L’UNITÀ DELL’OCCIDENTE È LA SOLA RISPOSTA POSSIBILE AL DECLINO DELL’OCCIDENTE, AL SUO SUICIDIO”. UNA CONVERSAZIONE COL FILOSOFO DE GIOVANNI

Pubblichiamo ampi stralci dell’intervista di Gianfranco Brunelli, direttore della rivista cattolica Il Regno, al filosofo e politico Biagio De Giovanni. Il testo integrale, “Se la sinistra è antiamericana”, è uscito su Il Regno-attualità n. 10/2022

Professor De Giovanni, lei è tra gli intellettuali europei di maggior rilievo e nella sua esperienza culturale e politica ha attraversato gran parte della vicenda storica della sinistra italiana. Di fronte all’attacco di Putin all’ucraina verrebbe da chiedersi se davvero siamo mai usciti dal Novecento. “Distinguerei tra la motivazione e le modalità con le quali Putin ha assunto questa tragica decisione d’aggredire l’ucraina. La crisi della globalizzazione in atto dal 2008, a motivo della crisi finanziaria, ha ridestato la ricerca d’identità, determinando la richiesta di un ritorno dei confini, delle frontiere, e suscitato un po’ ovunque movimenti sovranisti o populisti. Putin – in sfregio alla complessità della storia, compresa quella russa – ha ridestato la nostalgia di un passato considerato migliore – quello precedente al 1989-1991 –, nel quale la Russia era una grande potenza mondiale, e ha espresso la volontà di potenza nel cercare di riprendersi qualcosa che considerava suo. In questo c’è ancora una struttura novecentesca della vicenda, soprattutto nel modo nel quale è avvenuta, ma in una condizione mondiale diversa e che sarà ulteriormente diversa ancora dopo questa guerra”.

Biagio De Giovanni è filosofo e politico. Accademico dei Lincei e docente emerito di Filosofia politica presso l’Università L’Orientale di Napoli, di cui è stato rettore dal 1987 al 1989, dal 1981 al 1986 ha diretto Il Centauro. Rivista di filosofia e teoria politica. Nel 1989 e nel 1994 è eletto al Parlamento europeo prima nelle file del Partito comunista (PCI) e poi del Partito democratico della sinistra. Affrontiamo con lui i recenti eventi di guerra in Ucraina e di come essi si stanno interpretando in Europa, segnatamente in Italia.

Lei proviene dalle file della sinistra italiana. Come giudica le reazioni di una parte della sinistra alla guerra di Putin? “Devo confessarle tutta la mia amarezza e il mio sconcerto di fronte a questa guerra. In se stessa, naturalmente, e per le reazioni che vedo in Italia. Nella sinistra italiana, in particolare, vi è di risulta un antiamericanismo diffuso. Essa ha ereditato il peggio di quel che è rimasto del vecchio Pci. Sta emergendo nelle reazioni di un pezzo importante del popolo italiano qualcosa delle tesi che hanno brillato in tempi passati, quando si pensava che l’unione sovietica avrebbe avuto un ruolo mondiale significativo e per lungo tempo.

Quella “spinta propulsiva” che il Pci dichiarò esaurita soltanto nel 1981. Anche qui ci sono tuttavia differenze dal passato: è venuto meno lo scontro ideologico, l’Urss non c’è più, ma quel residuo ideologico si è trasformato in una forma di pacifismo antiamericano. Lo vedo anche in gran parte delle trasmissioni televisive. Si parla molto più di Biden che di Putin. Come se la colpa fosse dell’America. E l’invasione di Putin, una reazione alla presenza della Nato. Tutto questo esprime in realtà un forte sentimento antiamericano”. Come se lo spiega? Come mai nella sinistra? E’ una sinistra che non è mai uscita dalla fine della fase storica precedente? “Il Pci era un grande partito, così come la Democrazia cristiana (Dc), non solo perché aveva un grande consenso di massa, ma perché aveva una grande classe dirigente. Si trattava di classi dirigenti colte, persino aristocratiche, e – nonostante limiti e difetti – responsabili per il paese. Queste classi dirigenti, nella struttura dei partiti d’allora, governavano il popolo, cercando di superare e d’educare le zone di plebeismo.

Quando sono finite queste classi dirigenti e il sistema dei partiti è venuto meno, il popolo è rimasto solo. Sorgono così i Cinque stelle. Nei quartieri popolari di Napoli dove il Pci prendeva il 70 per cento dei consensi, nel 2018 i Cinque stelle hanno preso il 70 per cento. I temi della protesta – ‘la casta’, ‘sono tutti disonesti’, la palingenesi sociale, con l’aggiunta dell’‘uno vale uno’ e così via – trasformavano rozzamente, fino a renderle irriconoscibili, pulsioni presenti nella massa aderente al Pci, perché lì c’era una classe dirigente che li mediava, magari in chiave moralistica, disinnescandone tuttavia la carica eversiva o qualunquista, in favore della differenza morale”.

