CAFFE’,CAFFE’

CAFFE’,CAFFE’

L’espresso compie 120 anni. Il 19 novembre 1901 fu infatti brevettata dal milanese Luigi Bezzera la macchina «tipo gigante con doppio rubinetto» per fare il caffè istantaneo, secondo un procedimento di percolazione sotto alta pressione di acqua calda che è poi diventato in Italia una icona identitaria.  

In realtà, infatti, era stato il torinese Angelo Moriondo a lanciare per l’Esposizione Universale di Torino del 1884 il procedimento che permetteva di abbreviare i parecchi minuti richiesti dal modo di fare il caffè tradizionale per aspettare che i fondi si depositassero nella tazza. 

Come spiegava un giornale dell’epoca: «è una curiosissima macchina a spostamento con cui si fanno trecento tazze di caffè a vapore in un’ora (proprio a vapore). Si compone in un cilindro o caldaia verticale che contiene 150 litri d’acqua, la quale viene messa a ebollizione da fiammelle di gas sotto il cilindro, e per mezzo del vapore con una complicazione curiosissima di congegni si fanno in pochi minuti dieci tazze di caffè in una sola volta o una sola tazza se volete». 

Il successo era stato grande, tant’ è che gli era valso la medaglia di bronzo della Esposizione. Ma Moriondo non si era preoccupato di brevettare, pago di attrarre clienti nei suoi due locali: l’American bar nella Galleria Nazionale e l’Albergo Ligure nella centrale piazza Carlo Felice. «Venite al Ligure, vi daremo il caffè in un minuto», era lo slogan. 

Fu dunque Bezzera a brevettare «innovazione negli apparecchi per preparare e servire istantaneamente il caffè in bevanda»: la locuzione ammette che qualcosa c’era già ma, appunto, per la legge l’espresso inizia a esistere da questo momento. Ci volle comunque che Desiderio Pavoni nel settembre 1905 compresse il brevetto perché partisse una fabbrica di macchine per espresso nella milanese Via Parini, che si mise subito a venderne al ritmo di una al giorno.

Alfonso Bialetti

E già nel 1905 la macchina di Bezzera fu presentata alla prima Fiera Internazionale di Milano. Questa ripartizione di compiti quasi da stereotipo tra genio commerciale milanese e genio industriale torinese continua con il torinese Teresio Arduino, che dopo aver fatto il militare nel Genio Ferrovieri ha l’idea di rivedere il sistema in base a quel che aveva imparato sulle caldaie delle locomotive. Nasce così nel 1910 la Victoria Arduino, che continuerà a servire espressi agli italiani per mezzo secolo. 

Crema caffè Gaggia

Un modello a colonna spesso impreziosito con decorazioni di elementi floreali in smalti e bronzi che ne farà anche un gioiello di Art Nouveau, déco e razionalista esportato in tutto il mondo. Anche il manifesto pubblicitario disegnato nel 1922 dal grafico livornese e artista futurista Leonetto Cappiello è considerata una delle massime espressioni di grafica del Novecento italiano. 

L’espresso così prodotto ha però l’inconveniente di essere spesso troppo amaro. Finché qualcuno non ha l’idea di sostituire al vapore un pistone, in modo da ottenere un infuso unicamente di polvere di caffè e acqua bollente. Nasce così la crema-caffè, offerta la prima volta nel 1948 con la Gaggia modello Classica da Achille Gaggia e Carlo Ernesto Valente, dopo dieci anni di lavoro su un brevetto che lo stesso Gaggia aveva comprato 10 anni prima. 

Moka Bialetti

Per la cronaca, il suo bar era l’Achille di via Premuda a Milano, e la Classica fu poi battezzata Faema. In realtà prima ancora, nel 1935, un sistema per sostituire il vapore con aria compressa era stato già creato da un soldato ungherese rimasto a Trieste per amore dopo la Grande Guerra, di nome Francesco Illy.

Ma non ebbe successo, anche se in compenso lo ebbe la ditta da lui lasciata ai discendenti. Pure nel 1948 Desiderio Pavoni torna in campo, chiedendo al designer Giò Ponti di fargli una caldaia non più orizzontale ma verticale. Infine, nel 1961 la Faema lancia la E61, che non utilizza più una cisterna, ma preleva l’acqua direttamente dalle tubature. 

Francesco Illy

Inoltre prima di essere attraversata da acqua a alta pressione la polvere di caffè è toccata da un minimo di acqua a bassa pressione, in modo da estrarre le sostanze aromatiche al massimo. Ed è questo l’espresso definitivo, sia pure con macchinari sempre aggiornati. 

Intanto anche il caffè in casa aveva avuto la sua rivoluzione da quando nel 1933 a un fonditore di alluminio era venuta l’idea di fare il caffè col sistema che sua moglie usava per il bucato. Si chiamava Alfonso Bialetti, ma questa è già un’altra storia.

Articolo di Maurizio Stefanini, Libero Quotidiano

LA STORIA DI ENRICA

LA STORIA DI ENRICA

In un ebook dieci donne raccontano in prima persona piccole e grandi rivoluzioni personali verso l’inclusione. Dieci donne che sono riuscite a riscattarsi dalla violenza fisica, verbale e psicologica- Una iniziativa in collaborazione fra Sorgenia e la Grande Casa onlus- Il progetto si avvale inoltre della collaborazione di un team del Dipartimento di Comunicazione e ricerca sociale della Sapienza Università di Roma- Per ogni giornata dedicata al tema della violenza contro le donne fino a Natale e per ogni downloan del libro, Sorgenia donerà 1 euro alla Fondazione Pangea Onlus. (www.sorgenia.it/sorgenia-con-le-donne-2021)

Fra le dieci storie abbiamo scelta questa di Enrica Scielzo, la prima fashion e beauty blogger transessuale al mondo. Enrica inizia a raccontare la sua storia nel blog The Lookmaker, “un invito alla spensieratezza, alla bellezza, all’essere se stessi”. Da qui il lancio verso una carriera come consulente di immagine e influencer nel campo della moda e della bellezza. “Diario di una Trans” è il suo primo libro, che racconta in maniera intima – e divertente – la sua metamorfosi

Le parole possono fare male. E non guariscono in fretta come i lividi o gli ematomi, ma rimangono lì per sempre. Ritornano a tormentarti la notte, quando non riesci a dormire, o mentre sei imbottigliata nel traffico, o mentre sei in volo per andare in vacanze e guardi distrattamente le nuvole fuori dal finestrino e – bam – ti colpiscono di nuovo, come uno schiaffo un pieno viso.

