ETICA WESTERN

12 Gen 2017 | 0 commenti

 

Noi baby boomers (i nati fra il 1945 e il 1964, anni del boom demografico in America, ndr) – prima di essere rivoluzionari sessuali, sessantottini confusi, simpatizzanti/militanti, opportunisti integrati, socialisti corrotti, radical chic/disoccupati cronici e infine parassiti in pensione – agli inizi, ma veramente agli inizi, eravamo western. Voglio dire che noi baby boomers – prima di essere cattolici, o meglio, in concomitanza con l’andare in parrocchia per giocare a calcio, ping pong e a respirare una gran quantità di polvere e religioso senso di colpa – eravamo cowboy interiori. O meglio lo stavamo diventando a furia di vedere film western americani. Di serie A e soprattutto B.

Essendo quelli di serie B, se ricordo bene, girati anch’essi quasi sempre a colori, ma in formato normale, con attori non proprio di primo piano – come il faccia-buona Randolph Scott, che ne fece una sessantina, fino a Sfida nell’alta sierra di Sam Peckinpah – e trame molto tipologiche con duelli tra le rocce e assalti alla diligenza.

Mentre il western di serie A era in Cinemascope (qualche volta in Todd-AO) ed era attento ai grandi spazi, aveva cast magnifici e sovente molti indiani, quello di serie B era seriale e girato in economia. Quasi completamente privo di indiani e di ampio paesaggio, iniziava con un uomo a cavallo nella prateria, ripreso di fronte mentre arrivava in città, e di solito terminava con lo stesso uomo a cavallo ripreso di spalle mentre se ne andava. Tra queste due sequenze c’erano un villaggio di frontiera, allevatori, pistoleri, saloon, banditi, donne solo apparentemente di costumi facili, sceriffi e varie vicende, in cui gli stessi elementi narrativi e le stesse figure tipologiche venivano ricombinate fino allo sfinimento.

La costante che accomunava questi film era l’assenza della Legge. Credo che non esista film western dove non venga pronunciata almeno una volta la parola Legge. Perché è lì, in quell’assenza, che risiede tutta la specificità problematica delle storie dell’Ovest, una specificità che ancora, neanche tanto debolmente, si riverbera nell’oggi americano con il blocco repubblicano degli stati centrali, che si rifiuta di concedere completamente allo stato il monopolio della forza.

L’assenza o l’estrema debolezza di un entità istituzionale dotata di monopolio della forza, capace di emanare leggi e di amministrare equamente giustizia, riporta nel cinema western ogni conflitto umano a una fase anteriore la polis, in cui alla rigida regola del dente per dente sembra affiancarsi il bisogno di darsi uno stile morale, cioè un codice di comportamento individuale fatto innanzi tutto di coraggio, ma anche di lealtà, generosità, senso dell’amicizia, sensibilità verso ciò che è giusto fare/non-fare, oltre al disincanto e all’estetica del gesto gratuito. In questo quadro la figura dello sceriffo, e ancora più quella del marshall, cioè dell’uomo nominato e pagato per farsi carico della funzione di contrasto e repressione della violenza individuale, assumono notevole rilevanza narrativa. Uno sceriffo era quasi sempre al centro dei filmacci che ci godevamo nelle sale parrocchiali dell’epoca: così impiegavamo i lunghi pomeriggi liberi che i pochi compiti della scuola media ci concedeva.

Era naturale che, assieme a un divertimento seriale e tipologico, il western ci trasmettesse i suoi codici per così dire morali, la cui particolarità era quella di essere completamente laici e endogeni, vale a dire non generati e imposti da un’autorità superiore, umana o divina che fosse, ma prodotti dal concetto di dignità virile di allora.

I preti che gestivano le sale parrocchiali stavano attenti a tagliare le scene erotiche di tutti i film, ma non si accorgevano del messaggio profondamente anti-religioso contenuto nella caterva di western che programmavano: la legge non è quella di Dio e neanche quella degli uomini, la legge è dentro di te e in molti casi obbliga allo spargimento di sangue. Tuo e/o altrui. Fu così che i baby boomer, a furia di andare al cinema il pomeriggio, cominciarono a diventare dei cow-boy interiori: non mi capiterà, ma se dovesse capitarmi una situazione alla Randolph Scott, so che dovrei comportarmi da uomo, pensavo. Dove per uomo si intende un individuo dotato dello stile morale di cui sopra.

