Rinascimento di Villar Rojas

1 Dic 2015 | 0 commenti

Villar Rojas, artista argentino

Villar Rojas, artista argentino

“Rinascimento, la deflagrante opera installativa di Adrián Villar Rojas (Rosario, 1980). Avvolto da una penombra sottile, che gioca con la fragilità delle trame luminose, l’intervento dell’artista argentino costringe a un paziente percorso di avvicinamento al cuore – fisico e percettivo – dell’opera, disseminata nello spazio centrale. Residui di presenze umane si condensano dentro abiti vuoti, abbandonati a terra in morbidi gomitoli di tessuti e oggetti, che segnano il tempo della dissolvenza fisica. Srotolati lungo un corridoio parallelo, gli eloquenti cumuli di assenza sorvegliano l’accesso a un “venir meno” complementare e altrettanto vivo. La tentacolare infilata di pietre che ridisegna le logiche spaziali della Fondazione accoglie i cambiamenti di stato della presenza naturale. L’organicità animale e vegetale trova nella superficie apparentemente algida dei massi un reagente tutt’altro che neutro. Lapidi silenziose e accoglienti rifugi, le pietre tagliano e abbracciano a intervalli regolari i resti di una non-più-vita, conferendo loro una commovente dignità e, al tempo stesso, un’impietosa esposizione.

Ciò che colpisce nell’intervento di Villar Rojas è la familiarità con l’assenza e lo scorrere implacabile di un tempo che uccide, sfalda e decompone, secondo logiche naturali comuni a qualunque organismo. Per quanto separati da una parete e da un’ideale linea parallela, uomo e natura emettono lo stesso riverbero di assenza nel momento in cui la linfa vitale smette di scorrere. Solo la pietra può accogliere – e squarciare – un simile momento di transizione, dando voce alla propria componente organica. E allora i volatili esanimi e le zucche in putrefazione, le piante protese verso una luce esangue e le mele annerite dalla muffa possono coesistere in una terra di confine, che alterna sospensione e concretezza, morte e senso di riscatto.

Non esiste un’immagine univoca per definire il minuzioso scenario disegnato dall’artista, che stempera l’effetto funereo della veduta d’insieme nella dimensione quasi arcaica della vanitas. Non c’è una definizione per l’assenza. E forse è in questa presa di consapevolezza obbligata che si nasconde tutta la forza del gesto di Villar Rojas: un invito perentorio ad ammettere che sul terreno comune dell’assenza c’è soltanto margine per l’accettazione. (www.artribune.com/tag/adrian-villar-rojas/).

 

 

Voi capite che, dopo una presentazione simile, dal sintomatico titolo Un dialogo fra assenze, la voglia di farsi notare per la “propria assenza” dalla mostra è irrefrenabile come la diarrea. Non c’è nulla di più comico del comico a  “sua insaputa”. Ma lasciamo Arianna Testino ( è lei l’autrice del pezzo di sopra) alle prese con gli “eloquenti cumuli di assenza”, al “venir meno” complementare, e alla tentacolare infilata, per parlare di questa mostra, aperta alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino.

Mostra Rinascimento fondazione Sandretto

Mostra Rinascimento fondazione Sandretto

Coraggiosa, se non altro per il fatto che ci sarà voluta una nave intera per portare i “monoliti” dalla Turchia a Torino, via Argentina(?) Magari le pietre delle nostre montagne, no!? Questa di Rinascimento è davvero una installazione ponderosa (nel senso di peso in tonnellate di materiale). Detto questo, devo aggiungere che il giovane, incolpevole artista merita un commento, e la mostra una visita.

Lasciamo perdere l’assenza di un manifesto, un pieghevole, una hostess, sorvoliamo sul fatto che la biglietteria è stata camuffata come in un gioco a nascondino. Lussi di una volta, o licenze di artista. Trascuriamo il lungo corridoio dove pare che le donne delle pulizie abbiano lasciato indietro il lavoro, ed entriamo nel vasto e unico locale in penombra dove “giacciono” i lavori. All’inizio la pochissima luce dà fastidio, poi si capisce che essa è funzionale a un viaggio volutamente estraniante, ad un tuffo all’indietro che non potrebbe avvenire in piena solarità, ma solo col rumore crepuscolare dei propri passi (infatti, in quel momento sono solo).villas 5

Innanzi tutto, perché questo titolo: Rinascimento? L’uso di materiale, antico di migliaia di anni, eroso dal tempo o consumato dall’uso o abilmente invecchiato, come materia prima se non primordiale, sulla quale/con la quale intervenire mutandone destinazione e aspetto, evoca tutt’altro che fantomatiche “assenze”. Semmai il contrario. L’opera del tempo unita a quella dell’uomo, in un intreccio inevitabile di antropizzazione richiama il comune destino evolutivo e riporta l’uomo e la sua cultura al centro, proprio com’era negli ideali del Rinascimento.

La dislocazione delle opere sembra casuale, e il percorso può avvenire girovagando fra un monolite e l’altro, fra fossili, relitti trattati a biacca, tronchi d’albero, vasi fittili, attrezzi di lavoro, come forcole o reti da pesca; o altro materiale organico che da vicino rivela essere fiori, frutta e verdure appassite, pesci incartapecoriti, sorprendenti forme di pane, mezze forme di formaggio o tranci di prosciutti (di Parma? dei concorrenti spagnoli?).

Un groviglio di radici punta verso l’alto come braccia invocanti, imbrigliando in mezzo pesanti pietre. Nella penombra, più fitta in quel punto della sala, la installazione sembra una chiglia sfasciata di nave, con alcuni brandelli di corpi, sollevati da una forza primordiale. Al posto del rostro, una plaquette di latta dorata, con incisi simboli esoterici. Il continuo rimando fra natura e uomo si concretizza nel gioco delle compenetrazioni fra roccia o legno di anfore e vasi, o accostamenti inusuali, come un diadema Swarovski su un melograno appassito o un cuore di pietra o metallo avvolto in garze, come in una custodia. La mano dell’artista a volte si avverte maggiormente, quasi volesse seguire e assecondare la vocazione più intima del materiale che lavora: ecco allora lo scavo di “vassoi” con frutta e fiori, oppure una bianca coltre, a mo’ di tovaglia,  levigata sul marmo; o ancora cerchi iscritti nella superficie a lucido, con accostato un frutto, aperto come una vagina. Su una roccia resa piatta, accanto ad un portacenere, posa l’intimità di un ricordo: in una foto intravvedo l’effige di un guerriero di marmo ( delicato come un Corradino di Svevia) su cui è posato un pesos. Tanto vale la vita? O il ricordo?

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Uscendo penso che il giovane Villar Rojas si inserisca bene nel filone della land-art, vicino ad artisti come Walter De Maria, Richard Long (nel sito trovate un pezzo su di lui), Robert Smithson, ma in modo personale, in grado cioè di valorizzare il manufatto, allontanandolo dal suo ambiente naturale, per conferirgli un significato nuovo: la materia non sostituisce il pennello o la tela o il marmo o il bronzo, ma contiene essa stessa la storia dell’uomo, ci parla, a patto di saperla leggere o ascoltare, con l’aiuto dell’arte ( e magari di un po’ di penombra).

 

 

 

 

 

 

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