Dietro la bara di un essere di cui si ignora anche il nome; che proprio ora che non c’è sentiamo dentro di noi, confusi e annullati in quell’unico, rapinoso destino. Paura ed egoismo insieme per un attimo si fanno da parte e l’umanità che è in noi trova un bagliore di vita nella morte.
Sarà pur vero che si muore come si nasce, soli, ma la paura di tutti è morire da soli. Senza che qualcuno se ne accorga e per un attimo faccia almeno finta di sapere che siamo esistiti. Per questo mi ha colpito una piccola storia di cronaca sulle pagine della Stampa. Narra di una comunità di tremila anime in provincia di Savona, Cengio, che l’altra mattina ha seguito in massa i funerali di uno sconosciuto. Si chiamava Nicola, non aveva neanche sessant’anni e da dieci viveva in una struttura assistenziale del paese, la Casa degli Scapoli. Pare che arrivasse dal Veneto, che avesse perso la madre da piccolo e non se ne fosse mai fatto una ragione. E che, prima di smarrirsi del tutto, avesse lavorato come gelataio. Un uomo semplice, devoto, silenzioso. Una di quelle vite a perdere che non interessano a nessuno.
Le uniche persone con cui parlava erano don Meo e Lorenza, un prete e un’assessora. Quando Nicola è morto, don Meo ha rivolto un appello ai compaesani, esortandoli a non lasciarlo solo nell’ultimo viaggio e la risposta è stata travolgente, anche se forse non così sorprendente. Le donne e gli uomini che hanno gremito la chiesa non sapevano nulla di lui. Se fossero stati chiamati al pulpito, non avrebbero avuto aneddoti da raccontare. L’aneddoto era proprio quel funerale: persone di ogni ceto ed età che si immedesimano in uno sconosciuto perché nella coda solitaria del suo destino hanno visto incarnati i loro fantasmi, che sono poi anche i nostri.
Articolo di Massimo Gramellini, Corriere della Sera
In copertina: scena di funerale dal film Amarcord di Federico Fellini