Pubblichiamo uno stralcio dell’articolo di Vittorio Buongiorno a commento del film A complete Unknown di Eliyah Wald, tratto dal libro Il giorno che Dylan prese la chitarra elettrica ( Vallardi 2022)
Dagli esordi al Newport Folk Festival a Woodstck e oltre. L’affresco di un’epoca e del suo alfiere che però si sentiva “un cowboy, non un pifferaio magico”
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Il menestrello vagabondo Robert Allen Zimmerman, nato a Duluth Minnesota il 24 maggio 1941, arriva a New York viaggiando clandestinamente su un treno merci e comincia a esibirsi nei locali fumosi del Greenwich Village come il Cafe Wha? il Gaslight, il Kettle of Fish, il Folk City. Nessuno sa chi sia questo ragazzo dai capelli a carciofo e la chitarra acustica a tracolla. Forse quel viaggio clandestino era addirittura una balla, la prima di tante, ma poco importa, il suo racconto sembra funzionare e le sue canzoni ancora di più. Arriva in città nel 1961 alla ricerca del suo mito Woody Guthrie
“Timmy è un attore brillante, quindi sono sicuro che sarà assolutamente credibile”, ha scritto lo stesso Dylan su X, benedicendo la sceneggiatura. Dylan va ripetutamente a trovare in ospedale il musicista quando ormai è bloccato in un letto, colpito dal morbo di Huntington: questo ragazzino appena ventenne riceve da Guthrie e Seeger il testimone ideale per continuare a suonare e cantare le canzoni folk e portare nuova legna al fuoco della protesta, che loro tenevano acceso in religioso rispetto. Ma Bobby, come si fa chiamare all’inizio, ascolta e suona anche il blues dei neri, John Lee Hooker, Jimmy Reed e l’altro suo mito Little Richards, che forgia a suon di poderosi acuti il primo rock and roll. Guthrie, poi, era famoso per l’adesivo attaccato alla chitarra this machine kills fascists, questo strumento uccide i fascisti, una frase politicamente molto netta, ma quando a Bobby chiedono che musica suoni, definisce le sue canzoni folk come canzoni che la gente si passa di mano in mano. Niente di più, niente di meno, canzoni vere, nulla di politicamente esplicito ma, forse, per questo ancor più profonde e universali. La sua carriera non è ancora cominciata ufficialmente, ma già percepisce qualcosa che non gli piace. Nella sua autobiografia Chronicles. Volume 1 (Feltrinelli, 2004) Dylan lo scrive in modo inequivocabile: “In seguito cercai di spiegare che io non pensavo di essere un cantante di protesta, che c’era stato uno sbaglio. Io non stavo protestando contro un bel niente, non più di quanto Woody Guthrie avesse protestato contro un bel niente. Non pensavo a Woody come a un cantante di protesta”.

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Nonostante ciò la miccia è innescata: una sera al Folk City la regina del folk Joan Baez intona una toccante versione di House of the Rising Sun, uno degli inni anti-war per eccellenza, che racconta della “casa chiusa” dove vivono le ragazze perdute, le prostitute di Storyville, a New Orleans. Joan e Bobby si scambiano un’occhiata fulminante. Dopo l’esibizione Pete Seeger si complimenta con lei e presenta l’artista successivo dicendo che insieme a Woody Guthrie lo ha sentito suonare e di aver capito che “poteva esserci una nuova strada. Volevamo condividere questa sensazione. Ha suonato un po’ in giro per la città, ma ho pensato che fosse giunto il momento di farlo salire sul palco di Folk City. Salutate il mio amico Bobby Dylan”….
Pete Seeger e Dylan incarnano “i due ideali che definiscono l’America”, da una parte democrazia e collaborazione, dall’altra l’individualismo. Una gran parlantina, indossa vestiti da vagabondo e ha una massa di capelli a carciofo. Fa qualche battutina mentre accorda la chitarra, in fondo è un perfetto sconosciuto, nessuno sa da dove sia arrivato né cosa stia per suonare. Joan sta per uscire dal locale, si volta e i loro due sguardi si riallacciano nuovamente un attimo prima che lui attacchi a suonare e cantare una ballata fragile e delicata come I Was Young When I Left Home: “Ero giovane quando me ne sono andato di casa, e sono stato in giro a vagabondare e non ho mai scritto una lettera a casa. Proprio l’altro giorno stavo portando a casa la paga quando ho incontrato un vecchio amico. Mi ha detto tua madre è morta e le tue sorelle si sono perse sulla cattiva strada e tuo padre ha bisogno di te a casa”.
