Questo mio libro cerca di incamminarsi in quella che possiamo definire «poetica dell’oralità», ambito nel quale pare ci si sia addentrati così poco. Forte della lezione di pensatori, di maestre e maestri magnifici, cerco qui di seguire la scia della loro incredibile falcata e portare i miei quarant’anni di esperienza nel dire la poesia in pubblico, come patrimonio di Arte Orale (scritta in maiuscolo perché torni ad esistere). Un’arte misconosciuta, oggi poco praticata e invece antica quanto la poesia, la quale nasce appunto come evento sonoro, recitata a memoria, cantata, declamata.
Si intitola L’incanto fonico il libro della poetessa Mariangela Gualtieri edito da Einaudi (pp. XIV – 152, € 14,00), di cui anticipiamo parte dell’introduzione. Il libro è stato presentato all’Auditorium Rai «Arturo Toscanini» di Torino, in collaborazione con il Salone del Libro e Rai Radio3, durante il concerto inaugurale «Selvatico Sacro, Improvvisazioni a tre voci». Durante l’evento le parole di Mariangela Gualtieri sono state accompagnate alla musica del trombettista Paolo Fresu e del pianista Uri Caine.
Sono nata come poeta in teatro, in teatro dove così spesso gli attori e le attrici enfatizzano il verso, e come dice Zumthor, lo rendono più nella sua componente razionale e di significato, trascurando tutto il resto. Sono cresciuta in stretto sodalizio con un regista che, come veggente, mi ha poi esortata alla scrittura, e che soprattutto mi ha messa davanti a un microfono e mi ha insegnato come la poesia sia fatta anche di silenzio, come dare voce al verso sia proprio questo tessere parola e silenzio.

E soprattutto, dopo innumerevoli bocciature e rimproveri, credo di avere imparato la lezione più alta: scomparire dietro il verso, avere fede nella sua potenza espressiva e lasciarlo vivere da solo, servirlo il più possibile, riducendo al minimo l’ingombro della mia persona. Il lungo e millimetrico lavoro con Cesare Ronconi, insieme all’uso di impianti acustici di qualità, alla presenza di bravi fonici, alla collaborazione con musicisti, e poi l’impareggiabile lezione di Carmelo Bene, tutto questo mi ha fornito le basi prime per entrare nel mondo orale, e un buon viatico per procedere.
Sono nata dapprima come voce che leggeva al microfono altri poeti, mentre le attrici e gli attori della Compagnia facevano il loro lungo training di riscaldamento: seguendo i dettami del mio regista, leggevo Rilke, Eschilo, Milo de Angelis, e sempre più avevo l’impressione di riscriverli, di fare riaccadere l’evento di quelle parole – impressione condivisa dai presenti in ascolto. Dunque da subito ho avuto certezza di come vi fosse un dire ispirato e anche un ascolto ispirato, tutto nutrito in ispirazione dalla scrittura che nell’oralità tornava a essere viva e generante, fecondante. La parola tornava più che mai, nell’oralità, a farsi evento.
Per sette anni ho praticato questa arte del dire, finché io stessa ho cominciato a scrivere versi, e l’ho fatto fin dall’inizio sulla scena, per dare voce agli interpreti che dopo pochissimo li avrebbero recitati. Dunque l’Arte Orale è sempre stata al centro del mio fare poetico, sempre strettamente connessa alla mia scrittura. Ora, dopo quarant’anni, dopo centinaia di teatri abitati, di pubblici incontrati, di versi trasformati in onde sonore, versi miei e di altri, di altre, mi appare la particolarità di questa mia avventura poetica[…].

Mi pare sia sempre più necessario dare voce viva alla poesia, diffonderla come si dà pane agli affamati, perché sempre più la denutrizione è psichica e interiore. C’è attesa. Non solo occorre dare parole scritte a questo sfacelo, occorre anche saperle pronunciare nella loro esatta melodia e ritmica, le nostre parole e quelle preziose del passato che come spartiti schiacciati nei libri sono in attesa di trasformarsi in onde sonore. Ora che la lingua viene così mortificata, e le nostre vite sembrano sempre più ingabbiate, la poesia è senza dubbio la rivolta più alta, la migliore alleata, e ha bisogno di tutte le sue potenze. È nell’oralità che essa vive in pienezza: nel rito sonoro di qualcuno che proferisce, che si è a lungo preparato per farlo, e di una comunità momentanea in ascolto. In quel comune bagno acustico, in quelle onde sonore che disumanizzano la voce umana innalzandola verso gli Dei o verso l’animale, viene moltiplicata l’intensità e la forza penetrante e trasformante del verso. Privandoci della vita orale della poesia, o frequentandola così poco e senza la giusta cura, noi ci priviamo di un’esperienza fondamentale che io oso pensare collocata alla radice della nostra ascesa di specie.

So che questa mia impresa è quasi impossibile: fare intendere attraverso la parola scritta qualcosa che riguarda invece la vita del nostro orecchio – acustica, impalpabile, musicale. Per questo la lingua che ho accolto è elementare, intuitiva, bizzarra, nella speranza che sia l’intuito a guidare la lettura, e da quello nasca la voglia di provare a dire la poesia. Per cominciare bastano un microfono, un registratore, una cuffia. E i versi. Migliaia, milioni di versi che chiusi nelle pagine dei libri aspettano voce.
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