Mi chiamo Enrica, e sono una ragazza transessuale. Sono nata in una città del Sud Italia alla fine degli anni ’80, quando essere gay era considerata un’onta e non si parlava ancora di identità di genere, figuriamoci di transessualità. Ero un bambino dolce ed effemminato, che amava leggere, disegnare e giocare con le Barbie. E questo ha attirato su di me tanti insulti e cattiverie nel corso della mia vita: per gli altri ero l’outsider, quello diverso, il “ricchione” – quello che preferiva stare con le femmine invece che giocare a calcio come tutti gli altri. I bulli per fortuna non mi hanno mai picchiato, ma le loro parole e le loro risatine facevano più male di un pugno. Perciò uscivo raramente, preferivo chiudermi in casa nel mio mondo, affinché nessuno potesse vedermi. Affinché nessuno potesse ferirmi. Ho capito di essere trans molto tardi, a 28 anni. Prima di allora, non mi ero resa conto di quella che ero realmente. Pensavo di essere un ragazzo gay come tanti altri, a cui piacevano le persone dello stesso sesso. E invece non era così. Non era solo una questione di chi mi piacesse o con chi andassi a letto, era più legato a come mi sentivo: donna. Mi sentivo donna, e volevo esserlo ogni giorno, dalla mattina quando mi svegliavo fino alla sera quando andavo a dormire. Quindi un giorno ho smesso di ascoltare le persone che mi insultavano o mi prendevano in giro, e ho deciso di essere me stessa, di prendere in mano la mia vita e di farne quello che volevo. Ho messo a frutto tutte quelle serate che passavo da sola a casa al PC e ho deciso di aprire un blog in cui potessi parlar della mia storia. Ho cercato di trasformare quel tempo che passavo davanti allo schermo per fare qualcosa di buono, di utile. Volevo ispirare gli altri, infondere speranza, dare una voce a chi non aveva il la forza per difendersi. Ho voluto trasformare quella situazione negativa in qualcosa di positivo, ho cercato di vedere il buono, il lato migliore, come faccio sempre nella vita. Ho fatto della mia debolezza un punto di forza. Ho voluto dimostrare a quei bulli che mi prendevano in giro che ero più forte di loro e delle loro parole. Ho passato tutta la vita a sentirmi sbagliata. A voler riuscire nello stampo di qualcun altro, a voler essere qualcosa di diverso da me; e più ci provavo più ne soffrivo, perché non ci riuscivo. Mi sentivo soffocata, mortificata ogni volta che qualcuno mi guardava.

Finché un giorno ho deciso che ero stanca di dovermi sentire in colpa o di dover chiedere scusa per come ero. E quando ho capito questo, quando ho capito che non era io che non andavo e ho imparato a perdonare me stessa, è stato come respirare per la prima volta. Forse è proprio questo, la mia fragilità a rendermi speciale. E io voglio coltivare questo mio lato, invece di doverlo seppellire. E spero un giorno di trovare qualcuno che mi ami e mi insegni ad amarmi anche per questo, invece di deridermi o di dirmi che dovrei cambiare. Tra tante persone uguali, ce ne vuole qualcuna che osi andare controcorrente. Io sarò quella donna. Quella diversa. L’outsider. D’altronde, i diamanti sono preziosi proprio perché diversi da tutte le altre pietre. Io mi sento fortunata, e a volte me ne dimentico. Dovrei ricordarmelo più spesso. Anzi, dovrei ripetermelo ogni giorno. Ogni mattina, quando mi sveglio, dovrei dirmi: “Sono fortunata”. Ma non fortunata perché ora mi invitano agli eventi, perché piaccio ai ragazzi o perché le aziende mi mandano prodotti gratuiti da provare. Anche per quello, è ovvio, ma mi sento fortunata perché ho lavorato sodo per meritare tutto questo. Perché non è un privilegio, ma un merito. Mi sento fortunata perché ho una famiglia che mi ama, e faccio un lavoro che amo. Mi sento fortunata perché ora mi accetto, perché posso scegliere chi o cosa essere. Mi sento fortunata a poter indossare ciò che voglio, a poter mangiare ogni giorno, a poter aver studiato, e ad avere diritti semplici e basilari che a tante altre persone sono negati. Mi sento fortunata ad essere qui, a non aver ceduto alle critiche, o alle cattiverie, o al dolore. Mi sento fortunata ad essere viva, ad aver resistito, ad essere andata avanti, mentre altri non ce l’hanno fatta, e hanno deciso di farla finita prima. E se sono qui, oggi, a scrivere queste cose, forse è anche per rappresentare tutti quelli che si sentono sbagliati, arrabbiati, infelici, soli, incompresi; tutti gli outsider come me, che hanno un mondo meraviglioso dentro di loro che chiede solo spazio, e tempo, e luce per poter fiorire. Quello che vi invito a fare, se state leggendo queste pagine, è di riconsiderare il modo in cui giudicate le persone. Quando vedete gente felice sui social, pensate a cosa c’è dietro quel sorriso, quante ne stanno passando magari e si sforzano di proiettare un’immagine positiva di sé per andare avanti. Quando vedete qualcuno, invece di ridergli dietro perché ha il culo grosso, il naso aquilino e i denti storti, pensate a quanto ha sofferto e a quanto soffre ancora per questa cosa; chiedetevi voi come vi sentireste se la gente vi prendesse in giro per quelle cose di noi stessi che non ci piacciono, quei piccoli difetti che tutti noi abbiamo e che facciamo fatica ad accettare. Quando vedete una compagna o un’amica che resta a casa il sabato sera, invece di pensare quanto è noiosa, chiedetevi se per caso non si senta sola, e non abbia voglia di parlare un po’, o di un po’ di compagnia per guardare un film in tv invece che al cinema. Le parole hanno conseguenze. Ti pare di sentirne l’eco per anni, forse per sempre. Ricordo ancora quando per strada mi chiamavano “frocio” o “ricchione”, e io andavo avanti a testa alta ma con le lacrime negli occhi. Quante volte avrei voluto finirla lì, la mia vita, per non subire altre umiliazioni. Io ho deciso di non cedere, di essere superiore. Ma non tutti hanno questa forza e tanti, troppi sono vittime di lingue taglienti come spade. La violenza non è solo fisica, la violenza è anche verbale. Le parole possono fare male. Impariamo ad usarle.

