BANANE IN PARADISO

8 Feb 2018 | 0 commenti

LUCIGNOLO SPIEGA CON SEMPLICI ESEMPI COME LE MULTINAZIONALI EVADONO IL FISCO E PERCHE’ POCHI FANNO I SOLDI MENTRE I POVERI AUMENTANO. 

L’esempio di scuola è quello delle banane.

Che giro fanno le banane?

Vengono raccolte in un paese, mettiamo centroamericano, vengono caricate su una nave ed arrivano in Europa o Nord America dove vengono vendute al supermercato. Tassare questa attività dovrebbe essere semplice: una parte di utile si dovrebbe generare nel paese di raccolta, e la restante nel paese di vendita.

Purtroppo le cose non sono così scontate. A questo percorso fisico se ne sovrappone un altro, giuridico e contabile.

La società A del paese centroamericano che ha curato la raccolta vende le banane al prezzo di costo 1, quindi senza generare utili, alla società B situata in un paradiso fiscale. La società B vende le banane a 10 (ricavando un utile di 9) alla società europea o nordamericana C, che le rivende a 10 ai supermercati, quindi nuovamente al prezzo di costo senza generare utili. Gli utili sono tutti in capo alla società B, che però trovandosi in un paradiso fiscale non è tassata per nulla.

È così che dove si produce e si vende non si pagano tasse e gli utili rimangono tutti tranquillamente parcheggiati in un paradiso fiscale.

Ovviamente tutte e tre le società A, B e C sono controllate dalla stessa multinazionale X, che intasca tutto al netto.

 Ci sono diverse e più sofisticate varianti al meccanismo sopradescritto.

Mettiamo che le società A e C facciano un piccolo utile. Possono però prendere in prestito (per le ragioni più varie) una somma dalla società B, situata in un paradiso fiscale. Su tale somma presa in prestito pagheranno gli interessi che abbatteranno l’utile, mentre gli interessi incassati dalla società B situata nel paradiso fiscale saranno esentasse.

Ecco un altro meccanismo con cui una multinazionale può legalmente trasferire gli utili tra le proprie controllate in modo da abbattere le tasse.

 Immaginiamo poi che la nostra multinazionale, invece di commerciare banane, produca smartphones in Asia, producendo in Cina e comprando componenti a Taiwan, in Corea, Giappone, Vietnam, Indonesia, Malesia, Europa, Usa etc, e venda poi in tutto il mondo. In questo caso è facile immaginare quanti percorsi contabili possano fare i prodotti e quanto possa essere ancora più multiforme l’abbattimento degli utili.

 Quella sopra descritta è una delle ragioni per cui le multinazionali sono più competitive delle altre imprese e diventano sempre più grandi. Possono fare arbitraggi fiscali in tutto il mondo. Il signor Brambilla certo non potrebbe mai permettersi i meccanismi sopra descritti.

 Tutto ciò, in termini economici, è profondamente inefficiente.

Nessuno ha prodotto né banane né smartphones migliori, ma semplicemente c’è stato un trasferimento di ricchezza.

Si distolgono tempo e risorse all’innovazione per concentrarle sull’elusione fiscale, generando un insieme di servizi parassitari (avvocati, commercialisti, fiscalisti) e trasferendo risorse dal basso verso l’alto, a favore dei ben inseriti e a danno dei più poveri.

Inutile dire che poi quando le cose vanno male, se gli utili erano rimasti privati, le perdite purtroppo vengono quasi sempre pubblicizzate, soprattutto nel caso di imprese troppo grandi per fallire.

 Altro effetto perverso dei paradisi è quello di innescare una competizione tra sistemi fiscali che, per evitare i fenomeni elusivi sopra descritti, cambiano continuamente, diventando più complessi. Ciò fa sì che i singoli cittadini siano sempre più  soffocati dagli adempimenti, mentre solo chi ha grandi mezzi ha la possibilità di permettersi professionisti e servizi che consentano di sfuggire all’accertamento.