Non sappiamo cosa sia successo veramente quella sera al Folk City, anche perché ognuno dei testimoni che ha assistito all’apparizione di Dylan ha sempre tramandato la propria versione. Ma Mangold riesce a catturare limpidamente il momento in cui tra i due giovani musicisti nasce qualcosa di più profondo di un’intesa artistica, di una condivisione di intenti, di un amore. E, soprattutto, Bobby Dylan diventa Bob Dylan, uno di loro.

“Nel quinquennio successivo”, continua Elijah Wald nel suo libro, “il rock diventa la colonna sonora della controcultura, della New Left, della contestazione giovanile, dell’allargamento della coscienza: ‘Fanculo il sistema’, ‘Accenditi, sintonizzati, abbandonati’, ‘Libera la tua mente, e il culo la seguirà’. E Bob percepisce subito questo cambio epocale”. Il suo primo disco di brani tradizionali riarrangiati, pubblicato nel marzo 1962, passa inosservato. Il secondo The Freewheelin’ Bob Dylan, Bob Dylan a ruota libera, pubblicato nel maggio del 1963, è invece un successo…..
“Cercai di spiegare che io non pensavo di essere un cantante di protesta, c’era stato uno sbaglio. Io non stavo protestando contro un bel niente”
Lo Blowin in the Wind che diventa immediatamente il simbolo della canzone di protesta riproposta in tutto il mondo da decine di altri interpreti (in Italia la traduce Mogol per Tenco).
Bob incontra la pittrice Suze Rotolo, che viene da una famiglia italoamericana di attivisti iscritti al Partito comunista, che si innamora follemente di lui e lo inizia alla pittura e soprattutto alla poesia di Rimbaud. Nel film, su richiesta di Dylan stesso, il personaggio della fidanzata viene cambiato in Sylvie Russo (la Rotolo, immortalata nella copertina del suo secondo disco, è scomparsa nel 2011) ed è anche lei che indirizza il fidanzato ai temi dell’uguaglianza e della libertà. Ma il successo e i fan scatenati che cominciano a perseguitarlo diventa sempre più opprimente, e Bob comincia a sentirsi in una trappola: si fa sempre più elusivo e misterioso, il che lo rende ovviamente ancora più affascinante, soprattutto con le donne.
A un certo punto del film Acomplete Unknown c’è una scena chiave in cui Dylan va al Mcann’s a sentire una giovane band che suona una musica nuova e rumorosa. Una donna lo riconosce, urla e lo indica a tutti. Lui cerca l’uscita ma si prende un pugno in faccia, prima di riuscire a scappare. Sono le quattro di mattina e piomba a casa di Sylvie, da cui si è separato, lei ha un nuovo fidanzato che dorme nell’altra stanza. “Tutti mi chiedono da dove vengono le canzoni, Sylvie”, le dice Bob a pezzi, “ma se guardi le loro facce, non si chiedono da dove vengono le canzoni. Si chiedono perché non sono venute in mente a loro”.
E’ un momento di grande confusione ed eccitazione insieme, la musica è diventata la colonna sonora del Movimento, la struttura portante delle manifestazioni e delle marce pacifiste. Il 28 agosto 1963 a Washington Martin Luther King pronuncia lo storico discorso I have a dream davanti a 250 mila giovani che marciano per il lavoro, l’uguaglianza e la libertà. Nel film non si vede ma Joan e Bob partecipano cantando lei We Shall Overcome, noi ce la faremo, un vecchissimo gospel di inizio ‘900, e lui When the Ship Comes In, una ballata che mescola Bertolt Brecht e Kurt Weill e il vangelo di Matteo, con una nave che arriverà a riparare i torti del mondo. All’altro gruppo in ascesa, Peter Paul and Mary, il compito di cantare Blowin’ In The Wind. E’ la consacrazione definitiva, ma Bob è sempre più contrariato. Nella sua autobiografia lo scrive inequivocabilmente: “Il mio destino percorreva la sua strada, qualunque cosa la vita gli portasse, e non aveva niente a che fare con l’essere il simbolo di una qualche forma di civiltà. Restare fedeli a se stessi era l’unico imperativo. Io ero un cowboy, non un pifferaio magico”.
