La chiamano Kabul questa fetta di riviera che altrimenti sarebbe senza alcuna ragione Val Verde, per via del colpo d’occhio esoticamente bellico di antiche vestigia dirotte e recenti macerie; non che sia un paesaggio ignoto al resto dei centocinquanta chilometri della Riviera Adriatica, è che qui il passato e il presente sono singolarmente assiepati. Le macerie del presente sono gli esiti di speculazioni mancate, fallite, attenzionate, incovidate, oppure momentaneamente sospese perché chissà non si sa mai; scheletri di buon cemento millennial che cartelli illustrativi tuttora leggibili presagiscono in ecosostenibili bi e tri locali vista mare, lotti abbandonati a poco promettenti gramigne, evoluti a stagni salmastri che la siccità ha traslato in pittoreschi angoli di Mongolia interna, alberghi a tre, due e persino a un’unica solitaria stella, dismessi, piombati, puntellati.

Gli antichi resti sono invece monumentali memento dell’epica era dell’elioterapia infantile, antico imperativo di stato e d’azienda. Le colonie marine per i figli degli operai, i figli dei contadini, i figli degli impiegati, i figli di Maria e i figli della Lupa. Sì, c’è stato un tempo del risarcimento e della cura, un tempo in cui lo Stato, le chiese e i partiti, i padroni delle ferriere e delle anime si sentivano, o erano indotti a sentirsene, in obbligo di risarcire almeno in parte le loro indebite appropriazioni, e tre generazioni di figli del malessere e della miseria se ne sono venuti al mare a prendere il sole e sono cresciuti meno rachitici, meno affamati, meno tisici, e più socievoli con gli sconosciuti e più inclini alla ribellione, tanto per cominciare verso le vigilatrici e le crude leggi del riposino pomeridiano.
Io tra loro, e se il mattutino latte con l’orzo e panino con la viscida cotognata faceva un po’ ribrezzo, la pastasciutta non era poi male e proprio buono era il gelatino del pomeriggio.
Non capisco perché tutto questo sia finito, forse che i figli della Repubblica sono tutti in buona salute e paghi, satolli, delle loro trimestrali vacanze di famiglia?
Forse che non c’è più niente da risarcire, niente di cui aver cura avendo esaurito le ingenti riserve di cotognata? E così, vagando per i viali di Kabul naufrago in milioni di metri cubi di buone intenzioni in disfacimento, benemeriti colossi spolpati e ripopolati da tristi colonie di gatti in esilio e da famiglie di maestosi pavoni fuggiti da chissà quale mattanza.
C’è un’eccezione, splendida, inspiegabile alla luce delle vigenti leggi del mercato, la colonia Agip, impeccabile architettura organica del progettista Vaccaro, in funzione tale e quale dal 1938, mi sa che è la struttura di
pubblico servizio più longeva del Paese; ci vedo plotoni, compagnie, reggimenti di ragazzini, magliette, braghette e cappellucci d’ordinanza, darsi piuttosto volentieri al salutismo paternalista. Lì ho visti l’altro ieri
schierarsi a falange per la foto ricordo; ho anch’io quella fotografia, scattata sessant’anni or sono davanti alla facciata di un’altra colonia in un altro mare, ma potrei ritagliare la mia faccia e incollarla sopra una di queste di oggi, che non si noterebbe la differenza, i figli del popolo sembra che non cambino mai, stesse orecchie a sventola, stessi sguardi sorpresi e meravigliati.
Ma intorno a tutto questo c’è vita a Kabul, ma tanta di quella vita che a Varigotti se la sognano, per non parlare di Portofino che sarebbe troppo facile. Qua c’è il popolo ai bagni, la più grande e duratura opera del socialismo reale di Romagna al servizio della buona salute e della felicità dei lavoratori. La Crimea d’Adriatico, la gloriosa spiaggia bolscevica s’intende, non quella d’oggi.

Così è nata dal fervido attivismo e dal lungimirante sguardo del Partito, la Riviera; eccezion fatta per le recessive escrescenze piccolo borghesi di Milano Marittima, di Cervia e Cesenatico Porto Canale, così è rimasta da Punta Marina a Porto Corsini, a Lido Adriano e Pinarella, Val Verde, Gatteo e Igea, con in mezzo Kabul.
