La Sicilia ritratta nella quotidianità. L’isola è al centro degli scatti realizzati da Enzo Sellerio nel libro Inventario siciliano (ed. Sellerio). L’autore documentò la vita negli anni centrali del ’900. Con la sua Leica non si limitò a osservare il mondo, ma a riconoscerlo. Lui stesso dichiarò che la fotografia della malata a letto scattata a Partinico nel 1954 era una citazione del dipinto Au lit di Vuillard, così come quella dei vendemmiatori di Rovitello del 1963 traeva spunto dalla Parabola dei ciechi di Bruegel.

Enzo Sellerio, è morto nel 2012 a 88 anni. Oltre che fotografo su fondatore della omonima casa editrice, quella che pubblicò, nell’inconfondibile colore blu e piccolo formato, Sciascia e Camilleri. Un’importante mostra si tenne lui vivente in Firenze nel 2007, presso il Museo Alinari, dal titolo Fermo immagine. La Sicilia di Enzo Sellerio.

Con buona pace degli storici di professione, uno dei libri più affascinanti sul Novecento pubblicati negli ultimi decenni è l’opera di un fotografo. O meglio, di un photo editor, Bruce Bernard, per molti anni incaricato di scegliere le illustrazioni per il «Sunday Times». Il libro in questione s’intitola Centu?ry (Phaidon, 1999) e riproduce circa mille fotografie accompagnate da una didascalia e ordinate cronologicamente: da un’immagine dell’ufficiale francese Alfred Dreyfus durante un’udienza di revisione del processo per tradimento intentatogli dal ministero della Guerra (1899) allo scatto di un abbraccio fra due studenti sopravvissuti al massacro della Columbine High School di Littleton, Colorado (1999).

Un secolo intenso, convulso e tutt’altro che breve. L’unico, almeno per il momento, interamente documentabile attraverso l’occhio della macchina fotografica, ma non per questo privo di ombre, sfocature, miraggi e abbagli. Come ogni altra fonte storica, infatti, le fotografie non sono mai obiettive o neutrali, tanto più se sono state oggetto, come in questo caso, di un’accurata selezione.

Resta il fatto che gli studiosi dell’età contemporanea hanno a disposizione questa fonte straordinaria e ciò nonostante non la utilizzano abbastanza (con qualche eccezione: Giovanni De Luna, Paul Ginsborg, Sergio Luzzatto). È dunque benvenuta la ristampa anastatica di due classici della fotografia come Un paese di Paul Strand e Cesare Zavattini (1955) e Inventario siciliano di Enzo Sellerio (1977). Benvenuta e opportuna: anche per tornare a riflettere su quel «modo di vedere italiano» a cui Giulio Bollati dedicò un saggio pionieristico quarantatré anni fa.

Il suo primo reportage di successo è Borgo di Dio, che racconta l’impegno del sociologo e attivista Danilo Dolci nella provincia palermitana degli anni ’50, che si è messo in testa di combattere analfabetismo, disoccupazione, precarietà dei diritti dei lavoratori, connivenza tra mafia e politica, povertà e sottosviluppo, coinvolgendo e mobilitando attivamente le persone in una delle aree più depresse della Sicilia. Tratto dal sito Clan Network per menti creative, di Francesco Rossi. (collettivoclan.it)

La domanda all’origine della riflessione di Bollati era semplice: «Come videro o inventarono se stessi gli Italiani attraverso l’obiettivo?». Più complessa la risposta. Per un lungo periodo, infatti, non si videro affatto. Le fotografie dell’Italia postunitaria – si peschi a caso nell’archivio Alinari per averne conferma – si limitano a ritrarre e registrare le bellezze naturali e artistiche di un Paese apparentemente disabitato. Col tempo i fotografi impararono a mettere a fuoco anche gli esseri umani, ma sempre con l’intento di classificarli: come abitanti di un luogo, rappresentanti di una professione, membri di una classe sociale. Finché, al servizio di Mussolini, non impararono a occultare il reale, celebrando la retorica e manipolando la verità. Fu solo durante la Seconda guerra mondiale (quando si affermò anche da noi, con grande ritardo rispetto ad altri Paesi occidentali, il fotogiornalismo) che la fotografia italiana riuscì ad acquisire quella libertà di visione che fin allora le era stata preclusa. E nel secondo dopoguerra?

