La filosofia dell’architettura. Edifici e oggetti devono mantenere le loro patine e, nel restaurare i monumenti, si devono trattare i materiali considerando che il tempo lascia sempre una traccia, fuori e dentro di loro.
A dodici anni dalla prima edizione, la polvere del tempo sembra non essersi depositata su questo libro di Roberto Peregalli, architetto e filosofo. La cosa forse gli dispiacerà, perché lui ama la polvere, ne fa oggetto filosofico, ragione di bellezza e senso della vita. Ma il libro, ripeto, nonostante gli anni, non ha perso il suo nitore, la musicalità del suo cantare il tempo. Il tempo, dice Peregalli, «che corrode la vita e la esalta». Senza Kronos, infatti, non si dà bellezza, quella malinconica bellezza che «nel momento in cui la si percepisce, inizia a screpolarsi».

I luoghi e la polvere. Sulla bellezza dell’imperfezione, il libro migliore di Peregalli, appare oggi in veste grafica rinnovata, nuove anche molte fotografie, per la cura di Luca Stoppini. Un piccolo classico della nostalgia, oggi introdotto da un testo inedito ispirato dai silenzi della pandemia, quando la vita umana ammalandosi si fermava e quella dei luoghi e degli animali sembrava invece riprendere il respiro.
Di fronte alla distruttività, all’incuria e alla falsificazione contemporanee Peregalli ci invita a rivolgere l’ascolto alle «voci ultime e infime» sperando che possano diventare, «nel pericolo che ci attraversa, la sorgente di un futuro possibile». Voci ultime non direttamente umane ma legatissime al modo in cui gli umani abitano, in bellezza e dolore, oppure distruggono, i luoghi e la loro memoria. Una memoria che l’estetica globale contemporanea, la più popolare come la più esclusiva, sembra avere perduto. Si spiega così la scelta di aprire il libro con il monito heideggeriano per cui «solo ciò che appare nel mondo come qualcosa di poco conto potrà un giorno diventare una cosa».
Ogni capitolo è dunque dedicato a una cosa “di poco conto”, venendo a comporre, pagina dopo pagina, una preghiera di nostalgia che è anche una denuncia. Le parole di tale preghiera che accusa sono “casa”, “facciata”, “vetri”, “bianco”, “luce”, “rovine”, “tempo”, “patina”, “memoria”, “cura”, “nostalgia”. Parole che ospitano, in proporzioni diverse, i molti lavori di Peregalli, che riassumerei in “costruire pensando”.
Peregalli costruisce case abitate dalla filosofia che le ispira (e anche questo va detto in chiave heideggeriana, visto che «all’abitare perveniamo solo attraverso il costruire» e «il costruire è già in se stesso un abitare»). Una filosofia che ispira non solo le case che Peregalli costruisce a caro prezzo, ma anche la sua stessa vita, che probabilmente a prezzo altrettanto caro lui abita con l’eros e gli incanti delle sue nostalgie (lo abbiamo letto nel libro precedente, Il corpo incantato, malinconico viaggio nel legame necessario tra imperfezione, bellezza e in definitiva amore).
Nei corpi, come nelle case, la bellezza dell’imperfezione e la sua memoria non vanno mai profanate con protesi insincere o villane chirurgie: «mantenere la polvere che si è depositata, ricrearla, non cancellare l’aura che il passato gli ha donato». E poi la voce dell’architetto: «se si restaurano i monumenti, i materiali utilizzati dovrebbero essere trattati come se il tempo avesse lasciato una traccia dentro di loro. Invece, quasi sempre, i colori, non essendovi più la dimestichezza con l’uso delle terre, sono scelti in modo incongruo. Sono brutti».
Le molecole leggere della polvere, la patina sottile che ricopre le cose, non sono solo materia per desperate housewives sterilizzatrici di case e armadi, bensì oggetto psicobiografico di peso e spessore. Ce lo insegna W.G. Sebald nelle pagine in cui Austerliz, ritrovando la sua antica dimora immobile nel tempo, vede la polvere come una magia che fa sì che gli anni lasciati alle spalle siano «ancora nel futuro». Ce lo insegna Francis Bacon descrivendo il caos del suo studio: «una cosa che mi piace della confusione è che c’è la polvere e io la uso». Nella polvere, continua, è l’inizio di tutte le cose, perché lei «sembra eterna, l’unica cosa che durerà per sempre».
Di quale polvere ci parla Peregalli? «La profondità di un’ombra, accentuata dal nero della polvere, impreziosisce l’oggetto e gli conferisce un’aura». Basta questa frase per descrivere lo sguardo dell’autore sul mondo, i luoghi e le atmosfere a lui cari. Per usare un neologismo caro invece a me, li chiamerei i suoi mindscapes, dove l’interno (la memoria come fatto personale) incontra l’esterno (il paesaggio come fatto collettivo) finché i due mondi non si distinguono più. «Questo libro», ci spiega Peregalli, «parla della nostalgia che si appropria di oggetti e luoghi, dell’incuria che l’uomo ha per il suo destino, della violenza che la tecnologia moderna opera sui nostri luoghi e sul nostro mondo, del silenzioso camminare in un viottolo di campagna, di cortili abbandonati, della pioggia che cola sui vetri».
Oggetti perduti le cui tracce indistinte formano il tessuto della nostra vita. La facciata di una palazzo diventa il volto di una persona (con la bella eco deleuziana del paysage-visage), la finestra è il suo sguardo, il bianco si conferma niente affatto comoda tinta neutra, ma colore sacro che porta in sé la sua ombra. Qui Peregalli, che dalla psicologia si tiene saggiamente lontano, non può che farsi hillmaniano nel denunciare e piangere l’offesa che “l’innominabile attuale” reca all’anima mundi. Con le sue case e i suoi libri vuole dirci che per vivere non basta riconoscere la caducità, bisogna onorarla. Senza la polvere, la patina e l’ombra, senza le rovine del passato e la luce di una candela, tutto diventa asettico e finto: se cancelliamo «la mortalità della vita, il luogo diventa eternamente morto» e la carne stessa di cui siamo fatti finisce per scomparire.
Vittorio Lingiardi, Corriere della Sera
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