Nonostante abbia inciso solo due album, non sopporta i 45 giri vuoti che le case discografiche stampano solo per scalare le classifiche. Lui si veste come James Dean in Gioventù bruciata e va in giro su una moto Triumph come quella cavalcata da Marlon Brando ne gio, il ribelle che rifiuta la società perché è l’unica cosa che può fare.
Nel bellissimo saggio Quante strade (Arcana, 2013) il critico Alberto Crespi intervista, tra gli altri, Francesco De Gregori, il più dylaniano e dylaniato musicista italiano, che racconta l’autentico choc di quando suo fratello maggiore gli fece ascoltare The Freewheelin’bob Dylan: “Tutto un mondo cambiò. Le mie orecchie da adolescente furono sconvolte da un sistema vocale completamente diverso, e soprattutto da tutt’altra credibilità. Lui era un cantante, Peter Paul and Mary erano degli interpreti. Dal suono e dalla voce derivano la sua concretezza, quella che io definisco la sua plausibilità. Ascoltando Dylan senti che è vero, autentico, solido”.
“Su venite, signori della guerra, dico a voi che create le armi, voi che fate aeroplani di morte, voi che fate le bombe giganti, voi che state nascosti dai muri, o nascosti dai vostri scrittoi, una cosa dovete sapere, che con me la vostra maschera non serve”, canta Bob in Masters of War, ma già un paio di canzoni dopo, nello stesso disco, intona qualcosa di profondamente diverso, e dolce….
Su richiesta di Dylan, il personaggio della fidanzata Suze Rotolo viene cambiato in Sylvie Russo ( lei immortalata sulla copertina del disco)..”nella nebbia, ho trascinato i miei passi sui tornanti di sei autostrade, mi sono calato nel fitto di sette foreste desolate, mi sono fermato sulla riva di una dozzina di oceani morti, mi sono inoltrato per diecimila miglia nella foce di un cimitero, ed è un’ardua, ardua, ardua pioggia quella che cadrà”.
La struggente A Hard Rain’s A-gonna Fall non è altro che una poesia sulla fine del tempo che, come scrive il critico Alessandro Carrera, traduttore sapiente di tutte le canzoni di Dylan, cita Cummings, il Battello Ebbro di Rimbaud, l’urlo di Allen Ginsberg, Edgar Allan Poe e i Fiori del Male di Baudelaire. “Generalmente associata con la crisi di Cuba (seconda metà dell’ottobre 1962) e con il timore della guerra nucleare, la canzone era già stata terminata prima dello scoppio della crisi”, annota Carrera nel primo monumentale libro di testi tradotti (Feltrinelli, 2006), e Bob sta già viaggiando su strade sconosciute a chiunque. Dopo la prima esibizione a Newport del 1963, e dopo aver dato alle stampe due capolavori come Bringing It All Back Home (marzo ‘65) e Highway 61 Revisited (agosto ‘65), viene invitato dal suo padre putativo Pete Seeger nuovamente al Newport Folkfestival. Ma oltre alla chitarra acustica Bob porta con sé una band di scalmanati e soprattutto una Fender Stratocaster elettrica. E succede il finimondo, come raccontato bene nel film.

Sono tante le versioni tramandate su cosa successe veramente quella sera, ma Elijah Wald è sicuro che quella svolta elettrica abbia segnato la nascita del rock come voce di una generazione. C’è chi dice che la vecchia guardia come Seeger o Alan Lomax furono scioccati nel vedere la chitarra elettrica, c’è chi sostiene invece che fosse solo il volume distorto a fare saltare i nervi agli organizzatori. C’è chi dice che lo stesso Seeger cercasse un’ascia per tranciare i cavi dell’amplificazione e chi, invece, sostiene che volesse unicamente abbassare il volume. Il vecchio musicista probabilmente criticava la qualità del suono, non quella della musica, ma aveva sempre ritenuto la musica pop come un “narcotico, l’oppio che distoglieva il pubblico dai problemi del mondo reale, e il rock faceva parte dello stesso pubblico”.