IL VAGABONDO DELLE ACQUE

IL VAGABONDO DELLE ACQUE

La casa editrice la Nave di Teseo ripubblica Cronache dell’alluvione di G.A. Cibotto (1925-2017), a 70 anni della tragedia che nel novembre del 1951 sommerse il Polesine- Una nuova edizione, con testi di Gian Antonio Stella, Elisabetta e Vittorio Sgarbi. Su questo sito puoi leggere su di lui in www.ninconanco.it/toni-cibotto/

Toni per gli amici, ha 26 anni quando, il 14 ottobre 1951, lasciata Roma, accorre nel suo Polesine devastato da un’inondazione di proporzioni quasi inimmaginabili. A Roma lavora alla Rizzoli e alla Fiera letteraria di Vincenzo Cardarelli, ed è sulla Fiera che sente il bisogno di pubblicare i primi racconti (Carnet dell’alluvione), scritti di getto, di un’esperienza seminale per il prosieguo della sua vita e della carriera letteraria. A un amico confiderà di essersi sentito «costretto ad amare una terra da cui sognavo unicamente di andarmene».

Gian Antonio Cibotto

È merito dell’amico e grande estimatore Neri Pozza se il Carnet diventa, tre anni dopo, Cronache dell’alluvione, il suo primo libro, accolto come una rivelazione da critici quali Eugenio Montale e Giovanni Comisso. Riletto ora, sembra mantenere il ritmo incalzante dell’azione improrogabile del protagonista impegnato a portare soccorso e conforto ai dispersi prigionieri al piano più alto di case sommerse, altri aggrappati a un muro o a una pianta ghermiti da una fredda corrente impetuosa, poi a procedere avanti per ore sempre chino sul remo che brucia le mani perché rari sono i mezzi a motore. Spesso la pioggia e la nebbia si accompagnano al buio che le torce non riescono a squarciare. Ai gridi e ai lamenti dei cristiani si assommano i versi delle bestie di ogni razza abbandonati nei recinti o ricoverati pure loro al piano più alto delle case nella speranza che arrivi il deflusso, ma già si vedono galleggiare le prime carcasse di animali travolti dai flutti.

Elisabetta Sgarbi

Nel rapporto con gli umani, nel tentativo di indurli alle scelte più ragionevoli, se non alla collaborazione, l’autore deve fare i conti con le diverse caratteristiche antropologiche e sociali che determinano la coscienza di classe quando si tratti di braccianti o contadini o agrari latifondisti, questi ultimi spesso con picchetti armati a difendere innanzi tutto la “roba”. Frutto anche del marasma organizzativo che ha colto tutti impreparati o inadeguati. Ci sono anche pause talvolta, alle osterie aperte che contendono alle parrocchie il richiamo di aggregazione: qui si beve e si bestemmia e ci si scalda, alle pareti sono appesi l’immagine della Madonna o della Sacra Famiglia e la foto di Giacomo Matteotti, il deputato socialista ucciso dai sicari di Mussolini. Toni incontra anche degli amici: i colleghi del «Gazzettino», ai quali si aggrega perché meglio attrezzati; Carlo Levi, che ha già pubblicato Cristo si è fermato a Eboli ed è una celebrità; Giuseppe Marchiori, genius loci, ruolo che in futuro sarà suo.

A Levi presta i suoi stivaloni alti, provvidenziali perché anche in città l’acqua in certi punti è molto alta e, in un punto proibitivo per il “piccolo” Toni, Levi, assai più prestante, se lo issa sulle spalle «come fosse un coolie cinese». Una sera, tornando a casa, si accorge che il postribolo è ancora abitato: «forse l’arrivo della truppa ha richiamato le donne».

La forte presenza ingombrante di militari e forze dell’ordine ispira a qualcuno un forte antimilitarismo, al punto di proclamare, con delizioso, per noi, anacronismo che «se arriva a comandare l’Italia leva la divisa anche alle maschere del cinematografo». Alla cronaca in presa diretta sono intercalate riflessioni ispirate alla saggezza popolare espressa in dialetto attraverso proverbi come «l’acqua xe pezo del fogo» o «a chi nasse desfortunà, ghe piove sul culo stando sentà». Cibotto arriva a ritenere che qui, ma potremmo dire in tutto il Veneto, il pensiero nasce in dialetto e il parlato in italiano ne è la traduzione. Ma è il paesaggio che più ispira le sue pagine di lirico accento, «perché il paesaggio è uno stato d’animo» e il suo vagabondare in lungo e in largo sull’infinita distesa d’acqua gli offre il continuo variare della luce, dei colori e delle forme.

Gian Antonio Stella

Dopo le Cronache Cibotto pubblica altri libri con Vallecchi, Rizzoli, Marsilio con Cesare De Michelis, ancora Neri Pozza con Giuseppe Russo e ora viene riproposta tutta la sua opera da La nave di Teseo. Prima che il silenzio lo cogliesse negli ultimi anni della sua vita, era stato il vulcanico animatore della vita culturale della sua regione: cronista e critico letterario e teatrale al «Gazzettino», direttore del Teatro Goldoni a Venezia, promotore di premi letterari quale Il Campiello, con la collaborazione degli Industriali Veneti, in una formula che sarà poi mutuata dal Premio Comisso e dal Premio Estense, scopritore e sponsor di giovani talenti, come Elisabetta Sgarbi e Giancarlo Marinelli.

