Il 13 aprile è morta per cancro a 87 anni in Palermo Letizia Battaglia. Irriverente, iconica, spesso divisiva Letizia ha un posto tutto suo nella storia della fotografia, soprattutto per le immagini di Palermo, città che tanto amava. In questi due articoli, il primo di Antonello Piroso, il secondo di Antonio Gnoli, un ritratto a tutto tondo, commovente e sincero.

Indomita e battagliera lo è sempre, Letizia Battaglia. Un nome e un cognome che incarnano un ossimoro. Da una parte, la gioia, la serenità, il bene. Dall’altra, la lotta, il conflitto, la guerra. 

Arrivata a 84 anni, la voce arrochita dalla quantità industriale di sigarette fumate ogni giorno (“Dovrei diminuirle” “Perché, quante sono?” “Cinquanta, sessanta, vorrei stare almeno nei due pacchetti, ho cominciato a dodici anni”), la più celebre fotoreporter italiana, la prima europea premiata dagli americani già nel 1985 – “no, no, non chiamatemi fotografa, sono solo una persona che scatta foto”- ha l’entusiasmo di una ragazzina nel puntualizzare, polemizzare, difendere con veemenza e crudezza i suoi punti di vista, illustrare il suo lavoro come testimonianza e impegno anche civile. 

Letizia Battaglia

Ma come spiega lei, “per diventare bravo, bisogna essere quello che siamo: chi fa arte o scatta, deve far vibrare quello che è. Se si è cattivi si faranno foto spietate, se siamo compassionevoli, faremo foto compassionevoli”. 

Il New York Times l’ha inserita, unica connazionale, tra le undici donne più rappresentative del 2017. 

In occasione della mostra “Letizia Battaglia, fotografia come scelta di vita”, una grande retrospettiva a Venezia fino al 18 agosto, Marsilio ha pubblicato un volume antologico che raccoglie 300 scatti, alcuni dei quali inediti. Oggi (giovedì 27) a Roma, all’auditorium del museo Macro, verrà proiettato il documentario Shooting the Mafia, presentato al Sundance Film Festival di Robert Redford, dedicato a questa donna passionale e coraggiosa. 

Lei sfoggia capelli di un rilucente color rosa, ma in passato io li ricordo anche verdi.

Oh sì, li tenevo così nella foto della carta d’identità. Li ho avuti pure rossi. Per il futuro non escludo il blu. Un vezzo, ma la vita è un susseguirsi di colori. Niente trucco solo un po’ di rossetto, niente lifting, mi piacciono le mie rughe, sto discretamente in salute, arrivata alla mia età ho una forza che non avevo quando ero più giovane, e sento di poter dire e fare quello che voglio, e di cose ne voglio fare ancora tante.

Però da fotografa ha sempre prediletto il bianco e nero.

Vero. Mi è capitato di fare foto a colori, ma poi le ho messe via. Ho un animo essenziale, sono un poco drammatica, il colore banalizza, il bianco e nero ti permette di vedere, per contrasto, cose che il colore non rivela. E comunque non avrei mai potuto raccontare i morti di Palermo a colori, se lo immagina?

Palermo c’è sempre, un rapporto viscerale.

Certo! Palermo è me, e io sono Palermo. Qui sono nata, qui sono sempre tornata.

Perchè se n’è allontanata?

Da bambina perché papà era un marittimo, e ci portava in giro con sé. Napoli, Civitavecchia, Trieste durante la guerra, da cui ritornammo a Palermo con un viaggio di 14 giorni tipo carro bestiame. Poi all’inizio degli anni 70 per mantenermi, visto che mi ero separata, salii a Milano.

Si era sposata giovane?

Sì, e a 17 anni avevo già una figlia, la prima di tre, tutte femmine. Noi donne ci innamoriamo, ai nostro uomini diamo dedizione, che loro ripagano volendoci asservite e fottendoci, esaltando il proprio egoismo, arrivando all’indifferenza e alla violenza. Quando decisi che era finita, rifiutai perfino gli alimenti. Ma a quel punto dovevo ingegnarmi per campare, e cominciai come redattrice al quotidiano L’Ora.

