Ricordo che quel giorno dovevano chiamare un’altra Chiara, non me, e quella coincidenza mi ha stravolto la vita. Era il novembre 2019 e la presidente dell’associazione “Rete delle mamme matte” di Firenze mi ha chiesto se volevo dedicare del tempo come volontaria a un bimbo di un anno e mezzo ricoverato all’ospedale Meyer da quando era nato.

Chiara Fossombroni
Chiara Fossombroni

Così ho conosciuto Kaif, sono cresciuta e cambiata con lui, a marzo 2020 sono diventata la sua mamma affidataria e non l’ho più lasciato, gli ho tenuto la mano fino all’ultimo, fino a domenica, quando la malattia a quattro anni lo ha portato via. Kaif aveva una sindrome rara e un’immunodeficienza combinata, una prognosi senza scampo anche se, lo confesso, ho sperato non che guarisse completamente, ma almeno che potesse diventare un po’ più grande. La sua famiglia dopo i primi otto, nove mesi ha iniziato ad andare in ospedale solo una o due volte la settimana, quindi Kaif era sempre solo su un lettino a guardare il soffitto e il Meyer ha dovuto chiamare i volontari prima della Croce Rossa e poi di altre associazioni affinché se ne prendessero cura. Lo ricordo, il primo incontro: uno scricciolo in questo lettino, con gli occhioni grandi, espressivi, che istintivamente mi si è stretto al collo, ha cominciato ad aggrapparsi, a ballonzolare in una maniera che, ho capito dopo, era il segno del suo amore per la musica. I primi due anni è sempre rimasto in ospedale e io ho cominciato a dormire con lui. Come fai, mi chiedevano, a stare così tanto tempo in ospedale? Bisogna trovarcisi, rispondevo. Non vedevo la malattia, era parte della vita quotidiana, di un amore talmente grande da esserne consapevoli senza sentirne il peso. Nessuno credeva sarebbe arrivato ai quattro anni, ogni volta che andavamo in ospedale per un ricovero era sul filo, i medici sono sempre stati molto cauti ma io ho scelto di stare al suo fianco facendo con lui tutto quello che ai bambini piace fare, forse anche cose che un medico non avrebbe consigliato: l’ho portato a toccare l’erba per la prima volta, in montagna, al mare, a vedere gli animali, tutto ciò che è giusto i bambini possano vivere. Perché la vita non può essere solo stare su un lettino a guardare il soffitto. E così ha vissuto accanto al cane, che lo ha spinto a camminare e lui poco per volta, grazie a tanta fisioterapia, aveva quasi imparato.

Diceva mamma, nonna, pappa, seguiva con me i consigli in streaming, aveva fatto passi da gigante. E amava la musica, la chitarra, il pianoforte. Qui in ospedale i dottori mi chiamavano “uccel di bosco” perché lo portavo sempre fuori e lui era felice, felice con poco in un ambiente che ha saputo stargli vicino, gli infermieri, gli educatori della ludoteca che era il suo paradiso, Stefano del bar che aveva sempre un sorriso per lui, il primario Massimo Resti, gli operatori della pet therapy e della sicurezza, Kaif sorrideva e mandava baci a tutti. Ed è stato un piccolo miracolo dopo l’altro, perché ci dev’essere una motivazione a vivere, che è l’amore delle persone. Questo ho fatto, gli ho dato amore e lui ha vissuto, diventando curioso, intelligente, arguto. Ora è libero da tutti quegli aghi, dalle terapie, dalle costrizioni, ho cercato di fargli fare una vita il più possibile normale e lui me l’ha cambiata, stravolta. Forse senza conoscerlo non me la sarei sentita: bisogna conoscere questi bambini e una volta incontrati l’affido viene naturale, si entra in connessione con loro. Altrimenti, davanti all’indefinito, il rischio è che le persone si spaventino. A me, consigliera di quartiere a Firenze, impegnata politicamente, piena di interessi, ha cambiato la vita: nella sofferenza così grande della sua condizione, che per lui era la normalità, mi ha insegnato a ridimensionare tutto, a non temere più la morte, a non temere tante cose. E l’esperienza dell’affido per me che non ho potuto avere figli ha insegnato che il fattore biologico è una cosa in più, ma essere genitori vuol dire stare accanto, proteggere, accudire, una storia che ho voluto raccontare in un libro. Un’amica dice che la vita ha senso solo se doni, e quello che doni ti torna indietro. Io ho ricevuto da lui più di quello che ho dato. Fino al primo maggio, quando ci ha lasciati, sono sempre stata con lui. Tre giorni fa era lì, sull’altalena. Me lo aspettavo, ma continuavo a sperare. Così gli ho stretto la mano fino all’ultimo, gli ho detto non ti lascio, e glielo dico ancora. Tanto lui è dentro di me.

Testo raccolto da Elisabetta Fagnola per La Stampa