BLA,BL,ABLA

BLA,BL,ABLA

Meno ideologia, più privati. Meno isterismo, più gradualità. Non ascoltate i critici. Il bla bla di Glasgow sul clima è un toccasana per il futuro

Un po’ meno Greta e un po’ più capitalismo. C’è una splendida notizia che arriva dal vertice sul clima di Glasgow. Una notizia che non troverete sulle prime pagine dei giornali ma che costituisce la vera svolta culturale sul tema della lotta contro il riscaldamento globale. La notizia è che il principale successo che arriva dalla Cop26 è l’essere riusciti a spostare il dibattito sul clima verso un binario che dista anni luce da una retorica catastrofista che aveva alimentato un’illusione farlocca: l’idea che fosse possibile occuparsi delle temperature che aumentano mettendo in campo politiche svincolate dalla crescita economica. Roger Pielke Jr., famoso politologo dell’universi – tà del Colorado, anni fa, in un saggio pubblicato sulla Yale Environment 360 e ripreso giovedì dal Financial Times, ha sostenuto con anticipo sui tempi “che le politiche climatiche che richiedono sacrifici pubblici e che limitano la crescita economica sono destinate al fallimento” e ha ricordato che per avere successo le politiche di riduzione delle emissioni devono promettere “benefici reali e devono contribuire a rendere l’energia pulita più economica”. In questo senso, si può dire, anche leggendo le bozze conclusive del vertice di Glasgow, che il successo della Cop26 è aver messo a tema tre punti non banali.

Claudio Cerasa

Primo: i privati, le imprese e i capitalisti non sono nemici ma alleati della transizione ( formidabile il principe Carlo al G20 di Roma, quando ha ricordato che i governi da soli non possono affrontare i problemi legati al cambiamento climatico e che per governare con realismo questo tema occorre affidarsi al settore privato). Secondo: non c’è transizione ecologica possibile senza crescita e, come ha detto Barack Obama, senza “gradualità” ( e a proposito di gradualità, con realismo l’italia ha scelto di non essere tra i paesi firmatari di un accordo presentato a Glaskow per mettere al bando le auto con motore termico entro il 2035: “dobbiamo affrontare la transizione ecologica con un approccio tecnologicamente neutrale”, ha detto giustamente il ministroGiancarlo Giorgetti). Terzo: gli obiettivi di riduzione delle emissioni saranno raggiunti solo a colpi di investimenti nell’innovazione, solo mettendo in concorrenza tra loro le fonti di energia ( neutralità tecnologica, of course), e non a colpi di politiche che puntano a restringere il perimetro dell’economia e a intaccare il benessere dei cittadini ( vedi il caso dei gilet gialli in Francia). Gli ambientalisti integralisti criti – cheranno la Cop 26 perché si riconosce che al traguardo delle emissioni zero si può arrivare passo dopo passo, e non in un momento preciso e prestabilito. Mala verità è che essere passati da una politica utopistica a una più realistica ( impegni a perseguire politiche coerenti, fattibili e realistiche, ognuno con le proprie politiche domestiche) è il segno che i grandi del mondo hanno capito che l’unico modo per parlare di clima è fare un passo al di là della stagione della demagogia.

Roberto Cingolani, ministro transizione ecologica

Nel 2015, ha notato ancora il Financial Times ieri in un articolo di elogio del bla bla bla di Glasgow ( per un ripasso, leggetevi il Carlo Stagnaro degli ultimi giorni), i più importanti paesi del mondo cercarono di arrivare agli accordi di Parigi sul clima portando sul palco degli incontri politici, ministri, scienziati, attivisti. Oggi a Glasgow, sul palco ci sono imprenditori, finanzieri e funzionari monetari. E sono qui non solo perché hanno a cuore forse più di un tempo l’agen – da della lotta contro il climate change. Ma sono qui per ricordare che la transizione deve aiutare gli stakeholder della globalizzazione a trasformare questa fase in una stagione di opportunità. E il fatto che al suo debutto in Borsa, tre giorni fa, un produttore di veicoli elettrici di nome Rivian, che ha alle spalle circa mille vetture prodotte negli ultimi anni e un solido investitore di nome Jeff Bezos, abbia registrato, al suo esordio al Nasdaq, un valore di mercato superiore a Ford, General Motors e Stellantis, è una finestra aperta sul mondo che verrà. Meno isterismo, più gradualità. Meno ideologia, più privati. La transizione del futuro è tutta qui.

Claudio Cerasa, Il Foglio Quotidiano

METAVERSO

METAVERSO

L’uscita di Marck Zuckerberg sul METAVERSO ha fatto discutere molto nel mondo. Si tratta di un progetto mastodontico e futuribile che pochi hanno capito, ma sul quale forse vale la pena dedicare qualche minuto di approfondimento: non si muovono decine e decine di miliardi di dollari solo per scrollarsi di dosso un periodo assai gramo, fitto di critiche e rimproveri piovuti sul fondatore di Facebook e del suo ruolo di monopolista del web e (in un prossimo futuro) della realtà virtuale. Il tema è stato oggetto di informati articoli apparsi su Il Foglio, il Corriere della Sera e sul Sole 24 Ore, che riassumiamo per i lettori di Ninconanco.

Nessuno sa niente del prossimo, mastodontico progetto di Mark Zuckerberg che dovrebbe cambiare la nostra vita. Per adesso non è niente di più di una partita di poker virtuale e immersiva. Però costa dieci miliardi di dollari

Il video con cui il presidente di Facebook, Mark Zuckerberg, ha cercato di spiegare il Metaverso il 28 ottobre scorso ( Lapresse)

Il video con cui la settimana scorsa il ceo di Facebook, Mark Zuckerberg, ha rivelato che la sua società cambierà nome in Meta e annunciato ambiziosi progetti per la costruzione del metaverso ha tutta una serie di pregi. E’ molto ben prodotto e mostra gli sforzi sovrumani di Zuckerberg, che ha presentato tutto l’evento, nel cercare di apparire una persona affabile e non robotica, com’è sempre in tutte le sue apparizioni pubbliche. Contiene anche una certa autoironia, come quando, nel corso delle varie presentazioni di mondi digitali simili a videogiochi, Zuckerberg parla a un robot e dice: “Ma il robot dovevo essere io!” ( anche qui, accenni alla personalità legnosa del fondatore). Soprattutto, il video rappresenta la prima volta in cui il capo della società che più di ogni altra al mondo ha investito e lavorato nella costruzione del metaverso spiega finalmente cosa sarà, questo metaverso. E’ una gran noia.

