Anche i prof. vanno in pensione. E il magone sale, perché nonostante tutto non c’è niente di meglio al mondo delle mattinate in classe. Le lezioni scapigliate, gli istituti di periferia, la lotta con le scartoffie. Il racconto di un insegnante in Vespa, con qualche idea per la scuola che verrà
La vita fugge, et non s’arresta una hora”, scriveva Petrarca in un suo sonetto, sintetizzando in un solo endecasillabo infinite riflessioni sulla fugacità del tempo, e anche su come noi esseri umani troppo spesso sciupiamo i nostri contatissimi giorni. “Mi sembra ieri che…”, sospiriamo, e per un attimo ci rivediamo ragazzi, sospinti dal vento della vita, incerti, speranzosi, confusamente protagonisti di una storia ancora tutta da scrivere. E io mi rivedo in Vespa nel 1980, diretto verso una piccola scuola privata sui colli romani, tra Grottaferrata e Frascati. Avevo ventitré anni e cantando andavo verso una ipotetica assunzione come professore di Italiano e Storia in quell’istituto agrario di cui non sapevo ancora niente. Mi ero laureato pochi mesi prima, con una tesi sulla poesia degli anni Settanta, poi ero andato a Parigi con la mia bella fidanzatina, avevo girato in autostop insieme a lei la Normandia e la Bretagna e al ritorno a Roma mi ero detto: “Adesso devo trovare un lavoro vero”.

Avevo battuto a macchina una pagina di curriculum che conteneva poco o niente, avevo fatto dieci fotocopie e le avevo imbustate e spedite a scuole private e parificate di Roma e dintorni. Dopo pochissimi giorni mi era arrivata la telefonata del gestore della scuola ai Castelli, appena aperta, che cercava insegnanti di tutte le materie. Altri tempi, in cui il lavoro non era ancora un problema terrificante. E così ora volavo incosciente e ottimista verso quel primo colloquio. La scuola era una villetta persa in una stradina laterale, e il gestore era un tipo davvero strano, da poco rientrato dal Sud America e pieno di belle speranze e di spirito d’avventura: nel cortile, in una grande gabbia, girava in tondo un lupo siberiano, e dentro alla scuola c’erano acquari con pesci esotici e piraña, e uccellini coloratissimi che svolazzavano liberi nei corridoi. Non cercai nemmeno di fare bella figura, di vendere chissà quale merce intellettuale, dissi solo che ero pronto a lavorare anche dal giorno dopo: sprizzavo energia, avevo i capelli lunghi e una incomprensibile fiducia nelle mie possibilità.

Gli anni Settanta, anche se di piombo, erano volati via anche loro. Avevo fatto il liceo tra i fascisti del Circeo, affrontando momenti abbastanza duri, e poi, per una assurda serie di circostanze, mi ero ritrovato in via delle Botteghe oscure quando era stato trovato il cadavere di Moro, e su Ponte Garibaldi quando era stata uccisa Giorgiana Masi, e proprio sotto casa mia avevo visto la macchina crivellata di colpi del giudice Occorsio. La sera andavo spesso al cineclub L’officina, e dopo aver visto mille film formalmente spericolati, intellettualmente arditi e complessi, ero rimasto incantato davanti a un piccolo film di un giovane regista tedesco, Wim Wenders. Il film era “Alice nelle città” e raccontava lo smarrimento di un uomo che vagava per la Germania insieme a una bambina. C’era qualcosa di romantico in quello stupore e in quel vagabondaggio privo di pensieri, e io ebbi l’impressione che fosse un punto di svolta nella mia vita e anche nella cultura del tempo. Come quell’uomo anche io non capivo quasi nulla di tutto quello che accadeva, e come lui sentivo che comunque dovevo prendermi cura di una fragilità, di un’innocenza, di altre vite piccole e indifese. Chissà, forse fu proprio uscendo da quella saletta fumosa che decisi – ma decidere non è il verbo giusto, non si decide mai niente, semplicemente ci si ritrova sulla propria strada – di scrivere un romanzo e anche di provare a essere davvero un insegnante di scuola.

Frequentavo un ispirato gruppo di poeti, Claudio Damiani, Arnaldo Colasanti, Paolo Del Colle, e naturalmente Edoardo Albinati, con cui avevo passato tutti gli anni delle medie, del liceo e dell’università. Anche loro si sentivano ormai lontani dalla bufera ideologica degli anni Settanta, da quei linguaggi così astratti e rigidi, e cercavano una nuova naturalezza, una lingua più semplice ed espressiva. Per questo avevamo inventato una piccola rivista, “Braci”, poverissima per necessità e volontà, quasi francescana nella sua nudità. E poi tutti quei poeti, che strano, sono diventati come me insegnanti in scuole di frontiera, periferia o carcere.