Quindi alla fotografia non è arrivata perché sentiva ardere dentro di sé un sacro impulso…

No, ci sono arrivata per fame. A L’Ora mi pagavano molto poco, mi trasferii a Milano, iniziai a collaborare con altri giornali, tra cui Vie Nuove, che era un periodico comunista. Io portavo l’articolo, e quelli mi chiedevano: “E le foto?”.

Lo domandano anche oggi…

Allora mi procurai una piccola macchina non professionale e cominciai a scattare, ma solo perché era necessario a sostenere la mia indipendenza. Dopo tre anni, pubblicavo sulle testate più importanti, il Corriere della seraIl Giorno.

Ma la sirena di Palermo era irresistibile.

L’Ora mi chiese di tornare per occuparmi del settore fotografico del giornale. Cominciai a studiare il lavoro dei grandi professionisti, e imparando e scattando, m’innamorai della fotografia.

Diventando la fotografa della mafia, anche se la mostra a Venezia e il volume di Marsilio dimostrano che il suo occhio si è posato anche altrove: gli innamorati, le donne, l’infanzia, gli animali e le processioni religiose. Con Palermo sempre a fare da scenografia.

Certe volte mi dico: basta parlare di mafia. Non ne posso più. Parliamo piuttosto di riscatto, di bellezza, di futuro. Ma all’inizio era così. A ogni delitto correvo sul posto e scattavo, ma non avrei voluto. Mi veniva da vomitare, continuavo a sentire quell’odore, il sangue, dappertutto, perfino dentro casa. Mi costava molto dolore. E fatica, perché in molti mi vedevano come la figlia dei fiori, una figura pittoresca vestita con colori sgargianti e con gli zoccoli. Fu grazie alle forze dell’ordine, e al commissario Boris Giuliano, che finirà pure lui ammazzato dai killer di Cosa Nostra,  oltre che alla qualità del mio lavoro, che vinsi le resistenze.

Isabella Ragonese nei panni di Letizia Battaglia

Come riusciva ad andare avanti ad affrontare la morte, trovandosi in mezzo a quella che lei ha definito una guerra civile tra siciliani, scatenata dai corleonesi di Totò Riina?

Per senso del dovere, vincendo il senso di nausea. Dovevo andare oltre le mie emozioni, giravo con Franco Zecchin (suo compagno per 18 anni, ndr) sulla sua vespa per testimoniare quello che stava succedendo e condividerlo con la gente di Palermo. Scattavo molte foto, perché per il coinvolgimento emotivo mi tremavano le mani e venivano mosse o sfuocate, ma alla fine quella buona usciva sempre.

Nella foto l’uccisione di Piersanti Mattarella, sorretto dal fratello Sergio

Andò così anche il 6 gennaio del 1980…

Transitammo per via Libertà, e vedemmo un piccolo capannello di persone, saranno state cinque sei, intorno a un’auto. Pensammo a un incidente, ci fermammo. Franco girò dal lato del passeggero, io da quello del guidatore e scattai infilando la macchina nell’abitacolo senza sapere sul momento di chi fosse quel corpo. E sullo sfondo un uomo con i capelli bianchi che lo sorreggeva.

Una foto che ha fatto il giro del mondo. Un’immagine che, non so perché, mi ha sempre fatto pensare alla Deposizione di Caravaggio. Quell’uomo con i capelli bianchi era il nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che teneva tra le braccia il fratello Piersanti, presidente della regione. Mattarella mi infonde fiducia perché con lui lì non vedremo traffico o mercimonio tra lo Stato e la Mafia come è successo in passato.

Isabella Ragonese con Letizia Battaglia, sul set della miniserie TV Solo per passione che ricostruisce la vita della fotografa

Si riferisce alla cosiddetta “trattativa”.

