I quesiti referendari sono 5, hanno carattere abrogativo, affrontano temi che spaziano dal lavoro alla cittadinanza. Sono stati promossi principalmente da CGIL e comitati civici. Mancano all’8 e 9 giugno 2025, date del referendum, poco più di tre settimane, ma telemeloni, canali TV private, gazzettieri vari non ne parlano; se lo fanno si limitano ai titoli di testa. Sembrano capirci poco, sul tema hanno un malcelato fastidio. Tutti ancora frastornati dalla foto di Tramp e Zelensky avvinti in intimità vaticane.
Gli aventi diritto al voto sono circa 47 milioni; per passare i referendum deve votare almeno il 50% degli elettori. Gli stessi promotori ci credono poco, domina lo scetticismo, nonostante in contemporanea si voti alle amministrative in 117 comuni, di cui 4 capoluoghi, con oltre 1,9 milioni di cittadini coinvolti. Troppi i quesiti e troppo difficili per l’elettore medio, che già in passato ha mostrato disaffezione al voto? E’ quello che spera la seconda carica dello Stato, tale La Russa, che se potesse i referendum li cancellerebbe, abrogativi, confermativi o consultivi che siano.
Vediamo di non stare al gioco di chi ritiene lo strumento referendario inutile o dannoso, il diritto al voto, riconosciuto al cittadino, passato di moda, la partecipazione a determinare il futuro del Paese una ingerenza. Rompiamo il muro di silenzio recandoci in massa ai seggi. La scheda sia la nostra arma.
Tra i cinque referendum, a mio parere, quello che pone problematiche più serie attiene alla modifica della responsabilità circa la sicurezza sul lavoro fra committente e impresa appaltatrice, creando un vincolo di solidarietà su rischi professionali di cui dovrebbe viceversa rispondere solamente colui che esegue l’opera. In tal caso, come la si voglia pensare, si palesano i limiti referendari: la semplice abrogazione di una norma lascia un vuoto che solo il legislatore dovrebbe colmare, se non fosse spesso in ritardo o inadempiente.
Ma vediamo quindi i quesiti, facciamoci un’idea più precisa circa i contenuti, per rivendicare il diritto a decidere e partecipare, diffondendo il più possibile tale posizione, al di là e al di sopra dei partiti.
Quesito 1: Reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo
Riguarda la disciplina dei licenziamenti introdotta dal Jobs Act nel 2015, in particolare per i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Attualmente, chi è stato assunto dal 7 marzo 2015 nelle aziende con più di 15 dipendenti, in caso di licenziamento illegittimo (senza causa o giustificato motivo) ha diritto solo a un indennizzo economico prestabilito, senza alcuna possibilità di reintegro nel posto di lavoro, salvo casi rarissimi. Per i promotori, questa regola ha limitato parecchio la tutela contro gli ingiusti licenziamenti, prevista invece prima della riforma per la generalità dei lavoratori. Se approvato, il referendum comporterebbe l’abrogazione totale del decreto legislativo n. 23/2015, eliminando le tutele crescenti e consentendo di applicare a tutti i lavoratori il sistema di tutele precedente, basato sulla valutazione del giudice e, in alcuni casi, sul reintegro nel posto di lavoro.
Il testo del quesito è il seguente: “Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante ‘Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183’ nella sua interezza?”
Quesito 2: Maggiore tutela nei licenziamenti delle piccole imprese
Il quesito riguarda i lavoratori impiegati nelle piccole imprese, cioè quelle con meno di 16 dipendenti. Attualmente, in caso di licenziamento illegittimo, la legge prevede un risarcimento economico limitato: il massimo previsto è di 6 mensilità, aumentabile in alcuni casi fino a 14 (ma questo solo per aziende con più di 15 dipendenti e con lavoratori particolarmente anziani in servizio). Questo tetto fisso, secondo i promotori del referendum, limita fortemente le possibilità per il giudice di valutare la gravità del licenziamento e di disporre un risarcimento equo.

L’obiettivo del quesito è dunque quello di abrogare il limite massimo all’indennizzo, lasciando al giudice la libertà di determinare l’entità del risarcimento in base alle circostanze specifiche del caso, come già avviene in altri settori del diritto del lavoro.
