Viene da chiedersi cosa avesse negli occhi Xu Lizhi, la notte del 30 settembre 2014, mentre guardava la città di Shenzhen dal 17° piano: se le luci sfavillanti al neon dei palazzi e delle strade, inno alla modernità ipertecnologica cinese, o lo spazio sterminato eppure angusto della Foxconn, più simile a una caserma o a una prigione.

Fatto sta che, dal 17° piano, il giovane poeta operaio 24enne si gettò. Era uno dei tanti (milioni) lavoratori migranti trasferitisi in città dalla campagna per trovare lavoro, finendo in una selva di contratti precari ad altissima intensità di sfruttamento, prezzo sociale dei mirabolanti fasti economici della Cina odierna. Proprio alla Foxconn, quattro giorni prima, Xu Lizhi aveva firmato un nuovo contratto che lo avrebbe tenuto lì per tre anni; doveva avere avvertito quella scelta come una sconfitta, perché tre anni, alla Foxconn (il cui regime di fabbrica è portato alla luce da Pun Ngai e altri sociologi nei volumi Nella fabbrica globale e Morire per un iPhone), li aveva già trascorsi, dal 2011 al febbraio del 2014; poi non ce l’aveva fatta più, si era licenziato e aveva cercato lavoro altrove, senza successo, e si era dovuto rassegnare a tornare a Shenzhen.

Poco dopo il suicidio, allo scoccare della mezzanotte, sul suo account Weibo (la popolarissima piattaforma di microblog cinese) comparve un messaggio programmato: “Un nuovo giorno” (xin de yi tian). Il gesto di Xu Lizhi non aveva intenti politici, ma è impossibile non intravederne la portata simbolica, resa ancora più evidente dalla teatralità con cui fu commesso: il 1° ottobre si celebra infatti la fondazione della Repubblica popolare cinese, la quale si dichiara tuttora socialista.

Nel frattempo, Qin Xiaoyu, poeta, critico letterario e filmmaker, stava lavorando su un progetto multimediale dal titolo Wo de shipian (I nostri versi), rivolto proprio a dare visibilità ai poeti operai in Cina e a sviluppare una discussione sul tema. Il progetto includeva un documentario e un’antologia, usciti entrambi nel 2015. L’antologia raccoglie le opere di ben 62 poeti, per la maggior parte operai, corredati da una corposa introduzione storico-analitica di 64 pagine e da oltre cento pagine di tavola rotonda fra critici e poeti. Alcuni di questi poeti sono stati tradotti in inglese da Eleanor Goodman in Iron Moon, uscito nel 2016. Xu Lizhi doveva avere un ruolo di primo piano sia nel documentario che nell’antologia; tale ruolo sarebbe divenuto centrale, proprio a seguito del suo suicidio. Il suo gesto gli portò infatti una notevole fama postuma che oltrepassò i confini della Cina, facendone un po’ il “rappresentante” della poesia operaia contemporanea: “Meet the poet who died for your phone”, titolava il TIME a giugno 2015.

In realtà è problematico parlare di “rappresentanti” della poesia operaia: essere un autore noto, come Xu Lizhi, o di particolare successo, quale è il caso di certe/i poeti che riescono a catturare l’interesse di istituzioni culturali o case editrici importanti, di per sé non può essere indice di “rappresentatività”. Siamo ben lontani dall’avere una conoscenza esaustiva di ciò che si muove fra i poeti operai cinesi, ed è quindi più consigliabile considerare ciascun poeta nella sua singolarità, anziché nella sua presunta rappresentatività, e cercare di capire come ciascuno, con le proprie scelte tematiche e stilistiche, la propria scrittura e la propria pratica, contribuisca a dire qualcosa in più rispetto a quello che potremmo considerare il “minimo comun denominatore”: la condizione operaia oggi in Cina, e non solo.