Be’, c’è una sentenza che certifica che tra una parte dello Stato e i mafiosi ci fu questo accordo consumato sulla pelle di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Qualcuno propose un immondo scambio: “Voi smettete di ucciderci, noi vi veniamo incontro, vi garantiamo qualche vantaggio, un minore rigore carcerario”. E così è avvenuto.

(Vorrei obiettare che quelle tragiche vicende sono intrecciate in modo complesso, che si presta a una lettura più articolata, ma su questo punto Letizia Battaglia è un fiume in piena, come quando tiro in ballo il sindaco di Palermo) Lei è da sempre sostenitrice di Leoluca Orlando, è stata anche assessore per i Verdi nella sua giunta durante la Primavera siciliana della seconda metà degli anni 80, e poi deputato regionale nella sua Rete. Eppure lui a un certo punto attaccò Falcone, che fu costretto a difendersi davanti al Csm dall’accusa di tenere i dossier scottanti “chiusi nel cassetto”.

Minchiate! Erano amici, si sostenevano l’un l’altro, e quel fraintendimento fu chiarito: non furono mai nemici. Si voleva indebolire il fronte antimafia, questa è la verità.

Dopo l’estate di sangue del 1992 lei se ne andò di nuovo da Palermo.

Amore e odio, per la mia città. In quel momento volevo morire, ma per davvero. Mi rifugiai a Parigi, dove Franco aveva un monolocale da cui quasi non uscivo. Durò un anno, poi trovai la forza di tornare.

E’ sempre di sinistra?

E me lo chiede? Sempre. Ho fotografato Pier Paolo Pasolini, Enrico Berlinguer. Persone che hanno vissuto con tensione civile e distacco dal potere, di cui non subivano il fascino e non avevano la vanità, come mi ha insegnato Ezra Pound.

Ma come, mi cita un fascista?

Innanzi tutto, io non ho i paraocchi. Secondo, era un poeta, una persona m-e-r-a-v-i-g-l-i-o-s-a. L’ho conosciuto prima di diventare fotografa, e un suo verso “Strappa da te la vanità, ti dico: strappala!”, è un monito che a 35 anni ho fatto mio, mentre affrontavo un percorso di analisi freudiana. E quanto al fascismo di Pound, secondo me non capiva un cazzo, aveva una visione confusa, di ammirazione per le politiche economiche e sociali di Benito Mussolini, finì pure in manicomio, e mi dispiace che della sua figura si siano appropriate le teste rasate di CasaPound.

Ma se le chiedessi di farmi il nome di qualcuno di sinistra oggi? Che so, Nicola Zingaretti, segretario del Pd?

Giovanni Falcone a Palermo durante una cerimonia

Persona per bene, mi pare, ma non mi dice proprio nulla. Matteo Renzi? Ma perché, era di sinistra? Forse direi Massimo Cacciari…

Da ultimo: perché adesso le foto di donne nude?

Il corpo nudo femminile è pulito, sereno, autentico, senza sovrastrutture. E’ Palermo. Ho questa attrazione, e so che qualcuno si chiede se per caso io non sia lesbica. Se lo fossi, di certo non lo nasconderei né mi nasconderei. I miei amanti sono stati uomini, ma sa che c’è? Voi maschi non siete soggetti poi così interessanti da fotografare.

L’intervista di Antonello Piroso a Letizia Battaglia per La verità del 26 giugno 2019

NON HO AVUTO UN VITA SEMPLICE, MA NE E’ VALSA LA PENA

Le fotografie di Letizia Battaglia provocano su di me un effetto malinconico. È lo stesso sentimento che avverto davanti a un film neorealista di Rossellini o De Sica. Ho visitato recentemente una sua piccola mostra alla galleria “Il Cembalo” di Roma.

Foto che parlano di bambine, di morti violente, di donne ai margini, di bassi. Tutto mi appare crudo e intenso. Come se Letizia, con il suo occhio sovrano, metta in gioco le sue ferite e i suoi tormenti. Anche adesso, che mi parla per telefono, la sua voce si riveste di una strana malinconia.

