Il jingle di Gilberto, il mitico Govi (1885-1966), personaggio che nei modi e nell’aspetto pareva nato nella Londra vittoriana, mentre era il più genovese a Genova, fu popolare con quanto lo sono stati poi Gino Paoli e De André. Pe majâ na figgia, il suo capolavoro esemplare. Oggi certo ripeterebbe il «Che tempi! Che tempi!» a proposito del Trump «faso tuto mí». Tra palesi conflitti di interesse, vendicativo con chi ha cercato di fermarlo, da magistrati ad agenti dei servizi, mettendo in libertà i tamarri di Capitol Hill. Lo scrittore Sandro Veronesi, dialogando con Corrado Augias (La Torre di Babele, gran successo de La 7 di Urbano Cairo) con un guizzo d’ingegno ha paragonato l’America di oggi a Gotham City: senza Batman, ma con Donald nella veste di Pinguin mentre Musk ride quanto Joker, sempre a più non posso. Succede una tragedia, come l’elicottero militare fuori rotta che sperona un aereo di linea in fase di atteraggio? Colpa del solito Biden, che avrebbe ammesso lavoratori disabili nella torre di controllo. «Segnato da Dio, un passo indrio», era il proverbio veneto spesso in bocca a Eugenio Cefis: ditelo a Paola Severini Melograni che da sempre si batte per inclusione sociale, disabilità e diritti fondamentali.


I tiranni hanno molto spesso studiato allo specchio la faccia da ostentare in pubblico. Mussolini, al balcone di piazza Venezia, vantava la mascella volitiva e, come si diceva a Milano, «el faseva i oeucc». Hitler ostentava il culto della personalità, baffetto e capelli neri. Solo lui, rispetto ai biondi teutonici, la manina al saluto piegata all’indietro.
Rasputin con la barbaccia nera, paura paura, uguale a quella del più grande assassino della storia, Leopoldo II del Belgio (1835-1909), nel Congo, sua proprietà privata, che alla fine cedette al suo Paese e fu Congo Belga. Dopo aver trucidato dieci milioni di “nigger” e mutilato un’infinità di ragazzini per non aver raggiunto il quantitativo giornaliero di liquido della gomma, tagliando loro una mano, un braccio o un piede. Tante fotografie ce li mostrano. Battendo la Shoah nazista che macellò 6 milioni di ebrei. E ancora, Bin Laden con la barba a cespuglio e Stalin con i “baffoni”. Che bisogno ha Trump di far sempre ‘a faccia ‘e’ tigre, «e chi non s’adda tuccá», come si dice a Napoli: «Fa ‘o viso scuro. Miette ‘a faccia ‘e chi non s’adda fa scanzà». Di quelli che non vogliono passare per omonicchi, mezz’uomini quaquaraquà.
E poi ci sarebbe Bokassa (1921-1996), megalomania al potere, imperatore del Centrafrica, il cui nome in lingua locale è “figlio del macellaio”. Il matto vero fu lui. De Gaulle lo schivava perché “soudard” o “couillon”, mentre lui lo chiamava “papà” e il Generale s’infuriava. Quando gli disse, in pubblico, di non chiamarlo più così, Bokassa gli rispose: «D’accord, père». Mentre il successore Pompidou lo chiamava “frère” e Giscar d’Estaing “cousin”.
Ma il dramma fu lo scoppio del Diamant Gate, che gli troncò la carriera. Colpa de «Le Canard enchaîné», un regalo di diamanti ricevuto da Bokassa che gli fece perdere le elezioni, vinte così da Mitterrand. Vera o non vera che fosse l’accusa, anche se allora non erano di moda le fake.

Trump non ha bisogno di simili bassezze, gli basta lanciare una criptovaluta ed è subito il Bengodi, della Terza novella della Ottava giornata del Decamerone di Boccaccio, con Calandrino e l’elitropia (1351). Da rivedere l’omonimo film di Pasolini (1971),
ne vale proprio la pena.
Mefisto per domenicale 24 ore