Successivamente la vita si sarebbe presa cura di noi, dimostrandoci due cose. La prima fu che il codice morale western che credevamo di avere interiorizzato non avrebbe retto alle poche prove cui sarebbe stato sottoposto. La seconda, molto più importante, fu che quel codice sarebbe comunque stato del tutto inutile, perché una società civile pacificata, organizzata e implicitamente regolata secondo la sordida, sottile, lotta di tutti contro tutti, avrebbe preteso da noi soprattutto astuzia-opportunismo-egoismo-ipocrisia-slealtà, attitudini invece tipiche della figura del cattivo, che, esecrato nel western, sarebbe poi divenuta quasi stimabile nel garbuglio della vita vera.

Semplificando, accadde anche un’altra cosa: da un certo momento in poi – dopo l’apoteosi barocca e conclusiva di Sergio Leone e soprattutto di Sam Peckinpah – Hollywood praticamente smise di fare film western. Il genere morì credo verso la fine degli anni Settanta, con alcuni rilevanti episodi di resurrezione, tra cui il recente bellissimo Appaloosa di Ed Harris (2008), imperniato sulle figure di un marshall e del suo aiutante che schizzano fuori dallo schermo, tanto sono ben costruite.

Tra i molti western visti, Ultima notte a Warlock (Warlock), di Edward Dimitryk, 1959, mi aveva particolarmente colpito. Avevo 15 anni, ero un ragazzino alla ricerca inconsapevole di modelli virili, perciò fui fulminato dalla figura di Clay Blaisedell, così come l’interpretava Henry Fonda. L’immagine di quel pistolero mi rimase fortemente impressa, così come quella del suo amico Morgan (Anthony Quinn) assieme a tutta la vicenda che il film racconta. Al contrario delle modalità narrative dominanti nel genere, Warlock ha un intreccio che mi appariva di un’ affascinante complessità, annodata attorno alla modalità binaria coraggio/codardia, che a quel tempo, come oggi, era una delle mie ossessioni. Da allora non l’ho più rivisto e pian piano nella memoria si è sovrapposto parzialmente a Sfida infernale (My Darling Clementine), di John Ford (1946), anch’esso ispirato alla nota vicenda di Wyatt Earp, sceriffo di Tombstone nel 1882, e della sfida all’O.K. Corral. Motivo della confusione è che anche lì il protagonista, praticamente nella stessa parte, è Henry Fonda.

Poi, di recente e inaspettatamente, è uscito Warlock, romanzo scritto nel 1958 da un certo Oakley Hall (1920-2008), di cui non sapevo nulla, tradotto da Tommaso Pincio e pubblicato da Sur. Con queste due garanzie l’ho subito acciuffato. È un testo di quasi settecento pagine e io sono un lettore lento. Ci ho messo un mese per finirlo, ma l’immersione nel mondo costruito dalla scrittura scarna e fattuale di Hall, resa così bene da Pincio, è stata si può dire immediata. Letteratura popolare? Forse, anzi certamente. Ma, come solo certi scrittori nord-americani hanno saputo fare, senza concessioni, cadute, trucchi.

Leggere Warlock ha significato, non solo rivisitare il genere western – dopo i decenni in cui l’avevo incapsulato e come messo via: voglio dire accantonato dalla coscienza, ma sempre fortemente agente nella mia sub-coscienza, che ancora si pone domande sul coraggio, la lealtà, il combattere e morire per qualcosa, oppure per niente, come sembra facciano quasi tutte le figure del romanzo – ma anche de-semplificarne le tematiche. Il libro racconta con notevole maestria la vicenda complessa, piena zeppa di personaggi, della nascita stentata del così detto ordine sociale in una città mineraria del sud-ovest americano, che vive uno stadio evolutivo in cui i gruppi sociali non sono ancora del tutto al loro posto. E dove ragione e verità sono continuamente oscurate, non solo da passioni e convenienze e dalla mancanza di degni mezzi di informazione, ma dal tormento del dover-essere e soprattutto dal mortale obbligo di dover-apparire (uomini).

