FRA REALISMO E ASTUZIE: LA POLITICA DI HENRY

20 Mag 2020 | 0 commenti

Heinz (Henry) Kissinger aveva nove anni nel 1933, quando Hitler venne nominato Cancelliere. Era il figlio di un ebreo tedesco assimilato, un uomo pio, insegnante a Fürth, cittadina manifatturiera di 70 mila abitanti in Baviera, che l’ aveva cresciuto nel culto di Goethe, Lessing e Felix Mendellsohn, votandolo all’ideale della Bildung (la tradizione tedesca di auto-formazione). Da un giorno all’altro, si trovò braccato da bande di ragazzetti in camicia bruna, costretto a cambiare strada, a disertare la piscina, a fingersi cattolico per giocare a pallone.

Barry Gewen, giornalista e scrittore

Nel 1938, alla viglia della Kristallnacht, la madre Paula Stern, figlia di un mercante di bestiame e perciò dotata di senso pratico, riuscì a ottenere un visto per l’America. Così la famigliola riparò a Washington Heights, Upper Manhattan, fra la comunità di ebrei tedeschi detta per scherzo The Fourth Reich, dove il vecchio padre, ormai vinto dalla vita, cercò di riciclarsi come contabile.

Divenuto adulto, laureato a Harvard con tesi su Metternich e Castlereagh, scrittore di successo con un saggio del 1957 sulle armi nucleari, professore a Harvard, consulente del governo, diplomatico di prestigio, consigliere per la sicurezza nazionale e Segretario di Stato dal 1969 al 1977, durante le presidenze di Richard Nixon e di Gerald Ford, e Premio Nobel per la Pace nel 1973, Henry Kissinger, che era diventato americano dopo essersi arruolato nell’ esercito ed essere tornato in Germania per insegnare a dare la caccia ai nazisti, avrebbe minimizzato il peso della persecuzione subita nell’ infanzia.

Eppure, solo un biografo dal cuore duro potrebbe negare l’impatto che la parabola del padre ebbe sulla visione del figlio e resistere alla tentazione di considerare l’attenzione al realismo e l’assenza di illusioni una sorta di compensazione all’ impotenza del padre.

Kissinger con Ronald Trump

È l’assunto sul quale si fonda Barry Gewen, redattore di lungo corso alla New York Times Book Review. Il suo libro oscilla tra il ritratto intellettuale e il compendio politico. Dalla storia del Cile moderno, dove il colpo di Stato del 1973 contro il presidente Salvator Allende, primo comunista regolarmente eletto, un putsch gradito a Washington ma indipendente dall’amministrazione americana, è riportato alla sola matrice militare, sebbene Kissinger ammonisse Non vedo perché dovremmo stare a guardare un Paese che diventa comunista per l’ irresponsabilità del suo stesso popolo?..

“L’atmosfera surreale offerta dalla pandemia di Covid-19 mi ricorda come mi sentivo quando ero giovane nell’84a divisione di fanteria durante la Battaglia del Bulge.  C’è un senso di pericolo imminente che colpisce in modo casuale e devastante”. E’ il drammatico inizio dell’articolo che  Henry Kissinger,  segretario di stato degli Stati Uniti durante le presidenze di Richard Nixon, ha scritto nella sua rubrica pubblicata il 3 aprile sul Wall Street Journal. Tuttavia, ha avvertito Kissinger, c’è una differenza importante tra quel tempo lontano e il nostro: “La resistenza americana è stata poi fortificata da uno scopo nazionale. “Ora, in un paese diviso, è necessario un governo efficiente e lungimirante per superare gli ostacoli senza precedenti in termini di portata e portata globale. Il mantenimento della fiducia dei cittadini è fondamentale per la solidarietà sociale, per la pace e la stabilità internazionali”.

 Dalla seconda guerra mondiale alla Guerra fredda, dalla guerra nel Vietnam all’ invasione della Cambogia e all umiliazione da parte di Ronald Reagan che considerava superata la realpolitik, e non volle Kissinger alla Segreteria di Stato. Seguendo un periplo movimentato, Gewen finisce per assolvere da ogni accusa di cinismo, opportunismo, machiavellismo e diabolica spregiudicatezza il maestro della realpolitik, che perseguì l’interesse nazionale e l’equilibrio di poteri per garantire la stabilità dell’ordine mondiale.

Lo choc subito da bambino, l’aver visto tramontare da un giorno all altro gli ideali del padre, l’aver visto inghiottire zii e cugini nelle camere a gas, l’ aver assistito inerme alla distruzione della democrazia, in nome della democrazia e attraverso le procedure della democrazia, costituiscono il nucleo tragico del pensiero politico di Kissinger che affonda le radici nel pessimismo europeo del Novecento, e nella diffidenza verso la democrazia moderna condivisa da altri emigrati eccellenti, come Leo Strauss, Hannah Arendt e Hans Morgenthau, accomunati nella riflessione sulla morte della civiltà e dall avvento inaspettato della barbarie, prodotto e nemesi dell’ idea di progresso.

Alla fine di tante digressioni, resta da capire se, e fino a che punto, il realismo politico, e per esempio la teoria dell’effetto domino in Asia, sia stato obiettivamente efficace nell’ azione diplomatica di un pensatore di spicco.

Articolo di Marina Valensise per ”Il Messaggero”

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