Dai palazzoni delle vie interne dalle palazzine del viale, dalle pensioni cucina casalinga che è come stare a casa e dagli alberghi a tre stelle, ma che si paga come fossero due in più, si cena a buffet e si può mangiare quanto si vuole, dalle Panda, dalle Fiesta, dalle Corolla, dai vespini e dai vesponi, dalle biciclette in offerta Coop e dai risciò a noleggio, il disperso popolo del lavoro che un tempo fu l’orgoglio della Repubblica e ora è un latteo fantasma evocato senza vergogna nei comizi della sua perduta sovranità, dilaga sulla spiaggia già di buon mattino compatto e ben disposto alla sua corporeità, al passo d’oca che le infradito sulla sabbia gli impongono.
Sono i contadini della bassa, un tempo abbastanza floridi da mandare al mare la famiglia a pensione per un mese e ora si fanno andar bene anche una settimana; sono gli operai iper-qualificati della meccanica fine, dell’elettronica medicale, dell’impiantistica d’alto bordo, vanto di Romagna e tuttora salvi nell’orgoglio della loro aristocratica casta. E sono i cooperanti delle mille cooperative agricole, edili, logistiche e sociali, gli eredi degli scarriolanti di Nullo Baldini, cuore rosso di arcano socialismo avvinto nell’edera di un appena sopito insurrezionalismo mazziniano; sono le commesse part time dei centri commerciali, le operaie dell’industria di lavorazione di frutta e verdura, le impiegate della Regione che ancora non fa vergognare a lavorarci. E sono gli imprenditori nati dal lavoro, piccoli, medi e magari anche grandi industriali che solo un occhio molto esercitato e un furtivo controllo delle chiavi delle loro automobili può distinguere dai loro dipendenti, del resto loro stessi non sanno che farsene del distinguo, e si sentono appagati dell’appartamento con non propriamente suggestiva vista mare in un condominio che in lidi più attenzionati sarebbe stato messo sotto sequestro già al sorgere delle fondamenta, e nulla al mondo lì distoglierebbe dalla spiaggia dove sono cresciuti da figli di operai, dai loro amici del mare, dalla piadina di Arturo di là dalla strada, che deve aver fatto più soldi di Bezos e tant’è anche lui è ancora lì.

E il popolo sono, eccome, le Zdore, sociologicamente le casalinghe, ma propriamente padrone di casa, fieramente di casa e padrone, in particolare della cucina tradizionale, l’unica ammessa, tutte in sovrappeso, perché non è una stigmate ma un vessillo, perché tanto non moriranno di colesterolo, visto che per qualche inspiegabile capriccio evolutivo della specie romagnola, l’unico esame sempre nella norma è proprio quello. Loro e tutti i loro figli, i nipoti, i cuginetti, gli zii venuti da fuori, vanno, non tanti, ad accomodarsi sui lettini dei bagni, i più nella spiaggia libera, che occupano con stupefacenti aleatori villaggi assemblati con ombrelloni, tendaggi, asciugamani, sdraio, sedie e tronetti, incastri di borse frigo e frigobar, set per il gioco del racchettone e del beach volley, secchielli per le abluzioni salmastre, pale, palette e carriole per edificare complicati castelli nella battigia, opere opulente dove il contributo ingegneristico dello zio vecchio socio della Cooperativa Muratori e Cementieri manda in visibilio i nipoti che qui cominciano la loro carriera di manovali che un giorno saranno capomastri.