Biagio de Giovanni

E Salvini? “Salvini è Salvini e si comprende in una chiave di lettura più modesta”.

E tuttavia rimane aperta la domanda, assieme allo stupore, su come mai l’adesione convinta all’Europa dei nostri partiti e dei loro leader non ha culturalmente mediato in maniera sufficiente l’antiamericanismo. “Ciò che qui non è mai davvero passata è l’idea di occidente composto da America ed Europa assieme. Noi consideriamo l’Europa un’altra cosa dall’America. L’America rappresenta un di più che non viene accolto. Certo l’America è un impero, una leadership mondiale che ha fatto molte guerre, alcune delle quali erano infondate (penso alla Seconda guerra del Golfo), il cui interventismo politico non sempre è stato fondato e motivato. Talora per eccesso, e talora per difetto. Come non menzionare la recente fuga da Kabul? Ha avuto presidenti pessimi, ma il sistema democratico li ha cambiati, ha ricompreso in se stesso gli effetti negativi. Nella spinta americana ad affermare materialmente, anche con la violenza, la propria leadership nel mondo c’era qualcosa di più rispetto alla vicenda attuale di Putin, che è paradigmatica dei sistemi autocratici.

Anzitutto le motivazioni e la ricerca d’agire entro il diritto internazionale, con il consenso dell’Onu. Nella prima Guerra del golfo, l’Iraq aveva iniziato a invadere il Kuwait; l’Afghanistan fu la risposta all’11 settembre. L’America è stata un impero e certamente la componente della violenza è stata presente. Ma nelle democrazie è comunque una violenza mediata. Ogni civiltà la contiene in sé, ma bisogna distinguere.

Qui la violenza espressa da Putin sta assumendo toni ‘metafisici’, assoluti. Negli Stati Uniti sono stati possibili la nascita di movimenti di protesta di massa. La libertà di stampa è sempre stata garantita e ha svolto un ruolo critico fondamentale. Ha fatto dimettere presidenti. La partecipazione statunitense alla guerra del Vietnam è crollata sulle proteste interne, più che sulle sconfitte esterne.

Nelle dittature, nelle autocrazie no. In Russia se oggi pronunci la parola ‘guerra’ finisci in carcere perché, per la verità di regime, la questione ucraina è un problema interno alla nazione russa. Come lo fu la Cecenia. Un’‘operazione speciale’, quasi fosse un’operazione di polizia. Non si possono mettere sullo stesso piano. La democrazia fa sempre la differenza. Anche se i morti sono sempre i morti e sono uguali ovunque e comunque”.

Lei crede che il problema sia la Nato o la democrazia? Che cosa teme di più Putin? “La democrazia. Questa guerra va letta anche in relazione all’ulteriore involuzione delle istituzioni democratiche in Russia, un immenso continente che mai ha conosciuto la democrazia politica. Un minimo sviluppo degli istituti democratici si era aperto dopo il 1991, ma si sa com’è andato a finire. Quando Putin motiva l’attacco all’ucraina come risposta ai fatti del 1989 e rimette in campo la questione della grandezza del passato, anche quello imperial-zarista, significa che ha chiuso definitivamente per la Russia ogni prospettiva di sviluppo democratico.

Ma c’è poi in questo anche la volontà d’evitare che ai confini della Russia, nei territori che erano stati Russia, si sviluppi l’occidentalizzazione del sistema politico, motivazione forse centrale. Infatti il sistema politico ucraino andava decisamente in questa direzione. Nei confini che lui considera ex suoi non può entrare l’occidente, non si può sviluppare un sistema democratico rappresentativo. Più che la Nato è l’Europa che fa paura. Ma soprattutto l’unità dell’occidente, che peraltro la guerra pare stia provocando.

L’unità dell’occidente è la sola risposta possibile al declino dell’occidente, al suo indebolimento, al suo ‘suicidio’, com’è stato detto. Non a caso Putin stigmatizza un occidente in preda al degrado etico, di contro a una Russia che mantiene vivi i propri millenari valori morali. Naturalmente non è vero. Ma è vero che l’occidente appare, in molti aspetti della sua vita, una civiltà in declino, in difficoltà, e l’unità delle sue componenti su alcuni principi di fondo è la sola risposta.

Pensiamo a che cosa si sta sviluppando negli Stati Uniti con i movimenti ispirati alla cancel culture, a quell’atteggiamento di colpevolizzazione di sé che giunge alla negazione di un’intera civiltà, dove l’occidente è descritto come un mostro violento, autore di genocidi nel passato e oggi nella totale anarchia e decadenza anche morale”.