Un po’ di storia, per chi non ne avesse sentito parlare: la parola “metaverso” fu inventata nel 1992 dallo scrittore americano Neal Stephenson, che nel suo libro “Snow Crash” la usa per identificare un mondo virtuale in cui i suoi protagonisti si ritrovano per sfuggire alla realtà catastrofica del mondo reale. Concetti simili al metaverso di Stephenson sono stati adottati anche da altri autori fantascientifici ( si pensi a “Ready Player One” di Ernest Cline, da cui Steven Spielberg ha tratto un film), e più o meno da sempre il metaverso è un pallino di tanti imprenditori ed esperti di tecnologia. Gli imprenditori come Zuckerberg che vogliono costruire il metaverso parlano di un mondo virtuale – o di una serie di mondi connessi tra loro – a cui si dovrà accedere tramite dispositivi per la realtà virtuale, e in cui le persone potranno incontrarsi, lavorare e fare varie attività. Come nel mondo reale, ma meglio.

Se ne parla da decenni, ma qualche tempo la discussione è diventata più eccitata, e si è cominciato a dire che il metaverso sarà la nuova “big thing”, la nuova rivoluzione della tecnologia mondiale, capace infine di sostituire internet sia come strumento di comunicazione e svago sia come produttore di eccezionali profitti per le aziende che vi operano. Da ormai oltre un anno vari personaggi centrali del mondo tecnologico parlano in maniera sempre più esaltata e piena di aspettative del metaverso, e della montagna di soldi che sperano di farci investendoci sopra: da Mark Zuckerberg a Tim Sweeney, il capo dell’azienda che produce il videogioco Fortnite, ai dirigenti di Google e Microsoft. L’investitore tecnologico Matthew Ball, che l’anno scorso ha pubblicato un paio di lunghi articoli considerati i migliori sul tema, ha scritto che quando tutto sarà pronto il metaverso frutterà migliaia di miliardi di dollari.

Ma quando Ball tenta di spiegare cos’è per davvero, questo metaverso che genererà ricchezze indescrivibili e rivoluzionerà il mondo, le cose si fanno confuse. Ball elenca alcune caratteristiche basilari e dice, per esempio, che il metaverso dovrà essere “persistente”, cioè dovrà rimanere online anche quando l’utente si disconnette e torna nel mondo reale; dovrà essere “in sincrono e dal vivo”, che significa che tutte le persone che vi partecipano dovranno fare esperienza delle stesse cose allo stesso tempo, e non dovrà mettere limiti al numero di persone che vi possono partecipare. Il problema, dice Ball, è che il metaverso è difficile da descrivere e anche da immaginare: non lo si può paragonare a nessuna delle tecnologie attualmente esistenti, e anche sulla terminologia Ball è piuttosto puntiglioso. Consiglia di non definirlo come un “mondo virtuale”, uno “spazio virtuale” o una “realtà virtuale” ( benché l’unico modo per esperire il metaverso sia tramite dispositivi per la realtà virtuale, come occhiali e caschetti), perché il metaverso è qualcosa di più ampio e complesso – cosa, esattamente, è difficile dirlo. Questo perché il metaverso ancora non esiste. E’ un’idea concepita da alcuni scrittori di fantascienza e accarezzata da decenni da imprenditori tecnologici molto entusiasti che da qualche tempo hanno cominciato a parlarne come di una rivoluzione imminente. La rivoluzione, tuttavia, è ancora lontana dal realizzarsi, anche perché, come abbiamo visto, nessuno sa descriverla in maniera concreta. Poi è arrivato Mark Zuckerberg, che per primo, la settimana scorsa, ha presentato un progetto abbastanza concreto, e mostrato cosa dovrebbe essere il metaverso per lui.

Eliminiamo subito alcuni fraintendimenti: Zuckerberg non ha annunciato il cambio di nome della sua società e i suoi progetti per il metaverso per distogliere l’attenzione dai recenti scandali di Facebook dopo la pubblicazione dei cosiddetti “Facebook Papers”. Facebook ha acquisito Oculus, azienda che produce dispositivi per la realtà virtuale, nel 2014, e da allora Zuckerberg ha continuato a investire costantemente nel settore. I progetti sul metaverso non sembrano nemmeno un bluff, a giudicare almeno dai dati ufficiali: come ha scritto il New York Times, Facebook intende spendere soltanto quest’anno 10 miliardi di dollari in investimenti relativi al metaverso, e 10 mila suoi dipendenti stanno già lavorando a progetti legati alla realtà virtuale. E’ probabile, dunque, che Zuckerberg sia davvero convinto che il metaverso sarà la prossima grande rivoluzione tecnologica e che sostituirà internet, e che si stia muovendo con forza per essere tra i primi a controllare questa nuova tecnologia e godere delle sue presunte ed enormi possibilità di guadagno.

La ricerca della prossima tecnologia rivoluzionaria, della “next big thing”, è un tema frequente nell’industria tecnologica, specie quella americana. I grossi imprenditori e investitori americani entrano periodicamente in fibrillazione per ogni nuova tecnologia che promette di cambiare il mondo e aprire mercati nuovi e sterminati: se ne parla per qualche tempo come di una grande rivoluzione, si fanno ambiziosi progetti, si fondano nuove società e poi dopo un po’ si passa alla novità successiva. Soltanto negli ultimi tre- quattro anni, quest’enorme eccitazione del mondo tecnologico americano ha riguardato, a ondate successive, l’intelligenza artificiale, il 5G, le criptovalute, il cloud computing e altro ancora. Queste tecnologie hanno un enorme valore, hanno cambiato e cambieranno interi settori industriali, ma sono ben lontane dall’essere la rivoluzione planetaria descritta dai tecnocrati sovreccitati nei loro momenti di maggiore entusiasmo. Ora l’eccitazione è tutta concentrata sul metaverso, ed è tale che una delle aziende più ricche e potenti del mondo, Facebook, ha deciso di cambiare nome in suo onore, e diventare Meta. Zuckerberg e i suoi colleghi sono convinti che il metaverso sostituirà l’internet, e che quindi il suo impatto sarà enorme e globale: non soltanto cambierà l’industria tecnologica, ma influenzerà radicalmente gli stili di vita di miliardi di persone in tutto il mondo. Secondo Zuckerberg, presto tutto il mondo trascorrerà gran parte delle sue giornate con un caschetto per la realtà virtuale in testa, dentro a una realtà digitale costruita per noi.