E mi pare di vederla in quella Palermo che è tutta la sua vita.

È una grande donna ma, come tutti vive, i suoi inciampi: le angosce improvvise, le insonnie che da qualche tempo infuriano nella sua testa e le impediscono di sognare. Sta lottando contro un cancro che la spossa. Ma lei non demorde. Grinta e indignazione la spingono oltre.

Oltre cosa? Oltre i molti luoghi comuni che ha ribaltato: sulla mafia, sulle donne, sugli uomini, sulla Sicilia e in particolare su quella Palermo da cui non può prescindere: «L’amo al punto che se dovesse sparire la piangerei come la più cara delle persone perdute». Mi dice con accorata convinzione.

Hai accettato di parlarmi nonostante tu non stia bene. Posso chiederti cosa stavi facendo?

«Ma che domanda strana. Pensavi fossi a letto. Sono spesso a letto. Ma prima di parlarti stavo guardando le foto che ho scattato e che scelgo per aggiungerle al mio archivio».

Come le scegli?

«Non me ne frega più di tanto se sono belle, brutte, carine o modeste. Non è questo il criterio. Voglio lasciare delle foto che raccontino di me, non di Gina Lollobrigida o di Leoluca Bagarella. Perché puoi fotografare le mafie o gli artisti di tutto il mondo, ma alla fine è il mio mondo che accoglie e fissa gli altri mondi».

Si chiama empatia.

«È quella che provo un attimo prima di scattare. Mi innamoro non del mio sguardo ma di ciò che il mio sguardo in quel momento accoglie».

Ma puoi innamorarti del male? Molte tue foto parlano di miseria, di morti violente, di soprusi.

«Non mi potrei mai innamorare del male. Quando ho fotografato Bagarella ricevetti un calcio. Un messaggio di disprezzo e violenza. Tu, donna, come ti permetti, sembrava volermi dire. Ma le mie foto non esaltano il male, lo raccontano attraverso la bellezza.

Per me la disperazione è bellezza, la sconfitta è bellezza, la cattiva sorte è bellezza. Sono andata avanti tutta la vita con questi strumenti del cuore e della mente. Quando fotografo non faccio progetti. Non faccio estetica come Mappletorphe o Salgado. Seguo il mio cuore e la mia testa».

Nella foto la cover di Anthology, un libro illustrato da 360 foto di Letizia Battaglia

Ma hai dei fotografi ai quali ti senti più legata?

«Certo. Il più vicino di tutti è Josef Koudelka. Fu lui a cercarmi la prima volta. Veniva a Palermo, sapeva del mio lavoro ed era curioso di conoscermi. Diventammo subito amici. E quando era a Palermo veniva ospite da me. La sua presenza era una festa.

Era emozionante vederlo fotografare. Stava fermo per dei minuti e poi scattava. Il suo segreto era la capacità di annullare il tempo fisico. Vederlo lavorare mi è servito tantissimo. Poteva perfino far passare un anno prima di sviluppare i suoi rullini. Gli chiesi perché impiegasse tutto questo tempo.

Mi rispose che quello era il tempo giusto per distaccarsi dall’emozione. E io ridendo gli dissi: Josef, mi sa tanto che io la vita l’afferro e tu la controlli. È stato un maestro, ma come tutti i grandi maestri, del tutto involontario. Non c’era in lui nessuna pretesa di volerti insegnare il mestiere.

Lo dici come se le scuole siano inutili.

«Sono autodidatta. Ho imparato a fotografare di istinto e perché a un certo punto ho pensato che la fotografia fosse una lingua con cui potevo comunicare. Ma ho cominciato tardi, avevo quasi quarant’ anni».

Prima che facevi?

«La donna di casa, la madre di famiglia, la moglie sottomessa. Mi sono sposata che avevo sedici anni. La classica fuga e poi le nozze riparatrici. La prima figlia a diciassette anni. Amavo il mio uomo. Ero giovane e avevo perso la testa per lui».

