Giorgio Bocca è morto il giorno di Natale del 2011 all’età di 91 anni. Colgo quindi l’occasione per farne un ritratto attraverso i rapporti molto stretti che ebbi con lui. Ho cominciato a frequentare Bocca nei primissimi Ottanta…agli esordi di Repubblica e fra di noi, nonostante il quarto di secolo che ci separava, era nata un’istintiva simpatia..

25 dicembre 2011 Giorgio Bocca, nato a Cuneo il 28 agosto 1920, è morto nella notte di Natale

Arrivavo la mattina presto a casa di Bocca in via Bagutta 12 e lo trovavo spesso indaffarato a incollare dei ritagli pescati chissà dove. “Che cosa stai facendo, Giorgio?”. “Una voce di enciclopedia”. “Hai tempo da perdere con queste cose?”. “Ma, sai, mi danno 100 mila lire” e calcava la voce sul “centomila”. Anche se eravamo nei primi ’80 quella cifra non era granché, soprattutto per chi prendeva uno stipendio da Repubblica e uno da L’espresso. Quando uscivamo dagli studi della radio lui si infilava in una misteriosa porticina azzurra: usciva dopo cinque minuti e lo caricavo in auto. Una mattina, non resistendo alla curiosità, gli chiesi: “Che ci vai a fare in quel bugigattolo?”. “Prendo i soldi, subito, cash, di quella gente non c’è mai da fidarsi”. Una sera ero a cena a casa sua. Giorgio sedeva a capo tavola, io alla sua destra. Uno dei suoi figli si era sposato da poco. A un certo punto avvicinò il suo viso al mio e mettendosi la mano davanti alla bocca per non farsi sentire dalla moglie, Silvia Giacomoni, mi disse: “Sai, questo matrimonio mi è costato 10 milioni” e calcò la voce sui “milioni”. Più che a taccagneria lo attribuirei a un sacro rispetto per il denaro come rassicurazione e concreta conferma del suo successo. Bocca non ha mai dimenticato di essere il figlio della maestrina di Cuneo e questo sentimento lo ha seguito per tutta la vita (quando diceva quelle cifre, in fondo modeste, assumeva un’aria quasi birichina, come se l’avesse fatta grossa a sua madre).

Questo rapporto col denaro spiega, insieme a una buona dose di masochismo, la fascinazione che Bocca provava per i ricchi, lo lusingava essere invitato a cena dai Pirelli, dai Brion, dalla Crespi. Ma si annoiava a morte, anche perché le cene dei ricchi, con la scusa della dieta, sono assai parche, mentre a lui, nel cui Dna albergavano antiche fami contadine, piaceva mangiare e bere. “Perché ci vai, Giorgio?”. “Ma, sai, i Pirelli, i Brion…”. “Ma tu sei molto più importante di qualsiasi Pirelli o Brion o Crespi”. Bocca non ha mai avuto piena consapevolezza dell’importanza che ha avuto per più di mezzo secolo nella vita culturale italiana. Psicologicamente era rimasto un provinciale come ha scritto lui stesso in uno dei suoi libri più belli (l’altro è la coraggiosa biografia di Togliatti dove smaschera le nefandezze del “Migliore” cosa per cui lui, socialista, fu sempre odiato dai comunisti).

Il culmine del masochismo lo raggiungeva quando accettava l’invito che ogni anno Giulia Maria Crespi faceva ad alcuni importanti personaggi nella sua tenuta della Zelata sul Ticino. La sadica zarina costringeva gli uomini, quasi tutti in età, a una regata agonistica sul fiume. Lui ne tornava distrutto e furioso. “Perché ci vai, Giorgio?”. “Ma, sai, la Crespi…”.

Una volta chiesi a Bocca di Montanelli. “Mah, Montanelli e io siamo stati spesso accomunati, ma credo che non abbiamo nulla a che vedere. A Montanelli invidio il giro di frase elegante, la battuta, ma non credo fosse un uomo profondo”.

Giorgio Bocca ha fatto memorabili inchieste. Nel 1962 con un reportage a Vigevano ci fece scoprire il ‘boom’ economico che noi, che lo stavamo vivendo, non avevamo capito. È stato il primo giornalista italiano a tornare dall’Urss raccontando cosa fosse veramente il “socialismo reale”.