Eppure l’eccitazione dei tecnocrati nei confronti del metaverso, sotto molti punti di vista, è meno giustificata di quelle per altre tecnologie. Per avere successo, una tecnologia ( ma un qualsiasi prodotto) deve soddisfare due requisiti minimi: deve funzionare, e quindi essere utilizzabile e fruibile, e deve soddisfare un bisogno reale, o comunque proporre un’esperienza a tal punto nuova o migliore da generare domanda nei consumatori e utenti. Il metaverso, almeno per ora, non soddisfa nessuno dei requisiti.

Partiamo dal “funzionare”. Il metaverso attualmente non esiste perché non esistono ancora le tecnologie per costruirlo, o sono estremamente immature. Lo mostra molto bene il video di Facebook in cui Zuckerberg ha presentato la sua idea di metaverso: tutte le dimostrazioni contenute nel video erano effetti speciali cinematografici. Di solito, quando si presenta un nuovo prodotto o progetto se ne mostra il funzionamento, almeno in parte: quando Steve Jobs presentò il primo iphone, ce l’aveva in mano perché tutti lo potessero vedere. Ma il metaverso è ancora così lontano che per provare a farcelo vedere Zuckerberg ha dovuto recitare davanti a un green screen. Attualmente, è di fatto impossibile costruire mondi digitali con le caratteristiche e il livello di dettaglio immaginati da Zuckerberg. Anche le tecnologie che già esistono sono rudimentali. Per entrare nel metaverso, è necessario utilizzare dispositivi per la realtà virtuale. Ma questi dispositivi, grossi caschetti o occhialoni, sono scomodi, farraginosi e spesso devono rimanere collegati a computer per funzionare. I computer, per altro, devono essere molto più potenti di quelli usati dalla maggior parte delle persone, specie per gestire la grafica dettagliata del metaverso di Zuckerberg. Come ha scritto sull’atlantic Ethan Zuckerman, un noto esperto di informatica, Zuckerberg promette tecnologie che non saranno disponibili ancora per i prossimi cinquedieci anni. Non è improbabile che un giorno avremo mezzi sufficienti, e che i dispositivi per la realtà virtuale evolveranno a tal punto da diventare piccoli come un chicco di riso. Ma mancano ancora molti anni.

Il secondo requisito per il successo del metaverso è che risponda a un bisogno degli utenti, o che li attragga a tal punto da diventare una parte importante delle loro vite. E’ qui che la grande presentazione di Facebook mostra i problemi più gravi, più ancora dell’assenza di tecnologia. La settimana scorsa, Zuckerberg aveva la possibilità di mostrare al mondo l’ampiez – za della sua visione, di renderla evidente con dimostrazioni spettacolari che avrebbero reso chiaro perché il metaverso sarà rivoluzionario. Ecco invece una lista non esaustiva delle cose che secondo Facebook si faranno nel metaverso, e che sono state mostrate da Zuckerberg: fare una partita di scacchi online, fare una partita di poker online, fare una videochat con amici, condividere dei videomessaggi, fare una lezione di yoga a distanza, fare una riunione di lavoro a distanza, lavorare su una scrivania digitale che simula la propria, e che anche nella presentazione sembra eccezionalmente poco efficiente. Questa è tutta roba che si fa già da anni, in alcuni casi da decenni. E certo, con un grosso casco per la realtà virtuale sulla testa tutte queste attività saranno immersive, realistiche e piene di vita, se e quando avremo la tecnologia per renderle tali. Ma davvero il mondo dovrebbe essere esaltato dall’idea di fare una partita di poker online molto immersiva? Ancora Ethan Zuckerman ha scritto sull’atlantic che il gran problema del metaverso proposto da Facebook è che “è noioso. Il futuro che immagina è già stato immaginato migliaia di volte prima, e di solito in maniera migliore”. Wes Fenlon, un giornalista che si occupa di tecnologia, è stato un po’ più brusco e ha scritto che “il metaverso è una stronzata perché nessuno sa davvero spiegare perché sarebbe meglio” della vita reale.

Molti altri critici del metaverso si sono concentrati su questioni ulteriori. Per esempio, alcuni si sono chiesti chi lo controllerà, una volta che sarà costruito. Ma questi sono questioni a cui pensare più avanti. Il problema, adesso, è che non siamo sicuri che il metaverso sia tecnicamente fattibile, e soprattutto non siamo sicuri che serva a qualcosa.

C’è un altro elemento non tecnologico che i critici citano di frequente: nei racconti di fantascienza che Zuckerberg e gli altri hanno usato come ispirazione, il metaverso è sempre inserito in orribili distopie. In “Snow Crash” di Stephenson, il libro che ha introdotto il termine, la società e l’ordine mondiali sono crollati, l’econo – mia è in mano a gruppi mafiosi o a losche corporation, e lo “snow crash” è il nome di una droga. In “Ready Player One”, le persone entrano nel metaverso ( che nel libro si chiama Oasis) per sfuggire a un mondo in cui la maggior parte della popolazione vive in baraccopoli degradate. Sui libri di fantascienza, il mondo virtuale diventa apprezzato e accettabile soltanto quando il mondo reale è diventato insostenibile.

Articolo di Eugenio Cau Il Foglio Quotidiano

METAVERSO: ecco cosa c’è di concreto nei mondi virtuali. Al di là degli annunci di Facebook (ora Meta) e Microsoft qualcosa si può già toccare. Ma ci sono da risolvere i limiti dell’hardware e il rebus di un ecosistema di contenuti plurale (e tutto da costruire).

