LA MEDICINA DELL’IMMORTALITA’

23 Lug 2020 | 0 commenti

La medicina per anni ha promesso immortalità, proibito la sofferenza. E oggi la morte è oscena, inguardabile proprio quando è ovunque. E’ il tempo della decrescita sanitaria?

Rileggere la Nemesi medica di Ivan Illich, dando un’occhiata a Tolstoj e anche a Philip Roth di Everyman.

…. Ivan Illich scrive: “La corporazione medica è diventata una grande minaccia per la salute”. La medicina causa malattie e un consumismo che “inventa” malattie come l’industria inventa bisogni, trasformando i malati in rapaci e incapaci consumatori di salute. La brama di salute individuale poi, non coincide con la salute collettiva. Per Illich la nemesi/iatrogenesi è di tre tipi: clinica, sociale e culturale. La iatrogenesi clinica incombe in ogni gesto medico: complicanze di interventi, effetti collaterali di farmaci, infezioni ospedaliere. Un tema più che doloroso oggi: molti contagi della Covid sono occorsi in luoghi di cura (sale d’attesa, camere, operatori sanitari e visitatori infetti).

Ivan Illich

La iatrogenesi sociale, deriva dall’industrializzazione degli ospedali che vendono il prodotto salute. Se le aziende guarissero i pazienti, fallirebbero. Il malato è succube, è paziente perché deve aspettare la clemenza dell’oligarchia medica. Ivan Illich parla di imperialismo diagnostico, un regime pervasivo che detiene un codice esclusivo, perché la diagnosi, anche solo le parole che si usano per comunicarla, cambiano il destino. A questa deriva Illich contrappone la decrescita sanitaria: “La società che riduce l’intervento professionale offre la migliore salute”. Ma cos’è la salute?

L’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1948 la definiva “stato di benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”, una definizione che l’Ivan filosofo contesta perché si presta all’ipermedicalizzazione e all’abuso di risorse. L’Oms nel 2011 ha aggiornato la formula in “la capacità di adattamento e di autogestirsi nelle sfide sociali, fisiche ed emotive”. Questa sarebbe piaciuta di più Illich perché intende un malato dinamico, in grado di attingere a risorse individuali e sostenibili anche in malattie croniche e inguaribili. Infatti, l’Ivan malato vede la luce e prova gioia, l’unico momento di salute secondo la definizione Oms, proprio mentre muore e per il contatto della mano del figlio: in quel momento, un’equipe medica piovuta in casa con un drone non avrebbe potuto farlo sentire più sano. Il risparmio medico oggi si chiama e il suo slogan è Secondo Illich le cure, diverse dalla guarigione a tutti i costi (inguaribile e incurabile non sono sinonimi), devono essere alla portata di persone non specializzate e a basso costo. Proprio quello che accade a Ivan Ilic: essere (non guarito) non da un medico ma da un servo analfabeta capace di empatia.

La iatrogenesi culturale riguarda dolore, fine vita e fede. Per Ivan Illich la medicina, spacciando immortalità, inibisce la capacità di soffrire. Illich applica la stessa visione edificante del dolore alla morte, verso la quale saremmo impreparati. I nostri avi ballavano sulle tombe dei cimiteri e delle chiese. Si ballava con gli scheletri anche nelle danze macabre, l’incontro tra il popolo e l’elite, la livella di Totò. In un noto morality play (teatro allegorico dell’Inghilterra del XV secolo), “Everyman”, l’uomo viene visitato dalla morte; offrirà denaro invano e quando sarà davanti a Dio, tra le tante virtù gli resteranno solo le Buone Azioni. Oggi la morte è oscena, inguardabile proprio quando è ovunque, sempre mediata da uno schermo. Abbondano i neonatologi che tengono vita chiunque pesi almeno tre etti e che sarà probabilmente figlio unico, e anche per questo non deve morire: se accadrà sarà colpa di una complicanza medica. Mancano i tanatologi che de-tengono in vita. Per Illich, l’uomo moderno viene espropriato della libertà di morire mentre “nessuno senza il consenso, dovrebbe essere ricoverato o molestato in nome della salute”. Illich come Basaglia, ospedali e manicomi, deospedalizzazione come antipsichiatria. Infatti, fragilità e individualità consapevoli rendono la malattia e la morte parte integrante della vita soggettiva. La medicina può irrompere in questo santuario con la brutalità di un elettroshock.