“Chiedo perdono alla Sicilia così poco sicula… Manca la lupara, ma anche la tonnara e la zolfara… Mancano i fichi d´india, magari di cartapesta come quello che zu´ Natalì, fotografo palermitano di gran scorza, portava nel bagagliaio dell’auto per piazzarlo di fianco al cadavere del morto ammazzato di mafia, perché «senza fico d’india i giornali poi non mi comprano la foto” Enzo Sellerio

L’excursus di Bollati non si spinge oltre la Liberazione, ma il libro di Strand-Zavattini e quello di Sellerio, quasi due facce della stessa medaglia, ci vengono in soccorso. Sul primo si legga qui accanto la recensione di Gino Ruozzi.

In un’intervista concessa alla «Fiera letteraria» nel 1951, Zavattini affermò che i tempi erano maturi «per buttare via i copioni e per pedinare gli uomini con la macchina da presa». L’istanza neorealista racchiusa in questa dichiarazione prese forma nei vari film che sceneggiò, ma anche, come sottolinea Ruozzi, nel progetto per Einaudi della collana «Italia mia», che avrebbe dovuto far dialogare fotografie e testi: fotografie di contadini e operai ritratti nella loro quotidianità e testi che ne raccogliessero le confidenze e le storie. Apparve un solo titolo, Un paese appunto, frutto di un sapiente reportage di Strand a Luzzara, città natale di Zavattini. Il quale si assunse il compito di dar voce ai volti dei compaesani – già di per sé eloquenti – immortalati dal fotografo americano.

Il risultato fu un’Antologia di Spoon River della pianura padana in cui, a parlare, non erano le lapidi dei morti ma le fotografie dei vivi. Nel loro insieme raccontano un mondo contadino fatto in maggioranza di vecchi, scandito dal succedersi delle stagioni, costantemente minacciato dalle piene del Po e ancora segnato dalle conseguenze della guerra. I tipici attributi dei luzzaresi sono il salice, la paglia, lo zolfo, il latte, la falce, la bicicletta; ma basta osservare le loro mani per capire chi sono e da cosa traggono sostentamento. O i loro sguardi, che fissano immancabilmente l’obiettivo. Sì, perché per il suo reportage Strand utilizzò per lo più una Graflex e una Deardorff, apparecchi che richiedevano l’impiego di un cavalletto, lasciando ai soggetti il tempo di assorbire la presenza del fotografo, reagire a essa.

Sellerio, al contrario, scattò quasi tutte le sue foto con una Leica, una macchina istantanea che gli consentiva di intrufolarsi in una processione (Alcamo, n. 2), tallonare un oste e il suo asinello (Palermo, n. 40), giocare tra i bambini (Montelepre, n. 89), nascondersi in un fienile (Petralia Soprana, n. 60), inerpicarsi su una trazzera (Madonie, n. 78), spiare una donna al balcone (Linguaglossa, n. 126); insomma, immortalare febbrilmente tutto ciò che attirava il suo sguardo.

Con ciò non si vuol dire che la sua Sicilia à la sauvette sia più autentica della Padania «in posa» di Strand. La macchina fotografica di Sellerio era forse più veloce, ma non più imparziale. Con la sua Leica non si limitava a osservare il mondo, ma lo riconosceva. Lui stesso dichiarò che la fotografia della malata a letto scattata a Partinico nel 1954 era una citazione del dipinto Au lit di Vuillard, così come quella dei vendemmiatori di Rovitello del 1963 traeva spunto dalla Parabola dei ciechi di Bruegel.

Altrettanto importante nel determinare il valore documentario dei suoi scatti – siamo partiti da questa prospettiva e questa manteniamo concludendo – sono le aspettative dei committenti.

La maggior parte delle fotografie che compongono il suo splendido Inventario siciliano, infatti, fu eseguita per le riviste «Cinema nuovo» (che nel 1954 gli aveva commissionato un reportage «neorealista» sulla Partinico di Danilo Dolci) e «Du» (per cui aveva realizzato due servizi di «critica sociale» su Palermo e sull’Etna nei primi anni Sessanta).

Basta questo a rendere meno attendibile la testimonianza di cui sono portatrici? In parte forse sì, ma sta allo storico, se mai deciderà d’interrogarle, porre le giuste domande e interpretarne le risposte.

Articolo di Tommaso Munari per Il Sole 24 Ore