Una delle poche buone ragioni dell’ultima riforma fiscale dell’amministrazione Trump è quella di evitare l’elusione ed agevolare il rimpatrio degli utili delle multinazionali americane. A titolo di esempio si stima che la sola Apple detenga, parcheggiati in giurisdizioni compiacenti, circa 250 miliardi di dollari.

  

Nel mondo esistono circa quattro grandi gruppi di paradisi fiscali.

Il presidente della Commissione europea Juncker. Il suo paese, il Lussemburgo, è stato criticato perchè offre condizioni assai vantaggiose ai detentori di capitale

Il primo è quello dei paradisi europei: Monaco, Lussemburgo, Svizzera etc….. che presero slancio durante la prima guerra mondiale quando i paesi inasprirono la tassazione per finanziare lo sforzo bellico.

Il secondo, e più importante, è quello che gravita sull’ex impero britannico: sui territori della corona (Jersey, Man etc), come sui territori d’oltremare (Isole Cayman, Bermuda, Gibilterra etc) e sulle ex colonie a vario titolo (Hong Kong, Singapore etc). Questo gruppo lavora circa un terzo degli attivi bancari mondiali, che una volta ripuliti convergono su Londra assicurandole il ruolo di capitale finanziaria mondiale. Nelle isole Cayman hanno sede decine di migliaia di società ed i tre quarti degli hedge fund di tutto il mondo.

Il terzo gruppo (secondo per importanza) è quello che ruota attorno agli Usa, incentrato sulle agevolazioni sia federali che dei singoli stati americani e sui territori esteri (Isole Marshall, Isole Vergini etc)

Il quarto gruppo è composto da paesi eterogenei (Uruguay, Liberia etc) che però non hanno avuto altrettanto successo. D’altra parte chi evade (o elude) si sente più a suo agio nell’ambito della common law anglosassone piuttosto che in un paese africano e del terzo mondo…..

 Come si vede, ed in modo del tutto inaspettato, i paradisi fiscali non ruotano intorno a paesi dittatoriali o illiberali, ma vivono in simbiosi con le democrazie occidentali liberali.

Dubai (Emirati arabi uniti) ripresa durante la festa di Capodanno 2017 in cui un grattacielo si è incendiato

Democrazie occidentali che dal canto loro si sono pur evolute: nell’ottocento convertivano l’India alle monocolture e ne esportavano l’oppio in Cina (spianando le rotte a cannonate) attraverso Hong Kong, oppure in virtù del “destino manifesto” occupavano California, Nevada, Texas etc o annettevano Porto Rico,  Filippine Hawaii etc. Ora che invece esportano la democrazia ed i diritti dell’uomo a buon titolo possono importare un po’ di capitali (ovviamente ripuliti sugli zerbini dei vari ingressi della casa padronale).

 

Tanto detto, chi scrive è restio ad unirsi al piagnisteo pauperistico secondo cui se non ci fosse l’evasione fiscale ci sarebbero più servizi per tutti.

Vista l’esperienza del nostro Paese dei Balocchi (qui), chi scrive è portato a credere che almeno in Italia (ma tutto il mondo è paese) al doppio delle imposte pagate non sarebbe corrisposto il doppio dei servizi, ma piuttosto il triplo degli sprechi (cattedrali nel deserto, politiche economiche, sociali, industriali e chi più ne ha più ne metta) .

Questo con l’aggravante che chi evade, bene o male, produce quello che evade, mentre il ceto politico che spreca non produce proprio nulla, piuttosto distrugge ed impedisce di produrre.

Ciò che invece offende chi scrive è che l’evasione internazionale delle imprese realizzi un gigantesco trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto, dai poveri ai ricchi, il che è esattamente il contrario di quanto sarebbe auspicabile sia socialmente che dal punto di vista dell’efficienza economica.

Sarebbe ottimale, infatti, che quanto prodotto rimanesse il più possibile in tasca a chi l’ha prodotto, soprattutto ed assolutamente alla base della piramide sociale.

 

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