Si abbronza in fretta il popolo nella spiaggia di Kabul, e la massima parte preferisce farlo in piedi piuttosto che supino o peggio ancora prono; ed eccoli, olenti di creme da mancamento, con cautela si approcciano al mare, si spingono fin dove l’acqua lambisce le pelvi e li se ne ristanno, immobili, contemplativi, lo sguardo volto a un lontano orizzonte metafisico, per niente distolti dagli schiamazzi dei bambini straziati di piacere a far finta di affogare. Da abbastanza lontano li scambieresti per una rilassata colonia di aironi in temporanea sosta nella migrazione in un placido acquitrino. Poi, a un segreto segnale convenuto, prendono a passeggiare tutti quanti sull’acqua, solitari o in crocchio sommessamente bisbigliante, andamento maestoso, sacerdotale, lo sguardo chino casomai incappassero in una pavarazza, dialettale di poveraccia, l’arsella, la vongola minuscola, e fuori misura e fuorilegge per gli invadenti misuratori della Ue, che i più anziani e dediti alla pazienza hanno il compito di raggranellare in quantità sufficiente perché a sera ce ne sia abbastanza per una pastasciutta.
Qua e là dai bagni più evoluti saettano intorno gli ordini in schietto stile nazista degli animatori di ginnastica acquatica, fustigano la clientela col nerbo di deliranti accompagnamenti musicali, la clientela esegue annichilita, angosciata eppure sbirciante non senza speranza nella constatazione deformata dallo specchio marino delle proprie cicce in agitazione. E all’una tutto tace, il popolo si nutre; lo fa con devota sacralità, il mare consuma il corpo e purifica l’anima, e che sia una piadina con salsiccia e birretta al baretto del bagno o un piatto di cappelletti al ragù seguito da peperoni ripieni e dessert di zuppa inglese diluiti in malvasia bella fresca nei liberi accampamenti, è una celebrazione, è tutto pane guadagnato con il sudore della fronte. Forse è proprio adesso, prima che la spiaggia sprofondi nel palugo, l’assopimento più simile a un mancamento che a un pisolino, che Enrico Letta dovrebbe avere cuore di disturbare il popolo come invece si propone di evitare; chiedere permesso, magari portando qualcosa di fresco, e modestamente ascoltare di cosa si parla, di cosa si spera, di cosa si dispera, di cosa si è fatto ieri, di cosa si farà domani, di chi si è innamorato chi, di chi ha in odio chi, le chiacchiere piene di senso di chi si è appena nutrito e momentaneamente sazio si lascia andare alla placida sincerità e al libero sguardo, ben disposto alla clemenza anche per il prossimo così lontano come il segretario del partito che fu dei lavoratori.
A sera sarà poi troppo tardi, sciabattante, frusciante, arrancante sotto il peso delle carabattole da spiaggia intrise di sabbia, e sovrappensiero, il popolo se ne torna alle automobili, alle biciclette, alle pensioni e ai cubicoli sazio di quel poco che invece è così tanto per chi sa cos’è vivere, già volto al pensiero di cenare in fretta per portare i figli e i nipoti ai baracconi, che a Kabul non sono ancora Luna Park e men che meno Dream Park, visto che glielo hanno già promesso da ieri, e non pochi dovranno decidere se ce ne sarà anche per un gelatino per sé, o magari ancora una birretta.
Cala la notte a Kabul, e nessun dorma finché non avrà finito il suo lavoro la parte di popolo che inizia ora a lavorare; per le strade, agli ingressi delle pizzerie e dei bar, nei bordo piscinette degli hotel, tastieristi da piano bar, cantanti da balera con quarant’anni e più di Riviera alle spalle, giocolieri e maghi ventenni, perlopiù poco attendibili ma tutti volenterosi, che si fanno le serate a trenta, forse anche cinquanta euro per pagarsi i loro studi fuori sede, venditori di rose cingalesi, di giochini di luce ivoriani, filatori di zucchero arrivati in triciclo dalla bassa, fanno tutti quanti il loro onesto lavoro, e non hanno sindacato e non hanno partito, e sanno che a sostenerli c’è solo la dolcezza che ancora alberga qua e là in chi ha qualcosa in più di loro e non li accondiscende per pietà, ma per fraterna condivisione.
Io ci sto bene a Kabul, anche se questo mare mi pare un fraintendimento balcanico e so nuotare solo dove non tocco; e mi fa bene Kabul, mi insegna sempre qualcosa che dovrei già sapere e che quando guardo altrove mi è così facile dimenticare.
Maurizio Maggiani La Stampa
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