Ci vorranno cinque anni, 10 miliardi all’anno, 50 milioni solo di sviluppo e almeno 10mila nuovi posti lavoro prima che il metaverso concepito da Mark Zuckerberg sia usato da milioni o miliardi di persone. Nell’attesa è già possibile accedere a pillole, piccoli frammenti su cui già stanno lavorando e che andranno forse ad animare la visione un po’ antica alla Ready Player One che il fondatore di Facebook ha voluto comunicare per generare interesse nel mercato degli sviluppatori. Diciamo subito che se vi aspettate i Fantasmi della forza di Guerre Stellari che si sono visti nei video di presentazione di Meta rimarrete delusi. Di concreto nel disegno virtuale di Meta c’è la piattaforma per la realtà virtuale di Oculus acquisita nel 2014 per due miliardi di dollari. In sette anni gli ingegneri hanno lavorato di innovazione incrementale sul visore, adattando i contenuti ai limiti hardware della tecnologia. L’ultimo nato uscito nell’ottobre dell’anno scorso si chiama Oculus Quest 2: è un “all in one“ (non necessita di altro hardware e può essere utilizzato senza un computer o altro dispositivo che lo comandi) e senza dubbio è il miglior visore di realtà virtuale che potete trovare a un prezzo non proibitivo (349 euro per il caschetto e due controller). È più leggero, più stabile e l’immagine è finalmente più nitida. La latenza è uno dei maggiori problemi che causano la motion sickness (o chinetosi) quel senso di nausea che ha sempre minato l’introduzione di questa tecnologia. Per ridurla i caschetti devono avere una frequenza di aggiornamento almeno di 90 Hz (Quest 2 supporta i 120Hz). Il problema sono i contenuti non sempre all’altezza. Vuole dire avere tempi lunghi, permettere al giocatore di prendere confidenza con i controlli, per esempio, se l’ambiente virtuale si muove in modo diverso da ciò che il cervello si aspetta, ci sarà un conflitto fra quelle che sono le aspettative e ciò che l’occhio vede effettivamente. Nel tempo Oculus e chi progetta esperienze in 3D sono riuscita a ridurre i malesseri da chinetosi ma non li hanno eliminati del tutto

E comunque parliamo di mascheroni lontani dagli occhiali alla moda mostrati nel video di Metaverso. Mentre l’app store di Oculus che è ad oggi la metafora interpretativa per intuire quello che ha in mente Zuck è già popolata di giochi, video a 360 gradi ed esperienze più o meno interattive come l’esplorazione di luoghi d’arte e gli spettacoli. In ambito aziendale invece la Vr trova applicazioni in alcuni settore come la manutenzione, formazione e comunicazione.

A partire dal 2022 Oculus Quest 2 si chiamerà Meta Quest e conterrà le Meta App. Detto altrimenti, il brand Oculus sparirà. L’applicativo che forse è più interessante è Horizon Workrooms, lanciato in agosto, che vuole essere una nuova piattaforma per fare smart working in VR. Non sarà un servizio di videoconferenza con gli avatar ma vuole essere un nuovo modo di lavorare nel quale si potranno condividere file e progetti, replicare desktop. La gestione dello spazio con i controller e quindi l’interfaccia è forse l’aspetto più critico del progetto insieme a quello legato alla produzione di contenuti da parte dei concorrenti o di sviluppatori indipendenti.

Meno immaginifica, più concreta nelle applicazione ma non meno complicata è invece la sfida di Project Aria: niente visore chiusi su mondi sintetici ma occhiali “normali” capace di inviare e ricevere informazioni dal web, registrare video, scattare foto e accedere a ologrammi e artefatti digitali. Di concreto Facebook ha lanciato i Ray-ban Stories con Essilor Luxottica che si limitano però all’aspetto social (video e foto). Esistono però altre esperienze di smart glass. La più convincente è la piattaforma Windows Mixed Reality (prima chiamata Windows Holographic). A Ignite 2021 Satya Nadella ha rilanciato il suo metaverso per le aziende che sembra meno ambizioso ma più realistico. Ma nonostante i numerosi smart glasses in circolazione manca un ecosistema di riferimento di applicazioni. Facebook ha lanciato la sua candidatura. Per ora di concreto c’è solo quello.

Articolo di Luca Tremolada, il Sole 24 Ore

Il mondo parallelo di Zuckerberg: alla conquista dello spazio virtuale. L’annuncio del nuovo Metaverse e la crisi del vecchio Facebook: l’universo-oltre del social network potrebbe cambiare la nostra vita?

Mark Zuckerberg aveva vent’anni quando nel pensionato universitario di Harvard immaginò il social network. Era il 2004, non esistevano ancora gli smartphone. Pochi lo presero sul serio.

Tre miliardi di utenti dopo, Zuckerberg ha una nuova visione. Cambia nome a Facebook che diventa Meta (dal greco «oltre»), sdoppia la sua creatura, e punta a dominare il mondo del futuro: la realtà virtuale. «Metaverse» è l’universo-oltre. Ce lo descrive come «un luogo dove giocare, comprare beni virtuali, collezionare arte virtuale, trascorrere il tempo libero con i sosia virtuali (avatar) degli altri, e partecipare a riunioni di lavoro sempre virtuali». L’annuncio coincide con una grave crisi d’immagine di Facebook, bombardata di accuse per non aver vigilato abbastanza contro fake news, ideologie violente, aggressioni e odio che dilagano sul social media. Nelle rivelazioni che intitola Facebook Files, il Wall Street Journal riferisce anche di uno studio interno all’azienda secondo cui «un utente su otto fa un uso compulsivo del social media con effetti sul sonno, il lavoro, i rapporti con i figli o le relazioni sociali». Sui media americani un coro di scettici ha liquidato la metamorfosi come un trucco per distogliere l’attenzione dalle polemiche. Però sulla realtà virtuale il 37enne miliardario più famoso del pianeta aveva già messo al lavoro da tempo diecimila ingegneri. Ora ne assumerà altrettanti (gran parte in Europa), e investirà dieci miliardi di dollari. Facebook stava già conducendo una campagna acquisti in questo settore, assicurandosi il controllo di molte startup innovative. Una occupazione del territorio, in vista della prossima rivoluzione digitale? «Realtà virtuale»: immaginarne l’espansione evoca una distopia post Covid, un mondo asettico che cancella ogni contatto fisico. O magari una utopia ambientalista che elimini ogni mobilità fisica per azzerare le emissioni carboniche. In alcuni scenari estremi affiora la pulsione verso qualche forma di immortalità: trasferendo caratteri e funzioni ai nostri avatar, riusciremo a custodire in queste creature virtuali ciò che il deperimento fisico distrugge? La fantascienza gioca con queste visioni da decenni.