Lui chi?

«Un uomo facoltoso, produceva e commerciava caffè. Forse pensava che io fossi come quei sacchi di juta che conservava gelosamente nei suoi magazzini. Insomma un oggetto che allietasse il suo ambiente. A un certo punto scattò in me una vera insofferenza. Più provava a riempirmi di regali costosi e più io sbroccavo. Stavo male al punto che decisi un bel giorno di partire per Mestre con le tre figlie. Raggiungevo i miei. Papà era un marittimo e si spostava nei vari porti italiani. Poi ci fu la ricomposizione e di nuovo le sue ossessioni. Volevo studiare, frequentare gente interessante. Alla fine mi ammalai di brutto. Soffrivo di crisi di panico e di depressione. Mescolavo whisky e valium. Stavo letteralmente a pezzi».

A quel punto cosa accadde?

«I medici decretarono che avevo un esaurimento nervoso. Mi spedirono in una clinica Svizzera per una cura del sonno. Dormii di filata per quattordici giorni! Poi suggerirono una clinica palermitana dove curare, dicevano, i miei nervi. Mi rifiutai e la fortuna ha voluto che incontrassi una persona strepitosa: Francesco Corrao, uno psicoanalista freudiano che mi tenne in analisi per tre anni».

E tutti questi ribaltamenti come ti hanno condotto alle fotografia?

«Se avessi potuto avrei fatto la scrittrice».

Scusa cosa te lo ha impedito?

«Scrivere richiede un esercizio e una disciplina che non mi potevo permettere. La fotografia, no. La fotografia è impulso, decisione e immaginazione. Ti ho detto che ho iniziato tardi.Mi presentai all’Ora di Palermo, era l’estate del 1969. Per questo glorioso giornale feci la prima foto».

Davanti al tempio di Segesta

Il soggetto qual era?

«Fotografai una prostituta di Palermo. Una donna bellissima, per niente sfregiata dalla vita che faceva. Ma a sfregiarla fu altro. Era stata coinvolta nell’omicidio di un’altra prostituta. Di qui il valore di cronaca che la sua immagine aveva per il giornale. Ho lavorato duramente per alcuni anni. Poi complice una persona che mi stava a cuore mi sono trasferita a Milano. È stata una città importante per me. Per le persone che vi ho conosciuto, per il lavoro svolto. E poi perché per la prima volta mi sono sentita libera, una donna senza più costrizioni».

Il che non ti ha impedito di tornare a Palermo.

«Ho provato varie volte ad andarmene definitivamente da quella città. Ma ogni volta che, per qualche ragione, fuggivo c’era una ragione più forte che mi diceva di tornare».

Che cos’ è che ti lega esattamente a Palermo?

«Non lo so, non lo so davvero. Non mi sono mancate le occasioni per decidere di andare a vivere a Londra, Parigi o New York. Ma alla fine io sono me stessa solo riconoscendomi negli odori, nei gesti, nelle voci, negli angoli della mia città. Mi piace così slabbrata, decadente, povera. Non ne faccio l’elogio da snob, perché è un pensiero e un atteggiamento che non mi appartengono. È che sono gelosa della mia città, morbosamente attaccata e non so spiegarmelo se non epidermicamente».

Battaglia col giudice Borsellino

Non ti sembra che vada posto un limite alla sua caduta?

«È stato fatto, a volte con risultati interessanti. Penso che il futuro di una città, di un paese sia nelle mani di chi li vive, di chi vi soffre e di chi vi gioisce. Occorre l’impegno e io penso di essermi impegnata. Ho cercato di restituire quello che la città mi aveva dato».

Lo hai fatto in tanti modi. Ma quello che più ti corrisponde è la fotografia. Penso al tuo lavoro sulla mafia.