Oltre al basilare conflitto tra capitale e lavoro, cioè tra minatori e società minerarie, che costituisce il plafond di sostegno per tutte le altre vicende (la miniera d’argento è la ragione di esistere della città stessa), Hall mette in scena altri soggetti: allevatori inselvatichiti, con la loro sub-cultura della violenza che la civitas di Warlock, aspirante a uno status riconosciuto di città, non può più accettare, confliggono con i notabili locali e con il loro braccio armato assunto per l’occasione, Clay Blaisedell. Avventurieri, giocatori, gunfighters con diversi conti aperti legati a vicende pregresse, sempre di passione e violenza, di sopraffazione e sangue, che domandano vendetta e influenzano non poco il presente della città. Se Warlock riuscirà a superare il momento in cui tutti i diversi conflitti convergeranno in un unico sconvolgimento, potrà dirsi finalmente una città. Altrimenti resterà ferma allo stadio provvisorio di turbolento insediamento minerario, come quelli che a quei tempi nascevano continuamente, per venire poi abbandonati all’esaurirsi dei filoni.

Subito il romanzo si pone con chiarezza il dilemma fondamentale di tutta la narrazione western: qual è il dettato etico cui deve attenersi l’individuo in assenza della costrizione imposta dalle leggi dello Stato? Da dove attinge i suoi valori l’agire umano, se non può o non riesce a aderire alla sola norma religiosa? Come si costruisce quel perno interiore capace di determinare il modo in cui conduciamo la nostra esistenza, a prescindere dalla contingenza del costume e della legge? In altre parole: esiste una morale assoluta capace di rendere degna una persona al di là di cultura, estrazione sociale, religione, legge? A qualcuno sembrerà una forzatura paradossale, ma sono convinto che tutto il cinema western parli in fondo solo di questo. E che il fascino che ha esercitato su di noi veniva da qui, cioè dalla domanda fondamentale: come (e secondo quale modello) essere integralmente uomini in assenza della costrizione della norma?

Così posta, la questione genera una serie di domande a cascata, a partire da cosa si intenda con quell’essere uomini cui nel romanzo continuamente si allude. Warlock ci mostra che, benché la risposta convenzionale comporti l’elencazione di una serie di qualità che consideriamo, se non virtuose, sicuramente positive, nessuno dei protagonisti riesce ad aderire sempre, cioè in qualsiasi circostanza, alla versione western del modello virile. Versione che oggi consideriamo «di destra», liquidandola assieme a un intero genere che per quelli venuti dopo di noi e per i nostri figli ha perso completamente, e forse giustamente, fascino e significato. Ma la domanda rimane: nel conflitto umano esistono norme assolute, cioè al di sopra delle contingenze politiche e delle stagioni ideologiche, cui attenersi?

Si parla di «modello virile», perché alla donna western vengono richieste altre virtù. Tuttavia in Warlock le donne sono singolarmente anti-convenzionali. Nel libro come nel film ci sono due figure femminili molto rilevanti. Eppure nessuna delle due è virtuosa nel senso tradizionale del termine: sono donne libere che agiscono secondo la propria volontà e i propri sentimenti, lungo una linea del tutto incurante del giudizio altrui, che si direbbe di completa emancipazione. Probabilmente, là dove non esisteva una borghesia formata e pienamente dominante non avevano corso nemmeno le sue convenzioni.

Di fatto Warlock racconta il tentativo di presa del potere di una classe di esercenti banchieri commercianti, ma anche di imprenditori (in questo caso minerari), che, interessata allo svolgersi regolare dei propri affari, punta a stabilire legge e ordine, escludendo e reprimendo i soggetti dal comportamento a vario titolo violento. È per questo che viene assunto il gunfighter Clay Blaisedell (esattamente come nell’antico Giappone si assumevano i samurai): perché tenga a bada i minatori ubriachi e, nelle loro scorrerie in città, i cowboys della vicina San Pablo, brutta gente dedita agli assalti alle diligenze e alle razzie di bestiame oltre il confine con il Messico. Con questi ultimi vale il confronto in «duello regolare», cioè faccia a faccia a chi estrae e spara per primo, mentre per mettere a posto i minatori in sciopero interverrà un’autorità superiore, a dimostrare ancora una volta qual è il ruolo dello stato nella lotta di classe.

Hall, che scrisse anche il soggetto del film di Dimitryk, o chi per lui, forse per motivi di opportunità politica (siamo in pieno maccartismo) espunse dalla pellicola lo scontro violento tra minatori e padronato, su cui invece nel romanzo insiste molto, facendone causa indiretta di accadimenti e private rese dei conti, la cui memoria, nelle bellissime ultime pagine del libro, diverrà incerta e sfumata per la confusione di verità e menzogna che marcò le vicende umane dei grandi spazi dell’Ovest americano.

di Francesco Pecoraro

Pubblicato da www.leparoleelecose.it, dicembre 2016

Sotto il video di Tommaso Pincio su Warlock

 

 

 

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