Il testo del quesito è il seguente: “Volete voi l’abrogazione dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, recante “Norme sui licenziamenti individuali”, come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, n. 108, limitatamente alle parole: “compreso tra un”, alle parole “ed un massimo di 6” e alle parole “La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro”?”
Quesito 3: contratti a termine più limitati e ritorno all’obbligo di causale giustificativa
Il terzo quesito referendario riguarda la disciplina dei contratti a tempo determinato, e in particolare la possibilità oggi concessa ai datori di lavoro di stipulare contratti senza causale (cioè senza indicare un motivo specifico) per i primi 12 mesi. Le modifiche introdotte dal decreto dignità nel 2018 avevano già ristretto parzialmente questa libertà, ma l’attuale normativa consente ancora di utilizzare contratti a termine senza giustificazione entro il primo anno, e di prorogarli o rinnovarli con causali molto ampie, spesso definite direttamente dalle parti.
Il quesito propone di eliminare questa possibilità, rendendo obbligatoria la presenza di una causale giustificativa fin dall’inizio del contratto a termine e limitando l’autonomia delle parti nel definirla. Si vuole così contrastare il ricorso sistematico e, secondo i promotori, abusivo ai contratti precari, incentivando forme di lavoro più stabili e garantite, anche se ciò potrà ridurre la flessibilità per le imprese.
Il testo del quesito è il seguente: “Volete voi l’abrogazione dell’articolo 19 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, comma 1, limitatamente alle parole […] articolo 21, comma 01, limitatamente alle parole “liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente,”?”
Quesito 4: responsabilità negli appalti e sicurezza sul lavoro
Il tema della sicurezza sul lavoro è cruciale; il quesito riguarda la tutela dei lavoratori negli appalti e la responsabilità in caso di infortuni sul lavoro. La normativa attuale (art. 26, comma 4, del Testo Unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro) stabilisce che il committente è responsabile in solido con l’appaltatore e i subappaltatori per i danni subiti dai lavoratori non coperti da INAIL. Tuttavia, esclude tale responsabilità quando il danno è causato da rischi specifici dell’attività dell’appaltatore o del subappaltatore, limitando così l’obbligo del committente.
Il quesito propone di abrogare questa esclusione, ampliando la responsabilità del committente anche ai rischi specifici dell’appaltatore, cioè ai danni legati alle caratteristiche particolari dell’attività svolta. In altre parole, si vuole rendere il committente sempre responsabile in solido degli infortuni, anche se questi derivano da situazioni che attualmente rientrano nella sola sfera dell’appaltatore.
Il testo del quesito è il seguente: “Volete voi l’abrogazione dell’art. 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 […] limitatamente alle parole “Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici?”
Se il referendum avrà esito positivo, secondo i proponenti, la responsabilità del committente sarà rafforzata, con l’intento di aumentare la sicurezza dei lavoratori, spingendo le imprese a esercitare un maggiore controllo sull’operato di chi viene incaricato attraverso appalti o subappalti.
Quesito 5: Cittadinanza italiana dopo 5 anni di residenza legale
Con questo quesito si intende modificare la legge n. 91 del 1992 in materia di cittadinanza, con l’intento di semplificare e accelerare l’accesso alla cittadinanza italiana per gli stranieri non comunitari. Attualmente, uno straniero può ottenere la cittadinanza per naturalizzazione solo dopo almeno 10 anni di residenza legale continuativa in Italia. Inoltre, è prevista una norma specifica per i minori adottati da cittadini italiani, che ottengono la cittadinanza solo se adottati formalmente.

Il quesito propone due modifiche: da un lato, abrogare la norma che prevede il requisito dei 10 anni di residenza, riducendo a 5 anni il termine minimo richiesto; dall’altro, eliminare il riferimento all’adozione, in modo da estendere automaticamente il diritto alla cittadinanza anche ai figli minorenni dei nuovi cittadini, indipendentemente dalla modalità con cui sono entrati nel nucleo familiare. Secondo i promotori, questa riforma risponderebbe meglio alla realtà sociale di oggi, riconoscendo il ruolo attivo degli stranieri nella vita economica e culturale del Paese.
Il testo del quesito è il seguente: “Volete voi abrogare l’articolo 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole “adottato da cittadino italiano” e “successivamente alla adozione”; nonché la lettera f), recante la seguente disposizione: “f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.”, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza?”