«Sì, ma non devi pensare a qualcosa di neutro, di semplicemente documentale. Ho avuto un anno particolarmente orribile, il 1992. Fu una sequenza di morti. Dagli amici più cari alle persone di riferimento come mia madre e Corrao che mi aveva tenuto in cura come fosse un padre. Si era anche chiusa una storia d’amore per me importante. E in quell’anno ci fu la morte di Falcone e Borsellino. Ero talmente infelice che volevo isolarmi da tutto e tutti. Scelsi di andare in Groenlandia. Volevo un deserto di ghiaccio e di freddo. Arrivai a Copenaghen. Ero sfinita, dormii in terra all’aeroporto e la mattina seguente partii per una cittadina di cui non ricordo il nome. Sbarcai. Mi sembrava una di quei non luoghi, nei quali ogni cosa ti è indifferente».

E cosa facesti?

Delitto mafioso

«Andai a mangiare. Il freddo, il fatto che erano due giorni che praticamente non toccavo cibo mi spinsero verso un locale con delle insegne, su una c’era scritto “Pizza”. Entrai e, quando mi portarono la lista dei cibi, non ci potevo credere. Tra le varie versioni di pizza c’era “pizza mafia”! Io volevo dimenticare e allontanarmi dallo schifo e lì per puro luogo comune associavano la pizza italiana a un fenomeno criminale».

Tu la mafia l’hai combattuta con i tuoi mezzi. E la mafia come ha reagito?

«A un certo punto mi volevano dare la scorta. Ma non l’ho voluta. Ho pensato se ti vogliono ammazzare lo fanno. Tanto vale non coinvolgere gli altri. Ho sofferto per coloro che sono morti per mano mafiosa, da Boris Giuliano ai tanti che hanno disseminato di sangue la mia terra. Ho pianto, ho imprecato e ho documentato le carneficine e gli omicidi. A volte penso alla mia infanzia e al fatto che la mafia non c’era, ma c’era la guerra e c’erano le bombe. Come oggi in Ucraina. Noi, intendo la mia famiglia e io, eravamo a Trieste. Ma non ci volevano e siamo tornati nel 1945 a Palermo, su un carro bestiame. Non ho avuto una vita semplice».

Enrico Berlinguer

La tua vita è stata per certi versi incredibile.

«Lo so, ma solo in parte è dipeso da me. Se fossi nata a Bergamo o nella provincia del Nord molto probabilmente non sarei stata la persona che sono diventata. Siamo il risultato della casualità e del desiderio di trovare il nostro sé. Mi è sempre piaciuta la cultura. Ho letto tanto anche per curiosità e per non sentirmi spiazzata. Ho conosciuto Pound a Venezia, ho letto l’Ulisse di Joyce, ho fotografato Pasolini. Ho avuto dei maestri che ho chiamati “invisibili”».

Perché?

«Non sapevano di esserlo, non sapevano tutto quello che mi stavano dando. Ora lasciami in pace, non ho più fiato. Ho diminuito le sigarette, prima ne fumavo sessanta, ma non basta. Devo scendere di più, devo smettere. Faccio fatica a respirare. Sono stata spregiudicata, provocatoria, ma vera. E ho sempre saputo che la gente mi perdonava tutto. Vorrei che le ragazze che mi cercano non amassero solo la fotografia, ma quello che c’è dietro. Ora quando esco mi spingono con una carrozzella. Ma la cosa che mi fa piacere è che la gente vede me e non la protesi su cui siedo. Ho un cancro e certe notti sento che il mio subconscio si ribella. Ho paura e accendo le candele e provo a dormire. Riesco a farlo per due ore. I sonniferi non mi fanno niente. E allora mi è difficile recuperare le forze nella giornata. Devo vigilare sulle mie paure, sulla mia insonnia. Lo so è difficile per una vecchia di 87 anni. Ma se penso a quello che ho fatto, ecco improvvisamente sento che la mia vita è valsa la pena di viverla»

Antonio Gnoli per “Robinson – la Repubblica”

Le foto che illustrano gli articoli sono di Letizia Battaglia-