La poesia di Xu Lizhi è fatta di luci e ombre che si dipanano dentro e fuori l’officina, di tracce di vita, di ricordo contemplativo della campagna di origine accanto a una riflessione, mai mimetica, sul presente. Versi, immagini e metafore tendono a essere caratterizzati da nuda crudezza. La vita che traspare da questi versi respinge e schiaccia: “La vita ha sentenziato di punirmi con la genuflessione / ginocchia a terra mi prostro al suo cospetto / monti e fiumi si spaccano sotto i colpi della mia testa / il mare rifiuta il mio sangue”[1]. La corporeità è l’indice più evidente della giovinezza immolata sulla catena di montaggio (altra immagine ricorrente in Xu come in altri) e la spossatezza ne è l’effetto più palpabile; celebre e sovente citata l’immagine dell’operaio che si appisola in piedi: “sulla linea stavo dritto come ferro, mani come ali / quanti giorni, quante notti / mi sono addormentato in piedi così”. La fabbrica stessa è descritta con figure che la trasformano in un luogo a sé, separato dal mondo esterno (“il turno di giorno non vede il sole, il turno di notte non vede la luna”), all’interno del quale il poeta si sente come prigioniero, mentre osserva malinconicamente gli oggetti da lui stesso prodotti andare “lontano, e più lontano ancora, / via dall’officina, verso il mondo là fuori”, quasi vi fosse uno sforzo di identificazione immaginifica, vanificato però dalla cruda realtà dell’alienazione…..

Accanto a queste tematiche spiccatamente sociali, in Xu Lizhi troviamo anche un acceso amore per la poesia, espresso anche con citazioni dotte dai grandi classici della lirica cinese, a volte anche in modo giocoso e “dissacrante”. Su questo solco vi sono profondissime riflessioni sulla funzione che la poesia ha per Xu stesso, con risvolti a dir poco inquietanti. Soprattutto a partire dal 2013, la poetica di Xu si fa via via più sperimentale dal punto di vista stilistico: la lunghezza dei componimenti tende a ridursi, i versi a loro volta si abbreviano e le tematiche diventano più “ardite” e meno immediate rispetto ad altre poesie anche coeve. L’ironia, già presente nei primi lavori di Xu, mutuata però da una solenne amarezza, si rafforza e diventa talvolta l’aspetto dominante. Aleggia sempre più la presenza della morte, anche autoinflitta. È la morte prematura, infatti, che si profila come unico sbocco del lavoratore migrante annichilito dal dispotismo di fabbrica, paralizzato in una specie di limbo….:

Meditazioni come queste, più improntate sull’individualità della poesia che sulla sua socialità, ci ricordano di non ridurre i poeti operai a feticcio (la chimera nobile ed eroica del “poeta operaio” senza macchia e senza paura), ma considerarli in tutte le loro complessità, altrimenti rischiamo di non comprendere nulla del fenomeno in tutta la sua ricchezza. Ciascun poeta deve essere necessariamente considerato nella propria individualità creativa, prima che come espressione di un sentimento di classe. …

È altrettanto controproducente, dunque, dividere nettamente le poesie degli autori operai fra “sociali” e “introspettive”. Lo vediamo con grande chiarezza in Xu Lizhi: infatti, le stesse caratteristiche di questi tuffi nelle profondità più oscure dell’io – sarcasmo fatalistico, sperimentalismo stilistico, scorporamento – ricompaiono in poesie di tutt’altro tenore, attraverso le quali Xu dimostra una lucida consapevolezza del proprio posizionamento all’interno dei rapporti sociali. La sua poesia più famosa è indicativa in questo senso: vi troviamo un’identificazione mimetica, quasi metaforica, con gli strumenti della fabbrica e del lavoro, chiusa da una potente affermazione sulla funzione del proprio lavoro poetico. Vista la sua importanza, vale la pena di citarla integralmente:

ho ingoiato una luna di ferro
la chiamano vite

ho ingoiato acque di scarico industriali, moduli per la disoccupazione
la nostra giovinezza, più infima delle macchine, perisce anzitempo

