DO CIACOLE CON CACCIARI– L’ESASPERATO CONSERVATORISMO DELLA SINISTRA NEI RICORDI DEL FILOSOFO VENEZIANO- LA RIFORMA CREA DANNI ED E’ AUTORITARIA? BALLE! PER 40 ANNI ABBIAMO TENTATO DI CAMBIARE LA COSTITUZIONE E NON CI SIAMO RIUSCITI. LA STRADA DELLA GRANDE RIFORMA E’ COME UN CIMITERO COSTELLATO DAI NOSTRI FALLIMENTI-AL REFERENDUM VOTO SI’ PER RESPONSABILITA’.
Professor Cacciari, lei è una coscienza inquieta della sinistra italiana che ha visto anche all’opera da vicino, quando è stato parlamentare. Si aspettava questa battaglia all’ultimo sangue sul referendum?
«Devo essere sincero? C’erano tutti i segnali. Abbiamo provato a riformare le istituzioni per quarant’anni, e non ci siamo riusciti. La strada della grande riforma sembra un cimitero pieno di croci, i nostri fallimenti. Adesso Renzi forza, e vuole passare. Chi ha fallito si ribella».
Fuori i nomi, professore: chi ha fallito?
«Noi, la mia generazione, a destra come a sinistra. Sia i politici che noi intellettuali. Ci sono anch’io, infatti, insieme con Marramao, Barbera, Barcellona, Bolaffi, Flores, si ricorda? E dall’altra parte, a destra, il professor Miglio alla Cattolica, le idee di Urbani.
Eravamo nella fase finale degli anni di piombo, la democrazia faticava. Ragionavamo sulla necessità e sulla possibilità di riformare una Costituzione senza scettro, come dicevamo allora, perché necessariamente era nata con la paura del tiranno. Di fronte alla crisi sociale di quegli anni, pensavamo fosse venuto il momento di rafforzare le capacità di decisione del sistema democratico ».
Di cosa avevate timore?
«Si parlava molto del fantasma di Weimar. Ragionavamo su basi storiche, scientifiche, costituzionali. La crisi ci faceva capire come una Costituzione che ostacola un meccanismo di governo forte e sicuro sia debole, perché quando la politica e le istituzioni sono incerte decidono altri, da fuori».
Oggi diremmo la finanziarizzazione, la globalizzazione?
«Certo. Ma non dobbiamo pensare solo alle lobby e all’economia finanziaria o ai grandi monopoli, bensì anche alle tecnocrazie create democraticamente, come le strutture dell’Unione europea, che rischiano in certi momenti di soverchiare la politica».
Come mai quell’idea non ha funzionato?
«Per un ritardo culturale complessivo del sistema, evidentemente. Ma devo dire in particolare per il conservatorismo esasperato del Pci e del suo gruppo dirigente, che parlavano di riforme di struttura per il mondo economico-industriale, ma sulle istituzioni erano bloccati.
Dibattiti tanti, convegni dell’istituto Gramsci, qualche apertura di interesse da Ingrao e Napolitano. Ma niente, rispetto alla nostra discussione sul potere e la democrazia».
Per la paura comunista, dall’opposizione, di rafforzare l’esecutivo?
«Un riflesso automatico. Ma vede, noi non parlavamo solo di rafforzare l’esecutivo, è una semplificazione banale. Il potere non è una torta di cui chi vince prende la fetta più grande e chi perde la più piccola, la somma non è zero. Noi volevamo rafforzare tutti i soggetti del sistema democratico.
Più potere al governo, dunque, ma con un vero impianto federalista che articola il meccanismo decisionale, e un autentico Senato della Regioni con i rappresentanti più autorevoli eletti direttamente, e non scelti tra i gruppi dirigenti più sputtanati d’Italia, come oggi».
Ma un governo più forte significa un parlamento più debole?
«Non se lo dotiamo di strumenti di controllo e d’inchiesta all’americana, e se è capace di agire autonomamente, senza succhiare le notizie dai giornalisti o dai giudici: un’autorità quasi da tribunato».
Quindi un nuovo bilanciamento, tra poteri tutti più forti? E’ questa la riforma che vorrebbe?
«Un potere rafforzato e ben suddiviso. Il potere non si indebolisce se è articolato razionalmente e democraticamente tra i soggetti giusti. E’ quando si concentra in poche mani e si irrigidisce che diventa debole».
Non è quello che denuncia Zagrebelsky?
«E’ quello che capisce chiunque, salvo chi è digiuno culturalmente. Il potere per funzionare deve essere efficace ma anche articolato come ogni organizzazione moderna. Chi può pensare in questo millennio che si ha più potere se lo si riassume in un pugno di uomini invece di regolarlo con una diffusione partecipata e democratica? ».
E’ esattamente l’accusa che viene rivolta dal fronte del “no” alla riforma del Senato, non le pare?
«Esattamente proprio no. Manca l’autocritica che sta dietro tutto il mio discorso: la presa d’atto che non siamo mai riusciti a riformare il sistema, pur sapendo che ce n’era bisogno. Diciamola tutta: la nostra idea di rispondere al bisogno di modernizzazione dell’Italia riformando le istituzioni ha contato in questi quarant’anni come il due di coppe quando si va a bastoni. Bisognerà pur prendere atto di questo, e trarne le conseguenze politiche».
Quali?