Tante volte i miei familiari mi hanno detto: “Marco, perché non fai domanda per insegnare in qualche liceo del centro, al Visconti, al Tasso, al Giulio Cesare, sicuramente lì potresti avere più soddisfazioni, troveresti studenti più attenti e preparati…”. Potrei rispondere che la mia è stata una scelta politica, esistenziale, pedagogica, imbastire qualche nobile discorso sugli ultimi, sui diseredati che più di tutti gli altri hanno bisogno di attenzione e dedizione, ma forse direi solo bugie. Ho insegnato sempre in scuole marginali perché non mi sentivo all’altezza delle scuole eccellenti, mi sarei sentito sempre a disagio, forse non abbastanza preparato e capace. Se ho passato quarant’anni in periferia, tra ragazzi spesso somarissimi e poco motivati, umanamente smarriti, figli di un dio minore e di famiglie sbandate, è perché la mia parte più autentica e sincera si è ritrovata a casa in quei contesti: diversa ma simile, forse più consapevole ma ugualmente sbalestrata, come se la vita vera degli esseri umani fosse quella, fosse lì, e il resto fossero solo illusioni o addirittura presunzioni.
In fondo ho le stesse impressioni riguardo alla letteratura, mi sembra che l’idea di successo non possa coniugarsi con tutta la pena e la gioia che nascono dalla ricerca delle parole più chiare e profonde. Chi scrive lo fa perché si sente un mezzo disadattato, uno che cerca disperatamente di dare un senso alle cose frugando nella spazzatura e sperando di trovarci una perla: tutto questo è mille miglia lontano dai fasti dei premi più celebri, dalle interviste soddisfatte e dal denaro che sgorga dalle classifiche di vendita. Si scrive e si insegna perché si sa pochissimo, ma quel pochissimo è tutto ciò che ci permette di entrare in comunicazione con altre esistenze incerte come la nostra.
E così, tornando al mio percorso di professore, ho passato quattro cinque anni nella scuoletta sui colli Albani, ogni mattina, sole vento o pioggia, partivo da Roma in Vespa e mi sentivo dentro un viaggio pieno di sorprese, proiettato verso trenta adolescenti che in realtà mi aspettavano senza troppo entusiasmo. Mi vedevano troppo giovane, pochi anni più dei loro, e in qualche modo sospettavano che io avessi tradito la giovinezza per passare al nemico: la cultura dei vecchi brutti e noiosi. Ho capito subito che il Mostruoso Problema era proprio questo: convincere i ragazzi che la cosiddetta cultura non è ferro arrugginito, marmo morto, fatica, tedio infinito, roba ideata da pesantissime persone scomparse milioni di anni fa solo per far soffrire ragazzi vitali, pieni di energie, con una straripante voglia di divertirsi, rimorchiare, correre in motorino a rotta di collo per liberarsi di ogni ragnatela. La prima cosa che ho capito è che un professore viene accettato o rifiutato dai suoi studenti non tanto per quello che dice o scrive sulla lavagna – può essere anche un vento meraviglioso, ma che entra da un orecchio e esce dall’altro – bensì per quello che è. E io all’epoca avevo venticinque anni, straripavo di energia, seguivo appassionatamente la musica, il cinema, l’arte, ma giocavo anche a pallone in una squadra amatoriale, viaggiavo in Vespa, avevo i capelli scapigliati da matto, ero innamorato, ero vivo e guizzante e saltellante come un fuoco d’artificio.
