniaria, per falso in bilancio sempre ai tempi dell’ Olivetti. Buone e meno buone, le avventure del Tigre sono infinite. Lo spazio però è tiranno. Mi limiterò perciò a dire chi ha protetto il Nostro nelle sue spericolatezze.

Politicamente, l’ Ing è stato un repubblicano, vicino al ministro Bruno Visentini. Ricevette anche molti favori dal dc Romano Prodi. Ha ampiamente bazzicato i comunisti, da Enrico Berlinguer a Massimo D’ Alema. Tenne a battesimo il Pd di Walter Veltroni, vantandosi per anni di esserne la tessera n.1. Ma la sua assicurazione sulla vita fu Repubblica.

Eugenio Scalfari, il fondatore, s’ innamorò di lui. Lo chiamava con affetto, «cavalier solo». Gli tenne bordone in tutte le operazioni che ho descritte e in molte altre. Ecco uno scampolo delle sue carinerie: «Capacità di lavoro eccezionale, intuito per gli affari molto superiore alla media. È intelligente e ingenuo, furbissimo e candido, estroverso e solitario, coraggioso e bisognoso di affetto quant’ altri mai». A furia di sviolinate, lo indusse nel 1989 a comprare L’ Espresso e La Repubblica. Scalfari si beccò 90 miliardi sull’ unghia. Il socio, Carlo Caracciolo, 300. Così, De Benedetti s’ impossessò un’ altra volta di una cosa fatta da altri, fedele al principio di non crearne nessuna.

Articolo di Giancarlo Perna per la Verità (https://www.laverita.info/)

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