«Non abbiamo la faccia per dire no a una riforma dopo aver buttato via tutte le occasioni di questi quattro decenni. Non siamo riusciti a costruire nulla di positivo dal punto di vista della modernizzazione del sistema: niente di niente».
E dunque per questo – mi ci metto anch’io – dovremmo stare zitti?
«Dovremmo misurare i concetti, le parole, le proporzioni tra ciò che accade e come lo rappresentiamo. La riforma crea danni ed è autoritaria? Balle: è vero che punta sulla concentrazione del potere, ma la realtà è che si tratta di una riforma modesta e maldestra.
La montagna ha partorito un brutto topolino. Erano meglio persino quei progetti delle varie Bicamerali guidate da Bozzi, De Mita e D’Alema, più organici e articolati, anche se centralisti e nient’affatto federalisti .
Ma la critica sulla concentrazione oligarchica del potere è la stessa di Zagrebelsky, no?
«Certo ma, ripeto, non condivido certi toni da golpe in arrivo, che non sono di Zagrebelsky. Il vero problema, secondo me, non è una riforma concepita male e scritta peggio, ma la legge elettorale.
Qui sì che si punta a dare tutti i poteri al Capo. Anzi, le faccio una facile previsione: se si cambiasse la legge elettorale, correggendola, tutto filerebbe liscio, si abbasserebbe il clamore e la riforma passerebbe tranquillamente ».
Lo chiede la minoranza Pd, lo propone Scalfari, ma Renzi finora ha risposto di no: dunque?
«La posta è stata alzata troppo, da una parte e dall’altra, anche se in verità ha cominciato Renzi, personalizzando il referendum e legandolo alla sua sorte. Un errore capitale. Penso che lo abbia capito ma ormai non possiamo far finta di non vedere che la partita si è spostata, e si gioca tutta su di lui, da una parte e dall’altra: se mandarlo a casa oppure no. Ci siamo chiesti cosa succede dopo? ».
Anche lei prigioniero del “non c’è alternativa”?
«No, io so cosa c’è, è evidente. Renzi va da Mattarella, chiede le elezioni anticipate e le ottiene. Poi resetta il partito purgandolo e lancia una campagna all’insegna del sì o no al cambiamento, con quello che potremmo chiamare un populismo di governo. Votiamo col proporzionale, con questo Senato, e non otteniamo nulla, se non una lacerazione ancora più forte del campo: è davvero quello che vogliamo? ».
Ma non le sembra che così lei si stia autoricattando?
«Perché quante volte lei e tante persone di sinistra non hanno fatto la stessa cosa in questi anni? Vuole fingere che non abbiamo votato spesso turandoci il naso? C’è una teoria della cosa, si chiama il “male minore”. D’altra parte stiamo parlando della povera politica italiana, non di Aristotele».
E se si trovasse in emergenza una maggioranza per una diversa legge elettorale?
«Illusioni. Se mai, non escludo il contrario. E cioè che Renzi come extrema ratio punti lui a una rottura verticale per ottenere il voto anticipato. E in ogni caso, pensiamo all’effetto che avrebbe sull’opinione pubblica un nuovo fallimento, dopo i tanti che noi abbiamo collezionato. Significherebbe certificare che in Italia il sistema non è riformabile, per due ragioni opposte unite nel “no”: chi vede un pericolo autoritario, chi solo dei dilettanti allo sbaraglio».
Sta dicendo che rifiuta il “no”?
«Come ho cercato di spiegare capisco molte delle ragioni del fronte del “no”, non il tono e l’impianto generale. Dopo aver detto tutto quel che penso della riforma, considero che realizza per vie traverse e balzane alcuni cambiamenti che volevamo da anni».
Dunque?
«Voterò sì, per uno spirito di responsabilità nei confronti del sistema. Penso che si possa essere apertamente critici e sentire questa responsabilità repubblicana ».
Lei è stato tre volte sindaco di una città come Venezia. Pensa che il voto amministrativo potrà modificare il quadro o i rapporti di forza?
«E’ inutile girarci intorno, è Milano che decide l’intera partita. Se il Pd perde a Milano, il centrodestra capisce come deve muoversi, ricostruisce un campo, prova a sfondare sul referendum sfruttando la ferita aperta di Renzi».
E a sinistra?
«Nessun segno di vita pervenuto, dunque poche speranze».
Professore, non rischiamo così di incoraggiare un cinismo distruttivo che la sinistra già produce in abbondanza? E proprio mentre una nuova destra al quadrato bussa ai confini con l’Austria e con tutta l’Europa di mezzo?
«Di più. Stiamo coltivando una cultura della sconfitta, guardi com’è ridotta la socialdemocrazia che poco tempo fa governava l’Europa. Oggi è schiacciata da derive di sinistra, come Tsipras, e di destra magari anche al cubo, come Hofer ».
E’ colpa della crisi o della lettura che la sinistra fa della crisi?
«E’ colpa della sua incertezza identitaria. Anche in politica l’identità è tutto, non ci sono solo gli interessi, sia pure legittimi. La sinistra perde perché è identificata col sistema vigente, anzi con la sua élite, a cui viene imputata la crisi. Ma così perde la sua ragione di stare al mondo che è ancora e sempre una sola: cercare di cambiare lo stato di cose esistente».
Intervista a cura di Ezio Mauro per La Repubblica