Ivan Illich muore il 2 dicembre 2002 di tumore, come Ivan Ilic. Un male vissuto con coerenza: un deturpante cancro del viso lo ha consumato senza che lui si facesse operare, ricorrendo solo ogni tanto all’oppio.

Se si parla di nemesi, morte e non possiamo aggirare uno scrittore prolifico quanto Tolstoj e al pari di lui interessato alle passioni e alla morte. Uno che all’età in cui Ivan Ilic si ammala scopre di aver ereditato i geni della coronaropatia che lo porterà a 56 anni a un quintuplo bypass coronarico e poi all’impianto di 16 stent coronarici, per morire il 22 maggio del 2018 a 85 anni. Lo scompenso cardiaco è come un tumore che prima o poi prende tutto, polmoni e reni per primi. Medici fanatici hanno permesso a Roth una lunga vita, ma il 20 maggio 2018, in una stanza del Presbyterian Hospital di New York, lo scrittore ha chiesto che sulle sue arterie metallizzate non ci si accanisse più. Due giorni dopo è morto. Proprio “Nemesi”, dopo il “Teatro di Sabbath”, “Pastorale Americana”, “La macchia umana”, “Everyman”, ha chiuso un ciclo reso possibile dalla protervia della medicina cardiovascolare, che quindi non è stata per l’uomo Roth la Nemesi Medica paventata da Illich.

La Nemesi, titolo e destino, tocca invece a un giovane istruttore d’atletica. Siamo a Newark nell’estate del ’44, Eugene Cantor vorrebbe partire per la guerra ma un difetto alla vista verso il quale la medicina è impotente glielo impedisce. Intanto, un’epidemia di poliomielite investe gli Stati Uniti. Cantor segue la fidanzata in un campo estivo dove scoprirà di aver contagiato diversi ragazzi: è l’untore. Lascerà la fidanzata e si isolerà. Per lui la nemesi sarà la rinuncia a qualsiasi legame.

Philip Roth

Roth conosceva gli errori diagnostici e l’abuso di tecnologie mediche, descritte in “Patrimonio”, la “storia vera” della sua esperienza di figlio accanto al padre morente di cancro. Se “Nemesi Medica” di Ivan Illich sembra ispirato a “La morte di Ivan Ilic” di Tolstoj, il romanzo più biografico di Roth sembra ispirato dal saggio di Illich. Dalle pagine emerge la medicina pervasiva, la sua pressione paternalistica, la burocrazia che rende l’individuo un fenomeno di assistenza sanitaria e arroganza medica. Non si muore più come una volta. Herman Roth morirà un mercoledì dell’ottobre 1989 a 88 anni. Il doppio degli anni in cui è morto Ivan Ilic, grazie alla nemesi medica, e anche lui come il giudice, toccando per ultima la mano del figlio, il figomane onanista capace di scrivere “Il lamento di Portnoy”.

In “Everyman” Roth parla di un uomo qualunque, di sé. E’ un racconto lungo più o meno quanto “La morte di Ivan Ilic”, ma il protagonista è senza nome. Everyman non viene visitato dalla morte, ma dalle malattie e dai medici. Gli verranno messi stent ovunque e un defibrillatore cardiaco. “Nulla si fa senza rischio, nulla, nulla… nulla che non si ritorca contro, nemmeno dipingere stupidi quadri”, dice Everyman: è quello che pensa anche la signora Dalloway un mercoledì di giugno “è pericoloso vivere anche un giorno soltanto”. Everyman proverà la “rabbia e la disperazione di un triste malato incapace di evitare la trappola più micidiale della lunga malattia, il peggioramento del carattere”, la stessa rabbia che cambia Ivan Ilic. Il corpo malato prende tutto. Roth sale sull’albero genealogico per ballare coi suoi morti e parlerà col becchino che si dovrà occupare delle sue ossa. Si ricovera, un mercoledì, per mettere uno stent alla carotide destra (a sinistra l’aveva già). L’anestesista mascherato gli chiede se vuole l’anestesia locale o generale. Lui sceglie quella generale. E mentre il suo corpo, la macchina desiderante, sogna, non si sveglia più. Entra nel nulla per un arresto cardiaco, complicanza dell’anestesia generale che aveva scelto. Una volta si credeva in Dio morendo di stenti, adesso si muore di stent credendo nella cardiologia.