Il film di Mangold si ferma subito dopo il fantomatico concerto elettrico del 1965, ed è un finale coi fiocchi: il giovane Chalamet/dylan scompare nella notte a bordo della sua Triumph e lo ritroviamo in ospedale da Woody Guthrie. E’ un cerchio che si chiude. Bob vuole ripagare il suo debito di riconoscenza verso il suo Mito da cui, in fondo, ha imparato a essere un ribelle. Sui titoli di coda del film altri applausi e altre lacrime. Anche se è solo un film.
Ma ciò che accade da quel momento al vero Dylan e alla sua famiglia, trasferitisi nella campagna vicino Woodstock a nord dello stato di New York, è davvero impressionante: scocciatori e sbandati di tutti i tipi cominciano a entrargli in casa giorno e notte in cerca di cibo ma soprattutto in cerca del Principe della Protesta, e la vita di Dylan diventa un inferno: “Il mondo della musica folk era stato comeunparadiso che dovevo lasciare, così come Adamo aveva dovuto lasciare il giardino. Era troppo perfetto. Di lì a pochi anni una vera e propria bufera di merda si sarebbe scatenata. Tutto avrebbe cominciato a bruciare, reggiseni, cartoline precetto, bandiere americane, e anche i ponti alle spalle. Tutti a sognare un’eccitazione senza fine”, scrive lui nella autobiografia vedendo evidentemente il futuro, “la psiche dell’intera nazione stava per cambiare e in molti modi sarebbe stata simile alla notte dei morti viventi. La strada si stava facendo pericolosa e io non sapevo dove portava, ma la seguii ugualmente. Laggiù, più avanti, uno strano mondo stava per svelarsi, un mondo tuonante, dagli spigoli taglienti come fulmini. Molti non lo capirono e non l’avrebbero mai capito. Io ci entrai senza esitare. Stava lì spalancato. Una cosa era sicura, non solo non era retto da Dio, ma non era retto nemmeno dal diavolo”.
Dylan cerca dunque di scomparire, scrive testi sempre più indecifrabili e a volte urla le sue canzoni per sovrastare il suono della band che lo accompagna. E quando non ce la fa più il fato ci mette lo zampino. Il 29 luglio 1966, in sella alla Triumph ha un incidente: forse un guasto, o forse un colpo di sonno, o una semplice distrazione, e finisce a terra. Immediatamente il mito prende il sopravvento e cominciano a circolare le ricostruzioni più fantasiose: era drogato, o voleva addirittura suicidarsi. Ufficialmente lui dirà di essersi rotto alcune vertebre del collo ma non risulta in nessun ospedale della zona. Qualcuno dice che durante la convalescenza si disintossica dall’eroina, senza avere ovviamente nessuna prova. “La verità era che volevo uscire da quella corsa dissennata”, scrive anni dopo nelle sue memorie, liquidando l’evento che per i fan è il mistero dei misteri, una sorta di resurrezione sul Golgota, con poche righe: “A parte la mia famiglia non c’era niente che fosse di reale interesse per me, e vedevo le cose attraverso occhiali differenti. Anche le orribili notizie della cronaca, l’assassinio dei Kennedy, di Martin Luther King, di Malcolm X… Non li vedevo come figure di rilievo che erano state assassinate, ma come padri le cui famiglie erano state colpite”.