ho ingoiato la frenesia del lavoro, ingoiato povertà e indigenza
ingoiato ponti pedonali, ingoiato vita cosparsa di ruggine

altro non posso più ingoiare
tutto quel che ho ingoiato risale ora per la gola

e sparge sul suolo patrio una
poesia di vergogna

In altri componimenti di tipo sperimentale, Xu Lizhi effettua lunghi elenchi – di fabbriche, di strumenti di lavoro, o anche dei suoi colleghi operai, incolonnati come “l’esercito di terracotta della catena di montaggio”. In questi casi risalta più che mai la dimensione collettiva della poetica di Xu. Più in generale, però, possiamo affermare che tutta la sua poesia può essere letta solo sforzandosi di portare sempre a sintesi l’intento individuale del poeta e le condizioni materiali che lo circondano, influenzandolo inevitabilmente. Ciò non significa suggerire che queste condizioni materiali determinino la scrittura di Xu: le sue scelte derivano dalla sua sensibilità, che va perciò rispettata. Al contempo, però, glissare sull’importanza cruciale che le condizioni materiali hanno per la formazione della coscienza con cui osserviamo il mondo significa non vedere che l’esperienza di vita che Xu vuole leggere attraverso la propria poesia lo accomuna ad altri milioni di lavoratori/trici migranti come lui. “La vita operaia che sento svela segni di fatica / scorre nelle vene, giunge infine alla punta della penna / mettendo radici nel foglio / queste parole solo un cuore operaio può leggerle”: tali versi, oltre a invitarci a una lettura umile e a mente aperta, ci ricordano che parlare di sé è anche parlare di tutti.

In questo senso, la tensione fra individuale e collettivo può essere meno contraddittoria di quanto possa apparire, se si riesce a giungere a una sintesi che ne sappia cogliere gli intrecci. Dagli esempi sin qui riportati risulta evidente che la collettività pulsa attraverso le poesie di una mente creativa indubbiamente singolare, che trasmette un’esperienza soggettiva, ma che è legata a doppio filo alla dimensione comune in cui è inserita….

Seguono alcune poesie di Xu Lizhi tratte dal sito The Poeti, poesia nel mondo.Traduzione A. Lavecchia, Ist. Onorato Damen Reggio Cal. 2016

Una sorta di profezia

I vecchi del paese dicono
che somiglio a mio nonno da giovane
a me non pareva ma a forza di sentirmelo dire
me ne sono convinto

Quasi provenissimo dallo stesso grembo
mio nonno ed io abbiamo in comune
l’espressione del viso, il temperamento, le passioni

I vecchi avevano soprannominato lui “canna di bamboo”
e me “attaccapanni”

Lui spesso mascherava i suoi pensieri
e io spesso sono perfino ossequioso

A lui piaceva tirare a indovinare
io credo nelle premonizioni

Nell’autunno del 1943
i diavoli giapponesi ci invasero
e lo bruciarono vivo

Aveva 23 anni,

Quest’anno
anche io compio 23 anni

Mangime per le macchine (Ist. Onorato Damen, 2016)
traduzione di A. Lavecchia

Il viaggio della mia vita

E’ qualcosa che nessuno si aspettava

Il viaggio della mia vita

E’ tutt’altro che completo

Ma ora sono bloccato qui,  a metà strada

Non è che difficoltà cosi’, non esistessero prima

Ma non arrivavano

Cosi’ di colpo

Cosi’ ferocemente

Lotto continuamente

Ma è tutto inutile

Voglio rimanere in piedi più che chiunque altro

Ma le mie gambe non collaborano

Il mio stomaco non collabora

Tutte le ossa del mio corpo non collaborano

Posso solo rimanere disteso

Nel buio, mandando

Un silenzioso segnale di sofferenza, ancora e ancora

Solo per ascoltare, ancora e ancora,

L’eco della disperazione

Camere in affitto

Uno spazio di dieci metri quadri

Stretto e soffocante, nessun raggio di sole per tutto l’anno

Qui dormo, cago, e penso

Tossisco,  mi viene mal di testa, invecchio, mi ammalo, ma ancora non riesco a morire
Sotto la luce giallo spento, ancora con uno sguardo inespressivo, balbettando come un idiota