L’insegnante, insomma, è spesso una creatura mitologica, metà grande e metà piccola, detentore di un sapere importante che talvolta gli appare inutile, a suo agio tra lezioni e ricreazioni, consigli di classe e gite scolastiche, programmazioni e pizzette, e invece piuttosto insicuro appena fuori dai cancelli del suo istituto. Il mondo di noi professori sta quasi tutto tra le quattro mura dell’aula, il cortile, la biblioteca, il corridoio davanti la presidenza, le discussioni nella sala-insegnanti, dentro una inesauribile adolescenza, che invecchia ma resiste. Anche per questo gli insegnanti sono spesso oppositivi e scontenti, speranzosi e delusi, dolci e amareggiati. Marco Lodoli, La scuola che non vediamo, Il Foglio Quotidiano
Probabilmente di Italiano e Storia tantissimi professori ne sapevano più di me, ma quello che io sapevo si traduceva in una vitalità disordinata, accesa, scatenata. E questo funzionava, nel senso che i ragazzi non vedevano in me la depressione della cultura scolastica, ma uno strano entusiasmo. Non voglio prendermi meriti particolari, ero semplicemente così, e in parte lo sono stato per tutti gli anni che ho insegnato: curioso e grato a chi con una poesia, una canzone, un film mi rendeva la vita migliore, e desideroso di condividere quelle scoperte. Altrimenti, cari ragazzi, la vita è solo ripetizione meccanica di gesti e pensieri, una sopravvivenza che somiglia a una rinuncia. La materia tende all’inerzia e a sprofondare, come un canotto bucato che a poco a poco si sgonfia e affonda, bisogna soffiarci dentro tutta la bellezza che possiamo raccogliere nei polmoni se vogliamo che il viaggio nel mare mosso dell’esistenza abbia qualche speranza di approdo. E allora quei miei primi studenti mi hanno visto come uno di loro, ma con una spinta in più: e quella spinta veniva dai libri e dalla musica e dal cinema, dall’amore e dai viaggi, e dalla voglia di non essere un tronco inerte. Tante volte, nel corso degli anni, davanti a colleghi che spiegavano Carducci e le Guerre di indipendenza per completare il programma e mettere i voti sul registro, mi sono domandato: ma cosa hanno assorbito di tutto quello che hanno studiato? Quanto è penetrato nella loro vita, quanto hanno sofferto e amato le pagine che hanno letto e imparato così bene? Ciò che si studia ha un senso solo se modifica la nostra vita, non sono graziosi soprammobili da posare su una mensola in una casetta a schiera. Per questo il professore, in modo quasi sempre inconsapevole, è anche un po’ un maestro, non perché sappia trasmettere chissà quale sapienza superiore, ma perché si presenta ai suoi allievi con la totalità della propria esistenza, che si è trasformata e forse anche potenziata grazie a tutto quello che ha imparato, che ora è semplicemente la sua vita.
Dalla scuola parificata sono passato alla scuola pubblica vincendo un concorso a cattedra. Una prova scritta e dopo tre mesi una prova orale, tutto lineare, non il calvario che devono scalare oggi gli aspiranti professori, impegnati a raccogliere crediti, punti e puntarelli, logorati da una precarietà che fiacca l’anima e spezza la schiena. Il primo anno ho insegnato in un istituto tecnico a Genzano, sempre ai Castelli romani, e poi, presentando una semplice domanda, sono stato trasferito a Roma, nella scuola dove sono rimasto per tutto il resto della mia carriera: e ora è finita, dal 1 settembre sarò in pensione. Parenti, amici, colleghi, tutti sono felici per me, tutti mi dicono “adesso ti riposerai, beato te, avrai finalmente il tempo per dedicarti completamente alla letteratura, di sicuro scriverai tanti altri bei libri, con più calma, mattinate intere solo per te e per quello che ti piace fare…”. Così mi dicono, e io ringrazio, sorrido, fingo di essere contento. In realtà nel cuore ho un gran magone, una malinconia feroce perché la vita se ne va e perché meglio delle mattinate in classe non ho trovato nient’altro al mondo. Ma quale routine, quale ripetizione sbiadita del solito copione, quale minestra riscaldata ogni giorno: la scuola è una centrale elettrica e la mia piccola lampadina s’illuminava come un pianeta ogni volta che entravo nell’aula, in mezzo a quel casino tremendo, a quella vitalità scomposta e felice. Può sembrare un paragone bislacco, ma a volte mi sentivo l’adrenalina scorrere nel corpo come se fossi sul palco di un concerto, frontman della cultura!
E poi, certo, c’è anche l’eterno ritorno dell’uguale, stesso tragitto, la stessa sala insegnanti dove si scambiano le solite chiacchiere e le solite lamentele, e i programmi sono più o meno sempre quelli, ma io non mi sono mai annoiato, ogni giorno è stato un giorno uguale e diverso. E’ una storia che si rinnova incrociandosi con altre mille storie a cui bisogna prestare tutta l’attenzione possibile.
Marco Lodoli per Il Foglio Quotidiano
Marco Lodoli è nato a Roma nel 1956. Scrittore (“Diario di un millennio che fugge” il suo primo romanzo) e professore di Lettere, ha insegnato da ultimo nell’istituto Pertini-falcone di Torre Maura, a Roma. Il suo ultimo libro è Il Preside, Einaudi.
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