Tre anni dopo, dal 15 al 17 agosto 1969, non troppo lontano da casa sua, si celebrano i tre giorni di pace, amore e musica al festival di Woodstock, ma Bob ovviamente non partecipa. Sul palco si avvicendano alcune delle star più importanti a livello internazionale davanti a un pubblico di circa 500.000 figli dei fiori, intenti a celebrare gli ideali di fratellanza e pacifismo strafatti di canne, anfetamine e Lsd (qualcuno, anche stavolta, sostiene che fosse stata la Cia a far entrare un mare di droga per distruggere il movimento dall’interno, ma chissà). L’evento, passato alla storia come mitologico anche per chi non c’era, ha rappresentato davvero un importante momento di consapevolezza dell’intera generazione che ha cantato a squarciagola la Freedom di un Richie Havens in trance, le Shall Be Released e We Shall Overcome di Joan Baez al sesto mese di gravidanza, l’urlo black liberatorio di Sly & The Family Stone, l’inno generazionale degli Who e della loro My Generation. A rendere l’evento inequivocabilmente una faccenda politica ci pensa poi Jimi Hendrix che sale sul palco alle nove del mattino dell’ultimo giorno, causa il ritardo della notte prima: verso la fine del suo lunghissimo e fiammeggiante set sciocca tutti con un’improvvisa esecuzione dell’inno nazionale americano The StarSpangled Banner suonato con la sua Fender Stratocaster bianca e il distorsore al massimo per mimare le bombe che cadevano in Vietnam. E’ l’apoteosi, è proprio la presa di coscienza di cui aveva cantato il Menestrello di Duluth, quella di chi non può che schierarsi contro i signori della guerra.
Ma Dylan, pochi mesi prima di Woodstock, spiazza tutti ancora una volta: nell’aprile dello stesso anno esce il suo nono album Nashville Skyline, dove duetta con Johnny Cash e trasforma la sua musica in ballate country per cui i fan della prima ora lo accusano di ennesimo tradimento. Ma Bob è Bob, se stesso, uno dei suoi tanti sé, e il disco è, ovviamente, formidabile. Torna addirittura a vivere nel Village a New York ma viene perseguitato dall’attivista Alan Jules Weberman, che fonda il Dylan Liberation Front con l’obiettivo di “aiutare a salvare Bob Dylan da se stesso”: rovistando nei bidoni della spazzatura sotto casa del musicista alla ricerca di indizi, pizzini segreti e documenti privati, Weberman voleva dimostrare i riferimenti all’eroina nelle sue canzoni, e costringerlo a non ignorare le sue responsabilità di portavoce politico della controcultura. Follia.
Elijah Wald descrive nel suo libro questo passaggio epocale: “Durante il periodo generalmente ricordato come ‘gli anni Sessanta’, l’epoca del Vietnam, delle contestazioni universitarie, della ‘Summer of Love’, degli hippie, della droga e dei Weathermen, Dylan fu davvero uno Zeitgeist, il fantasma di una vittima sacrificale che aveva sfidato gli anziani nel tempio del folk, era stata fustigata e condannata a trascinare la sua croce elettrica sul Golgota durante un tour di un anno (i fan di Manchester che gli avevano dato del Giuda avevano frainteso la situazione), e si era finalmente immolata perché il rock fosse redento”.
In una rarissima intervista del 2004 al programma 60 Minutes, Dylan racconta con un po’ di imbarazzo la vera storia di Blowin’ in the Wind, scritta in dieci minuti, venuta semplicemente da una sorgente magica di creatività, e afferma di non sapere più come fare a scrivere così: “L’ho fatto una volta, e ora posso fare altre cose, ma non più quella”. E quando il giornalista Ed Bradley gli chiede perché è ancora qui lui risponde di aver fatto un patto molto tempo fa. “Posso chiederti con chi?”, ribatte Bradley. “Con il Capo, sai, con il Capo comandante di questa Terra e del mondo che non possiamo vedere”, risponde Bob senza riuscire a trattenere un sorrisetto mefistofelico.
“Adesso non parli più con quel tuo tono, adesso non sei più tanto spocchiosa di doverti rimediare qualcosa da mangiare. Che effetto fa, senza un posto dove stare, come una perfetta sconosciuta, come un sasso che rotola via?”, canta in Like a Rolling Stone, la canzone rock più rivoluzionaria e importante di questo mondo e degli altri possibili. Non potremmo dunque accontentarci solo della sua bella musica?
Articolo di Vittorio Buongiorno per Il Foglio Quotidiano