Cammino avanti e indietro, cantando a bassa voce, leggendo, scrivendo poesie

Ogni volta che apro la finestra o il cancello d’ingresso
Sembro un uomo morto
Che sta lentamento aprendo il coperchio di una bara

Sul mio cadavere

Voglio guardare un’ altra volta l’oceano, osservare l’immensità delle lacrime di metà di una vita

Voglio scalare un’ altra montagna, provare a richiamare l’anima che ho perso

Voglio toccare il cielo, sentire quel blu cosi’ leggero

Ma non posso fare niente di tutto questo,

quindi lascio quesot mondo

Tutti quelli che mi conoscono

Non saranno sorpresi della mia partenza

Ancora meno, dovreste piangere o stare in lutto

Stavo bene quando sono arrivato, sto bene ora che me ne vado

Mi assopisco così, in piedi

I fogli che mi stanno davanti leggermente ingialliscono
Con una penna vi incido neri ineguali.
Sono solo parole di lavoro
reparto, catena di montaggio, macchinario, tesserino, straordinario, stipendio….
Mi hanno addomesticato ben bene.
Non so urlare, non so ribellarmi,
Non so denunciare, non so biasimarmi,
Sopporto lo strenuo, in silenzio.
Quando è iniziata
bramavo solo quella grigia busta paga il 10 del mese
perché mi procurava una tarda consolazione.
Per questo ho dovuto levigarmi gli angoli, levigare le mie parole
rifiutare permessi, malattie, ferie
rifiutare ritardi, ritiri.
Me ne sto fisso alla catena di montaggio, come ferro, le mani come fossero ali
Quanti giorni, quante notti
mi assopisco così, in piedi.

Una vita è caduta al suolo

Una vite è caduta al suolo
in questa notte di lavoro fuori orario
è precipitata in verticale, tintinnando leggermente.
Non attirerà l’attenzione di nessuno,
proprio come quando qui davanti
in una notte identica a questa
qualcuno cadde a suolo.

Mani come ali

La carta davanti ai miei occhi ingiallisce
Con una penna d’acciaio incido su di essa del nero irregolare
Pieno di parole che parlano di lavoro
Officina, catena di montaggio, macchina, libretto di lavoro, straordinari,
salari …
Mi hanno addestrato a diventare docile
Non so come gridare o ribellarmi
Come lamentarmi o denunciare
So solo come soffrire questo esaurimento in silenzio
Quando ho messo piede per la prima volta in questo luogo
Speravo solo in questa grigia busta paga il dieci di ogni mese
Che mi concedesse un po’ di sollievo tardivo
Per questo ho dovuto smussare i miei angoli, smussare le mie parole
Rinunciare a saltare il lavoro, rinunciare alle assenze per malattia,
rinunciare ai permessi per motivi privati
Rinunciare ad arrivare tardi, rinunciare ad andare via prima
Sono stato in piedi alla catena di montaggio come un pezzo di ferro,
le mani come ali,
Quanti giorni, quante notti
mi sono fatto cadendo in piedi – proprio così – addormentato?

Ho ingoiato una luna fatta di ferro

Ho ingoiato una luna fatta di ferro
Certi la chiamano chiodo
Ho ingoiato scarichi industriali,
certificati di disoccupazione
I giovani ingobbiti sui macchinari
muoiono prima del tempo

Ho ingoiato ritmi disumani
e destituzione
Ho ingoiato passaggi pedonali,
una vita ricoperta di ruggine

Non posso ingoiare più
Tutto quello che ho ingerito
mi spilla fuori dalla gola

E così srotolo la terra
dei miei antenati
In una poesia senza grazia.