LA NUOVA HOLLYWOOD NELL’OPERA DI UN GENIALE REGISTA

Filosofo e poeta della meraviglia. Stanley Kubrick. Settant’anni fa veniva proiettato a Venezia «Fear and desire» in cui già si evidenziavano le tematiche care al regista: la geometria delle trame, le riflessioni sulla violenza e la diffidenza verso storia e politica.

Lucien Goldman, un grande studioso di letteratura e filosofia, consigliava ai suoi studenti (ero tra quelli) di leggere con la massima attenzione l’opera prima di uno scrittore, la più rivelatrice di tutte della sua ispirazione e del suo carattere. Nel caso del cinema, il consiglio può valere soltanto per registi come Stanley Kubrick (New York 1928 – Londra 1999), che, partendo dalla sua passione per la fotografia, divenne in qualche modo il produttore di se stesso con Fear and desire. Il film suggerì più tardi il titolo a Enrico Ghezzi per una brillante raccolta di saggi e fu proiettata alla Mostra del cinema di Venezia nel 1952 con il titolo Shape of fear nella sezione denominata Festival del film scientifico e del documentario d’arte. La curiosa e dimenticata vicenda di questa proiezione è stata ricostruita dall’Archivio Storico della Biennale ed è una delle tante scoperte del voluminoso tomo (1328 pagine, di cui 333 di illustrazioni) di Gian Piero Brunetta, La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 1932 – 2022 (Marsilio, € 42), dall’8 luglio nelle librerie.

Kubrick si lanciò nella regia fuori da ogni produzione e circuito ufficiali, aprendo la strada anche in America a un cinema davvero nuovo, davvero “d’autore”. Lo fece seguire da Il bacio dell’assassino (1955) e soprattutto da quel Rapina a mano armata (1956) che lo impose come uno degli autori più forti della nuova Hollywood. Nel primo non vi era ancora un suo tratto distintivo, l’amore per il Settecento e la sua storia e cultura, ma anche lo sfondo non casuale del castello di Orizzonti di gloria (1957), e il progetto, purtroppo non realizzato, a lungo sognato, di un film su Napoleone, in definitiva sul ruolo della personalità nella Storia. Segnali di quel secolo vi sono in quasi tutti i suoi film, soprattutto in Barry Lyndon (1975), e ovviamente nella sua visione del mondo, perfino nel fantascientifico 2001 Odissea nello spazio (1968). Una logica non sempre fredda e distante, e che solo nell’ultimo film, Eyes wide shut (1999, a chiusura di un secolo che è davvero stato «il secolo del cinema»), sembra aver conquistato una serenità anche affettiva, una sorta di raggiunta comprensione umana non distante, non fredda (che al festival di Venezia non venne affatto apprezzata, e ricordo le liti che insieme ad Alberto Farassino dovemmo sostenere con amici e colleghi che avrebbero voluto che l’ultima opera del Maestro fosse un altro super-film nella linea dei suoi più arditi e spettacolari).

È peraltro ben vero che, con Fellini e in parte con Spielberg e Leone, Kubrick è stato uno dei registi che più hanno creduto nel cinema come suscitatore di “meraviglia”: «è del poeta il fin la meraviglia», scrisse un tale, e tanto grande cinema lo ha avuto presente. Fear and desire non poteva permetterselo, ma ebbe tanti dei caratteri che segnarono le future opere del regista: la perfetta geometria delle narrazioni, le riflessioni sulla violenza e crudeltà degli esseri umani e della loro Storia, sulla diffidenza verso la Storia e i suoi strumenti politici, sulla ripetitiva povertà dei nostri sentimenti… Ascese e cadute, ordine e caos, passione e ragione diventano da subito i poli fondamentali di un’opera che, dopo Fear and desire, abbandonò spesso il presente per volgersi al passato (come Spartacus, 1960) e al futuro, alle nostre speranze e possibilità, ma anche alle nostre condanne: vedi la logica folle del Dottor Stranamore (1964), la violenza dei singoli e del potere in Arancia meccanica (1971), la visionarietà mortuaria di Shining (1980) tra un passato sotterraneo e il futuro dentro una società affluente, produttrice di frustrazione e follia, ma con qualche accenno di miglioramento, nella capacità del bambino e del nero di un “sentire” non malvagio, come quello dell’esemplare intellettuale reso da Jack Nicholson…

Insomma, e per non insistere: Kubrick, con Buñuel e Tarkovskij e pochi altri, non è stato soltanto un grande regista cinematografico, ma anche, diciamolo senza remore, un grande filosofo. Il cinema ha dato autori altrettanto importanti e significativi e illuminanti dei grandi filosofi e dei grandi scrittori e artisti del Novecento. E Kubrick è dei pochissimi che abbiano cercato di dire che di una nuova armonia c’era e c’è bisogno, tra il vecchio istinto e una nuova ragione, tra realtà e sogno, tra violenza e pace, e, se non ha creduto in un nuovo protagonismo femminile, ha quantomeno creduto nella possibilità di una visione. Quando Kubrick morì mi toccò l’onore di ricordarlo in pubblico, a Roma, insieme ad Antonio Margheriti, che con lo pseudonimo di Anthony Dawson diresse molti film western e polizieschi negli anni Settanta, ma che era stato chiamato a Hollywood direttamente da Kubrick perché prima che regista era un maestro, con l’amico Bava, nella difficile arte dei trucchi… Il ritratto che egli ne tracciò era di un uomo tanto esigente quanto civile e, aggiunse, buono: attento al lavoro altrui e con le idee chiarissime su quanto aveva da chiedere ai suoi collaboratori. Insomma: una grande persona e un grande e geniale artista dell’arte più importante e universale del Novecento.

Articolo di Goffredo Fofi per il Sole 24 Ore domenicale