Cosa c’entrano le coronarie di Roth col coronavirus? Everyman muore solo e l’ultima persona che vede è un anestesista mascherato: un fato sinistro e familiare in questi giorni. Philip Roth oggi avrebbe 87 anni e sarebbe il fragile cardiopatico che vede coetanei e no morire come insetti boemi tra Manhattan e Bergamo. La pandemia ci ha reso tutti in un modo che neanche Philip K. Dick o un James G. Ballard potevano prevedere.

Certo Defoe, Manzoni e Camus avevano parlato di peste ma per la prima volta abbiamo vissuto tutti, globali e connessi, una guerra dove il nemico ci ammazza senza un foro di ingresso e ci priva anche di una via d’ uscita dignitosa. Ci è stato detto che l’esito sarebbe dipeso da noi, soldati semplici acquattati e poi dalle difese della politica (in fondo la politica è medicina su larga scala), da quelle immunitarie e infine, da una buona dose di culo, quell’essere al posto giusto al momento giusto che per qualcuno pertiene al darwinismo e all’eugenetica. La politica si è occupata del nostro corpo, come fa da sempre, ma ora si è trattato di un esperimento di biopolitica planetario e sincrono. Le statistiche sanitarie, serotine come la febbre, e le ordinanze governative, sono i simboli di una rivoluzione: suonavano come la sirena antiaerea che annunciava “Pippo” e faceva rintanare ancora di più.

Questo tempo di Covid-19 è stato un esperimento di slow medicine: per malattie non- Covid 19 gli ambulatori erano chiusi, le sale operatorie aperte solo a urgenze e pazienti di ogni tipo son rimasti a casa anche con sintomi gravi, temendo il contagio. Infarti e ictus sono stati trattati tardivamente o mai, vaccinazioni e screening oncologici sono saltati. Con calma si dovrà studiare l’ impatto su mortalità e morbidità di tanta forzata astensione sanitaria. Si pensi che per sostenere la politica, la scienza. Per un filo di RNA siamo tutti inconsapevolmente diventati epistemologi, e ora, uccidendo il Minotauro comportandoci da pecore, usciamo dall’asfittico labirinto vile attaccati a un filo d’aria. Una lezione di empatia e Medicina Narrativa impensabile due mesi fa, specie per coloro che non si sognavano nemmeno di convincere un medico su dieci a leggere “La morte di Ivan Ilic”…..

La didattica a distanza hanno fatto rimpiangere fabbriche e scuole. Anche i ragazzi di Don Milani, quelli della “Lettera a una professoressa” non rigettavano la scuola tout court, volevano migliorarla perché non fosse “un ospedale che cura i sani e respinge i malati”. Gli istituti non saranno il manicomio paventato da Illich, se verranno aggiornati al tempo digitale: il nostro corpo, gli strati dell’io e dell’inconscio collettivo non sono solo forgiati dalle istituzioni, ma dalle tecnologie mediche, dalla biopolitica e dalla sorveglianza digitale. La salute non dipenderà dai muri, né dalle isole, ma da una scienza sovrana senza ismi, una consapevolezza che abbracci l’intera vita animale e vegetale del pianeta.

La mascherina serve. Ci fa tenere la bocca chiusa e con gli elastici ci apre bene le orecchie. Sopra la mascherina ci saranno occhi nuovi. Attivi e creativi come prismi e non passivi come specchi, che infatti Borges temeva più della Cecità, per Saramago la più contagiosa delle pandemie. In Africa dicono “se vuoi andare forte vai da solo, se vuoi arrivare lontano vai in compagnia”. Anche un uomo fermo può seminare i geni dell’uomo nuovo.Il Foglio Quotidiano

Sintesi dell’articolo apparso su http://www.ilfoglio.it del 16 maggio 2020  

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