Di fatto la tecnologia che crea un ambiente virtuale è già onnipresente. Un avatar (termine preso in prestito dall’incarnazione delle divinità induiste), è la rappresentazione grafica di noi stessi, proiettata nel mondo digitale. Architetti e costruttori fanno ampio ricorso a un mondo virtuale per progettare edifici. I militari combattono guerre simulate, wargame. Le applicazioni della realtà virtuale alla cura dell’Alzheimer sono in corso da anni. Il cinema sostituisce comparse e figuranti con dei sosia grafici (costano meno) e il film ibrido «Avatar» (regia di James Cameron, 2009) appartiene alla preistoria di questo genere. Las Vegas ha inaugurato i concerti «live» di Whitney Houston, in scena si esibisce l’ologramma tridimensionale della cantante morta nove anni fa. Per gli appassionati di videogame incarnarsi nella propria identità digitale è parte del gioco. Il boom delle criptovalute che non hanno incarnazione materiale, asseconda lo sviluppo di un universo parallelo a quello fisico.

La banalizzazione della realtà virtuale è a portata di mano nel commercio: per acquistare abbigliamento e calzature online, faremo provare i prodotti al nostro avatar, che ha le nostre misure fisiche. In America i consumatori Millennial hanno imparato a decidere l’acquisto di un mobile, un arredo, una cucina, simulandone il montaggio dentro la copia virtuale della propria abitazione. Una ricerca compiuta in Germania elenca settori pronti ad essere trasformati dalla realtà virtuale: commercio, manifattura (in particolare l’industria dell’auto), servizi informatici, spettacoli, istruzione. A scuola si può immaginare un corso di storia in cui i ragazzi manovrano i loro sosia digitali in una replica dell’antica Roma; imparano la geografia grazie ai loro avatar che viaggiano virtualmente. Per adesso vediamo frammenti sparsi di quello che potrà diventare un meta-universo onnicomprensivo. Zuckerberg vuole comporre il mosaico intero, e padroneggiarne gli accessi.

Quando Zuckerberg esalta il Nuovo Mondo dove potremo lavorare, fare acquisti, giocare come in quello reale», sorvola sui rischi. La sua Meta incontrerà gli stessi problemi di Facebook. Come tutelare la privacy e la sicurezza dei dati. Se la realtà virtuale diventa un luogo di fuga, un videogame moltiplicato all’infinito, fino a risucchiare buona parte delle nostre vite, altri pericoli balzeranno in primo piano: come i danni alla salute mentale.

Il fondatore di Facebook si concentra sulle opportunità. Nella costruzione di questo nuovo ecosistema, di questo Internet parallelo, può venderci già una parte dell’hardware, strumenti ottici come l’headset Oculus per farci trasportare nella realtà virtuale. Sotto la denominazione Meta potrebbero nascere presto negozi fisici che venderanno apparecchi ottici elaborati dalla divisione Reality Labs, per assuefarci a frequentare l’universo «oltre». Zuckerberg assegna a Meta una missione strategica: fermare l’esodo dei giovani, problema esistenziale che affligge Facebook. Proiettato verso il successo iniziale da adolescenti e ventenni, oggi il social media vive su un pubblico sempre più maturo mentre le nuove generazioni migrano verso TikTok, Snapchat. Un’altra chiave di lettura dietro la nascita di Meta è tecnologica. Oggi il social media dipende da piattaforme digitali concorrenti, cioè Apple per gli iPhone e il software Android per tutto l’ecosistema Google. Si è visto il prezzo di questa dipendenza: quando Apple ha cambiato le regole sulla privacy, ha limitato la capacità di Facebook di raccogliere dati sugli utenti. Invitandoci dentro la realtà virtuale, Zuckerberg ci sposta nell’universo di cui vuole controllare standard tecnici e coordinate. Il suo business principale resta la pubblicità (98% del fatturato) e la realtà virtuale è un nuovo spazio per la vendita. Né si può escludere una mossa difensiva verso l’antitrust. La sinistra democratica è favorevole a uno smembramento dei colossi digitali. Zuckerberg ha già sdoppiato il suo.

La critica prevalente liquida Meta come una fuga in avanti dettata dalla strategia di relazioni pubbliche. Frances Haugen, ex manager del social media, è la fonte di una valanga di rivelazioni. Al centro c’è la débâcle di Zuckerberg nella prevenzione di false notizie e aggressioni. I sistemi di intelligenza artificiale usati a questo fine hanno funzionato poco e male. Facebook ha investito col contagocce in questo campo, la manodopera umana che ha adibito a vigilanza e censura sui contenuti è insufficiente. «Ha dato la priorità ai profitti rispetto alla sicurezza delle persone e del Paese», è l’accusa risuonata nelle audizioni al Congresso. Ma uno studioso di social media, Nicholas Carr, prende le distanze dall’ossessione sul loro ruolo nella lacerazione della società: è illusorio attribuirgli il compito di disciplinare il discorso pubblico, quando l’America ha perso il senso del bene comune. Un altro autore che analizza la polarizzazione culturale, David French, ricorda che gli americani non ebbero bisogno dei social per massacrarsi fra loro durante la guerra civile o per spaccarsi nelle contese valoriali degli anni Sessanta. In quanto al sogno di traghettarci dentro un meta-universo virtuale, l’esperta di tecnologie del New York Times, Shira Ovide, invita a non sottovalutarlo: «Nell’indovinare il futuro, Zuckerberg ha già avuto ragione una volta».

Articolo di Federico Rampini per il Corriere della Sera

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