Interessante l’inedito confronto fra due articoli, apparsi sul Foglio a distanza di un mese uno dall’altro. Il primo è frutto dell’intelligenza artificiale, apparso su Il Foglio AI, un appuntamento settimanale, definito un laboratorio permanente, una palestra in cui l’intelligenza artificiale continua a crescere, sbagliare, migliorarsi e – soprattutto – a farci pensare. Il Foglio AI definisce la difesa di Israele un atto di civiltà. Il secondo è un editoriale di Giuliano Ferrara, fondatore del giornale e notoriamente filo- israeliano,che di fronte all’inasprimento inumano del conflitto parla apertamente di delegittimazione etica dello stato di Israele.
Se non ci arrivate con l’intelligenza umana, ve lo spiego con un po’ di intelligenza artificiale: difendere Israele significa difendere l’occidente
Israele non è solo un alleato. Non è solo un avamposto strategico. Non è solo un paese assediato che cerca di difendersi da una minaccia esistenziale. Israele, nel contesto attuale, è il barometro di ciò che l’occidente è disposto a tollerare e ciò che non può permettersi di lasciare impunito. Difenderlo, oggi, soprattutto di fronte alla minaccia iraniana, non è solo una scelta geopolitica. E’ una scelta di civiltà.
Per capire perché, basta guardare al comportamento dell’iran negli ultimi due decenni. Teheran ha costruito una rete di destabilizzazione regionale attraverso milizie armate, finanziamenti occulti e un’agenda che ha come scopo dichiarato la distruzione dello stato ebraico. Ma Israele è solo il primo anello. Perché un medio oriente dominato dall’iran sarebbe un medio oriente senza pluralismo, senza tolleranza, senza spazio per le minoranze, e con un ruolo sempre più marginale per l’occidente. Difendere Israele vuol dire evitare che la regione intera cada sotto un’egemonia che disprezza la democrazia, i diritti individuali, la libertà di pensiero e la parità tra i sessi.
L’iran non combatte Israele solo sul piano militare. Lo combatte anche sul piano simbolico. Israele è l’unico paese della regione che unisce radici storiche, cultura occidentale, innovazione tecnologica, pluralismo interno. Il suo successo è una sfida vivente per il regime iraniano, che ha bisogno di indicare agli ayatollah e ai loro seguaci un nemico esterno per giustificare repressioni interne. Ogni razzo lanciato da Hezbollah, ogni attacco degli houthi, ogni sabotaggio in Siria o in Iraq non è solo un attacco a
Israele: è un messaggio al mondo libero. E ogni risposta difensiva di Israele è, di fatto, una barriera anche per noi.
L’occidente non può permettersi di restare neutrale. Perché il problema non è Israele. Il problema è il progetto dell’iran. E questo progetto non si ferma alle frontiere israeliane. E’ un progetto che punta a cambiare gli equilibri globali, a rendere legittima la violenza settaria, a moltiplicare i regimi autoritari antiamericani. Quando Israele viene attaccato, è anche la nostra idea di sicurezza collettiva che viene messa in discussione. Quando Israele risponde, non lo fa solo per se stesso. Lo fa perché ha imparato che la deterrenza è l’unico linguaggio che il regime iraniano capisce davvero. Non si tratta di approvare ogni scelta politica del governo israeliano. La difesa dell’occidente non passa per l’appiattimento acritico. Ma c’è una differenza fondamentale tra discutere sulle politiche interne di uno stato democratico e confondere quel dibattito con la legittimazione di chi lo vuole eliminare dalla mappa. Quando Israele è costretto a neutralizzare una minaccia esistenziale, lo fa perché la sua sopravvivenza è in gioco. E con essa, la credibilità di un intero blocco di valori.
Difendere Israele non significa militarizzare l’occidente. Significa ricordare che ci sono regimi che non si fermano se non li si ferma. Che ci sono minacce che non si gestiscono con i buoni sentimenti. Che c’è un punto, oltre il quale, tollerare equivale a cedere. E che la civiltà occidentale non può permettersi il lusso di fare finta che sia un problema di altri. Israele non è perfetto. Ma è dalla nostra parte. E se non lo difendiamo quando è sotto attacco, non difendiamo solo lui. Tradiremmo anche una parte di noi stessi.
Il conflitto è ormai al di là del bene e del male. Perché la guerra di Gaza è diventata una maledizione per Israele. E’ ora di reagire.
La guerra di Gaza è diventata una maledizione, un conflitto al di là del bene e del male. Di fronte alle testimonianze lancinanti della fame e alla claustrofobica enormità del numero delle vittime non hanno più il senso originario i torti e le ragioni, le analisi politiche cosiddette si volatilizzano e spariscono nella pura emozione, il controllo razionale sui dati è imprigionato nella passione, non ce la si fa quasi più a ragionare, a comporre i fatti con i fantasmi. Israele non aveva alternativa al rigetto attivo, militante, bellico del nichilismo antisemita evidente nel pogrom che l’ha colpito al cuore il 7 ottobre. Ma fare quel che devi nel combattimento contro un piano diabolico, figlio del jihadismo, della più malvagia disperazione, mascherato da resistenza, può portare alla condizione di paria, a un isolamento della tua posizione nella coscienza del mondo e a una condanna che arriva a rovesciare, invertire il significato dello sterminio degli ebrei d’europa nell’immagine dello sterminio dei palestinesi di Gaza. In Israele e nella diaspora ebraica si levano voci che considerano lo stato degli ebrei, il focolare nazionale ebraico della dichiarazione Balfour, il guardiano di un campo di concentramento. Era questo, e in questo ha vinto la sua battaglia, il programma dichiarato di Sinwar. Combattere uno stato che è una fortezza terrorista, in cui i predoni si rifugiano sottoterra, il paradiso di Hamas, e lasciano nell’inferno di superficie il popolo e gli ostaggi catturati dopo il massacro a sopportare le conseguenze della loro ferocia senza speranza, ha prodotto una maledetta inversione della colpa: uno stato e un popolo che dal 1948 si battono per sopravvivere diventano ora il centro psicologico di una delegittimazione etica che investe ebrei e gentili, nazione e diaspora, e che ha avuto sbocco nella messa in discussione di questa stessa ansia di sopravvivenza, identificata con l’annientamento e la cacciata di un altro popolo senza scarpe, senza acqua, senza farina.
Il gabinetto di guerra e il governo di Israele, la Knesset, il capo dello stato, le istituzioni libere e le voci di stampa e informazione libere, l’esercito dovrebbero discutere di questo materiale maledetto e strisciante, di questo serpente che è diventato il propulsore della guerra umanitaria contro Israele, della sua condanna e del suo confinamento nel male assoluto della malnutrizione, della perdita di controllo di una forza occupante sul territorio e su chi lo abita, vecchi donne e bambini. Quello è il problema, se di problema si può parlare nel mezzo di una tragedia. Se occupi un territorio abitato devi nutrire gli esseri umani che lo affollano. Hamas lo ha capito, ha truccato le carte con una tecnica terroristica capace di indurre Israele, l’esercito occupante che quasi due decenni fa aveva lasciato quelle terre nella speranza di districarsene e aveva avuto in cambio l’incendio delle sinagoghe e il potere del terrore con Hamas, a negare la questione della disumanizzazione finale in una guerra giusta, con gli ostaggi ancora incarcerati, vivi e morti, nelle segrete dei terroristi.
Articolo di Giuliano Ferrara, Il Foglio Quotidiano, 26 luglio 2025