Quando passeggiavamo nelle strade intorno a via Bagutta Bocca ogni tanto abbaiava. “Che fai Giorgio?”. “Scarico la tensione, me lo ha consigliato il medico”. Non l’ ho mai visto veramente disteso. “Ogni mattina quando mi alzo sono preso dall’angoscia per tutto ciò che devo fare”. Ogni tanto Bocca, per tamponare la nevrosi, usciva da Milano in auto e girovagava senza meta.

Bocca era un uomo ruvido, spiccio, di poche parole, in questo un cuneese purosangue. Ma questa ruvidità mascherava una chiusa e scontrosa timidezza e anche una certa fragilità emotiva che contrastava con la sua figura di uomo solido, anche fisicamente. Un Capodanno ero ospite dei Bocca a La Salle, sopra Courmayeur, insieme alla mia giovane moglie. A mezzanotte arrivò un’allegra combriccola non si sa bene invitata da chi. Fra i nuovi arrivati c’era una donna sulla cinquantina, sciapa, che diceva di essere un’editrice. Chiese al padrone di casa che lavoro facesse. Bocca lì per lì si incazzò di brutto: “Ma come, vieni a casa mia, dici di essere un’editrice e non sai nemmeno chi sono?”. Non ricordo cosa rispose la cretina, Giorgio si alzò e sparì. Dopo un po’ andai a cercarlo. Si stava ubriacando di whisky. Non aveva retto che una squinzia qualsiasi non l’avesse riconosciuto. Ci mettemmo a giocare a biliardo. Credo di me lo divertisse la giovanile spavalderia e turbolenza: “Mi annoio, arriva Fini e comincia il casino”.

Quando facevamo i Dialoghi Bocca si teneva coperto sui suoi giornali. Ma una volta sbottò contro Zanetti direttore de L’espresso. Io registrai diligentemente e scrissi. Una mattina alle sei squilla il telefono. Vado a rispondere tutto insonnolito. “Ma che cazzo hai scritto”. “Ma quello che mi hai detto tu, Giorgio. E poi è la verità”. “Se tu, alla tua età, non hai ancora capito che non si può dire sempre la verità sei un cretino”. E buttò giù la cornetta. Questa frase, detta da chi era considerato uno dei più coraggiosi giornalisti italiani, mi colpì. Ma avrei dovuto tenerla in maggior conto e mi sarei evitato tanti odii, esclusioni, fastidi.

I miei rapporti con Bocca son sempre stati alla pari. Non si poneva come fratello maggiore. Gli insegnamenti me li dava col suo pragmatismo scevro da ogni sentimentalismo. Una volta mi disse: “Sai, ho capito che dopo una certa età se vuoi l’affetto devi pagartelo” (e intendeva l’affetto, non il sesso). A me che stavo allora con una donna bella e affascinante, “la morona” come la chiamava lui affettuosamente, sembrava una posizione troppo cinica. Quando ebbi l’età che aveva lui allora, capii che aveva ragione.

Bocca sulla pagina è rimasto lucido quasi fino all’ultimo, ma fisicamente era crollato. Credo che definitivo sia stato il trasloco dalla storica abitazione di via Bagutta alla più residenziale via De Grassi. In via Bagutta poteva scendere in strada, parlare col formaggiaio, col fruttivendolo, avere ancora una parvenza di vita sociale. In via De Grassi i negozi erano diventati troppo lontani, per lui irraggiungibili. Di questo tracollo credo di poter dare una testimonianza. Ero andato a trovarlo in via Bagutta con una bottiglia di rosso che ci scolammo di nascosto dalla Giacomoni. Io avevo passato i sessant’anni quindi lui doveva viaggiare verso gli 85 e oltre. Mi mise le mani sulle spalle. “Sei ancora solido”. Ma anche la sua presa era solida. Poco tempo dopo in via De Grassi Bocca, “il robusto”, era diventato un omarino che chiunque avrebbe potuto spazzar via con un soffio.

Massimo Fini

L’ultima volta che ho incontrato Bocca è stato a casa sua. Lui era vigile, ma preferì far parlar noi, Silvia e io. In quel pomeriggio luminoso, d’inizio estate, tutti e tre ci rendevamo conto, anche per quel sole spavaldo fatto per altre età, di essere dei sopravvissuti. Bocca si è alzato per congedarsi. Gli ho chiesto: “Giorgio, hai più di novant’anni, che cosa pensi della tua vita?”. “Penso che, tutto considerato, mi è andata bene”.

Massimo Fini per Il Fatto Quotidiano