Dai soliti tre giorni di lutto nazionale a cinque, poi “l’avvertenza” di ricordare il 25 Aprile 1945, festa della liberazione del nazifascismo, con “sobrietà”. Questo nel comunicato stampa n. 125 del C.d.M. Si è trattato solamente di una sovrapposizione di date fra la cerimonia funebre per la improvvisa morte di papa Francesco, oppure l’occasione per mettere la sordina a una celebrazione non gradita? E’ un caso che la missione della presidente del consiglio Giorgia Meloni in Uzbekistan e Kazakistan era in programma dal 25 al 27 aprile, prima di essere annullata per il lutto?
Lascio alle cronache dei quotidiani la disputa lessical-ideologica.
Più interessante è semmai capire cosa ha mosso il C.d.M. a raccomandare moderazione e misura nel ricordare questo ottantesimo anniversario. Richiamo alla sobrietà che è apparsa ai più del tutto superflua, se non irritante.
Tanto più che il provvedimento non pare essere farina del sacco del ministro dell’interno Piantedosi, ex prefetto e accigliato partenopeo, preoccupato dell’ordine pubblico, ma della stessa Meloni.

Ad una osservazione meno superficiale, la natura del provvedimento rivela un disegno più complesso, non il frutto della convergenza occasionale o effimera di specifiche circostanze, né riconducibile alla solita idiosincrasia storica della destra italiana per la Resistenza.
L’attuale governo, almeno nella sua ala più agguerrita, predominante anche ideologicamente sulla fragile compagine che si richiama al berlusconismo o al neo-populismo salviniano, persegue l’esplicito tentativo di svuotare 80 anni di cultura moderata, catto-comunista e social-liberale. Essa vuole ridisegnare il welfare-state e gli ambiti di autonomia e libertà della società, abolendo il ruolo dei corpi intermedi, evitando le mediazioni, riducendo ruolo e prerogative del Parlamento e degli elettori, a favore di un presenzialismo destinato a trasformare radicalmente le regole democratiche, quando non ad abolirle.
Naturalmente, una cosa è pensarle queste cose, altre per fortuna realizzarle, specie per una compagine assai scombiccherata com’è quella attuale e formata da familia membra, di cui importa la fedeltà piuttosto che le capacità.
La sgangherata post-democrazia italiana in animo a Giorgia Meloni non sembra il terreno facile su cui fare grandi manovre e disegnare scenari elettoralmente appetibili. Da navigata politica, sopravvissuta della prima repubblica, Meloni ne è consapevole, al punto da spingersi a trovare riconoscimenti, ispirazione e incoraggiamenti nel contesto mondiale, in apparenza più prodigo di opportunità e apprezzamenti.
La liaison con Donal Tramp è tutta qui, vissuta con lo sguardo ansioso e gli affanni italiani; così il camaleontismo europeo, agito con realismo, qualche giravolta e senza confessioni di fede, col protagonismo acciaccato di chi ha tre mila miliardi di deficit pubblico sulle spalle e col cinismo di chi aspetta, a braccia conserte, che l’edificio messo in piedi da Ventotene in poi faticosamente incominci a franare.
In Italia, dal 22 ottobre 2022, data di insediamento del governo Meloni, è oramai chiaro che le “grandi riforme” promesse dormono nei cassetti, e questo è un bene. La rivoluzione culturale, destinata a ribaltare l’egemonia della Sinistra, è affidata a volti improbabili, improvvisati, non-organici. Sono vecchie facce a fine carriera o di sparute reclute: Agamben, Alvi, Veneziani, Volpi, Buttafuoco? E che dire del ministro alla cultura Giuli? Non si andrà al di là del turnover, dello spoil system, troppo poco per cambiare le regole del gioco.
Il ribaltone, la svolta epocale, nel mare di incertezza in cui siamo naufragati, verrà di altre terre, magari lontane, che del capitalismo hanno conosciuto solo sfruttamento e colonialismo. O magari dalla guerra mondiale a pezzi, quella definitiva, preconizzata da papa Francesco. La MAGA dal ciuffo cotonato, che gli americani hanno elevato al rango di divinità, non ama la guerra, ma solo gli affari. Che poi sono la stessa cosa, quando, rappresentando appena il 4,5% della popolazione mondiale, la vuoi fare da padrone delle ferriere.